Critica
Tornello appartiene alla razza dei siciliani meditativi; piuttosto solitario e pensoso, egli suole tentare e ritentare lo stesso motivo con animo attento. Lo ha affascinato anche, per un certo periodo, la possibilità di organizzare lo spazio della tela in modo autonomo, pur sempre partendo da un dato naturale.
Una mostra di Tornello non è soltanto una somma numerica di quadri, è una cosa diversa e nuova, ha il senso di un’anima che si sfoga come certi racconti contemporanei. Non c’è una confessione alla decorazione, alla bella pittura. Tornello adopera il segno, il colore, come le lettere dell’alfabeto. Per lui non c’è un segno bello o brutto, c’è il segno, non c’è un impasto attraente oppure sporco, c’è il rapporto colorato e basta.
L’attualità di Tornello, la sua stupefacente sensibilità critica lo ripropone oggi come artista “validamente sociale” nel senso che contribuisce culturalmente ad un processo innovatore della tradizione figurativa siciliana. Il sole, la luce, il colore, il sapore, direi, di una terra diventata favola nuova o rinvigorita dalla risultante che l’artista ora ci propone.
La pittura di Tornello possiede un suo carattere consistente, non epiteliale. Un carattere, voglio dire, intrinseco: mai edonistico né appositizio, e che testimonia di un severo impegno euristico innestato e germinato sempre sulla matrice della natura.
Innamorato della sua terra, Mario Tornello la esprime nei suoi quadri come Ciardo la Puglia, come Tosi la Lombardia.
Mario Tornello è un autodidatta, un pittore di istinto che trae dalla sua tavolozza le tinte più strane, così come le sente. Un pittore che gradatamente, da solo, s’è andato maturando imponendosi una disciplina e passando, da ricerca a ricerca, ad un suo personale linguaggio.
L’artista non è mai venuto meno al canone della libera personale interpretazione della realtà; e nella riproduzione di essa ha espresso sempre i suoi interni stati di animo: sia quando ha dipinto le “miniere di zolfo”, o i quartieri meno riprodotti di Parigi, ma più toccanti la sua sensibilità; sia quando ha dipinto i tipici cortili di determinanti ambienti siciliani, o le brune campagne dell’isola, le chiese, le fabbriche, fino alle tipiche figure dei venditori ambulanti, dei minatori, delle cucitrici etc.
La sua pittura è nata come sentimento, come fatto poetico: la sua allegria e il suo ottimismo – a volerci pensare bene – sono il risultato di una sua peculiare sensibilità. Da qui i suoi interessi culturali, il suo iniziale realismo pittorico non dilatato sino alle estreme conseguenze di maniera, ma reso dramma e poesia insieme nel linguaggio dei suoi colori, nella soluzione cromatica delle tele, in quei volumi corposi, postcubisti, nel disegno scandito, nelle campiture decise, a volte pastose, a volte monocromatiche. I suoi quadri sono stati affiancati, in numerose collettive, a quelli di Guttuso, Migneco, Greco, Attardi, Caruso. Ma il riconoscimento maggiore, superiore – per Tornello – ad ogni altro premio, è consistito per lui nello invito ricevuto da Picasso che, dovendo allestire una mostra da tenere a Roma, Parigi e Londra, ha incluso nella rassegna, con Morandi, Guttuso, Capogrossi, anche due significativi disegni di Tornello.
Tornello è uno che cammina adagio, senza improvvise impennate, ma è andato sicuro, con l’occhio sulla strada giusta, anche nel cattivo tempo che ha imperversato sotto i nostri cieli. Lasciata la Sicilia, l’ambiente romano lo ha spinto a crearsi un solido mestiere, a eliminare quel che poteva esserci di manierato, di non autentico nella sua arte, a tener d’occhio la problematica moderna nel suo divenire, senza uccidere il suo nativo entusiasmo, la fede nell’arte, l’amore per il colore.
Una visione incarna forse questo sentimento di Tornello; una visione che a ogni ritorno di primavera lo aspetta nell’isola lontana della sua Sicilia, quella di una carcassa di barca abbandonata dentro la quale cresce una pianta meravigliosa, come la piantina verde sul palmo della mano anchilosata del fakiro dell’India, questa forza della natura che prorompe e si spande che è la forza che ci fa vivere e relega nell’ombra o al suo ruolo limitato le malinconie e la paura di prima. La nostra paura di vivere.
Dal paesaggio vulcanico a quello lunare, dalla lava al fossile il passo è breve, ma soprattutto è inevitabile per un siciliano come Tornello, che voglia arrivare alle estreme conseguenze bruciando le tappe senza pentimenti né esitazioni.
Tornello, presentato da Renato Guttuso, sembra interessarsi in modo più vivo alla figura umana. Ma il tramite stilistico per mezzo del quale egli cerca di visualizzare le sue sensazioni e le sue emozioni con nobiltà, è una sorta di arcaismo, desunto, dice Guttuso, direttamente dalle grotte preistoriche d’Addaura, e dai sensi lasciati in Sicilia dai Fenici e dagli Arabi. L’effetto dello spettatore è piuttosto vicino a quello suscitato da operazioni simili, realizzate in Italia da artisti che vanno da Campigli, a Sironi, a Cagli, a Mirko ecc...
Tornello ha reso perfettamente Ustica con un suo affresco che rappresenta una barca tirata in secco giù nella piccola caletta del porticciolo. I suoi colori sono forti così come i colori di Ustica stessa.
La pittura di Mario Tornello e la materia dei suoi quadri si sono col tempo pietrificate in un processo irreversibile di indurimento come quello del cemento che solidifica: quasi che la poetica degli umori liquidi e lacrimosi, dei languori evanescenti, la stessa mollezza umida dei colori, appena evaporata, volessero arrivare ad un punto o ad un momento di durezza pietrosa ed essenziale.
Percorrendo questa strada, l’iter cioè del lavoro di Tornello, abbiamo visto le zolfare gialle della Sicilia costellate di buchi neri come antiche necropoli, poi le case delle Eolie bianche di calce circondate dal ficodindia, le spiagge deserte con le macchie verdi che nascono spontanee a ciuffi. Poi, d’improvviso, questi paesaggi sono scomparsi come sepolti dalla lava di un ipotetico vulcano che brucia gli ultimi cespugli della vita e ricopre implacabile la superficie di quel lembo di terra ideale che il quadro racchiude, soffocando soprattutto la speranza del messaggio che sempre nel quadro si cela.
Tornello è diventato una delle più vive personalità della sua stagione. Tecnicamente impeccabile, sia nelle tempere, che negli olii. C’è piuttosto da parlare dell’interpretazione poetica della Sicilia fatta di Stromboli e di vento, di una incantata dimensione di spazio dove linee e colore s’incartono per dare al quadro una suggestione mitica e nuova, frutto di tutte le lezioni che Tornello ha digerito per offrire la propria esperienza d’artista.
L’isola senza tempo, l’isola amara e felice è ancora musica nel cuore dell’artista; e sta nei suoi pensieri come diagramma sottile che ricompone l’intero senso della realtà. E’ nella tela informe, sulla quale prenderanno consistenza le montagne e le acque, i paesi abbacinati dal sole zenitale, come luogo della memoria e dell’invenzione. Mario Tornello, l’isolano di Roma, ama questa superficie vuota di struttura che egli riempirà di vita; la più scrupolosa professionalità, equilibrio prospettico, dosatura della luce, un processo severo di stratificazione del colore sono il supporto del suo linguaggio, insieme concreto e visionario, fatto di cose e di indefinibili vibrazioni.
Fu in seguito, al Premio Tettamanti, che risentii parlare di Tornello. Qualcuno che lo aveva proposto per un premio (poi assegnatogli) avanzò delle considerazioni sull’artista e si venne così parlare con Quasimodo sul destino di chi nasce troppo presto (o troppo tardi) nel confronti delle correnti ideali del proprio tempo. Ricordai allora quello che avevo avuto occasione di dire, tempo prima, a colui che consideravo il più illustre scultore italiano: “Che fortuna per lei, essere nato nel 1908! Se fosse nato qualche anno più tardi, non le avrebbero permesso di diventare Manzù!” A Tornello, nato nel 1927, è toccato in sorte d’affacciarsi al suo mondo, che è quello dell’arte, soltanto al crepuscolo di una stagione fervida, che molti fatti fanno pensare sarebbe stata la sua. Il fatto che anche nelle sue più sognate sinfonie coloristiche, a livello di un’astrazione di qualità, egli non rinuncia mai alla forma; quello che egli, nell’attuale ostentazione di vuoto ideologico e concettuale, abbia idee e volontà di esprimerle; e finalmente la sua passione per l’archeologia e per l’arte dei secoli passati dei quali egli vorrebbe trattenere e perpetuare la lezione.
Quest’artista procede per grandi campiture tonali su grafie preesistenti e insiste ora con una certa durezza ora con grazia su scene di mare e pescatori. La tavolozza chiara inzuppata di azzurro, un colore che tende a superare la maniera della grafia in una autonomia pittorica, sono le qualità riconoscibili di Mario Tornello...
Mario Tornello – siciliano “meditativo”, che accumula per strati (l’accumulazione non è solo un vizio della “roba”: è anche una virtù, siciliana, dell’esperienza intellettuale) – mostra una parentela con Borges, in buon grado, specialmente con quel suo fare cose insieme aguzze e dai sontuosi gonfiori; scavate, frugate spietatamente nei visceri, eppure lisce di una luminosità radente; uomini (che ghignano dolori o sorrisi), paesaggi, oggetti di pittura, in cui l’uomo giunge a riconoscersi; maschere, fantocci, “mostri”, trattati con le sfilacciature – di luce interiore – di cui i veri poeti fanno i propri versi.
Il reale, nella pittura di Tornello, è tutto proteso al di fuori della genericità, scavato nei meandri di una ricerca, di una aspirazione a chiudersi nel rapporto tra artista e ambiente sempre al di là di ciò che si vede. Ed è una tensione tremula, accorata, quasi lirica e drammatica insieme, sacra, nella sua grammatica. Promontori e modesti sillabari del mare e quegli “oggetti misteriosi”, tanto amati dall’artista, fanno di un fossile ora il corpo di un uomo ora il canto senza fine di un ecosistema ai confini delle sue risorse.
Le tele di Tornello escono già dai limiti del consueto figurativismo per una ricerca tonale evidentissima, per una volontà di asserzione tutta stillata in termini quasi di linguaggio psicologico, clima, atmosfera, ma anche per il coraggio di ripigliare il tema della figura umana, della composizione sia pure nella indecisione d’un astrattismo slavato, lontano dagli appigli dell’atto gratuito.
Mario Tornello, tramite personaggi, cerca di rinnovare il linguaggio della sua arte, dipingendo il mondo e la vita, con una partecipazione appassionata e schietta che rifugge da ogni compiacimento intellettualistic.
Il titolo di “relitto” ricorrente in vari quadri – con carcasse di barche lasciate sulla riva – non qualifica soltanto quelle tele, ma in un senso più generale, la poetica di Mario Tornello. Quelle strutture che si scardinano, che si disgregano non sono solo le ultime tracce della rinuncia dell’uomo ad una fatica non compensata. Sono, anche, le immagini traslate di altre costruzioni che abbandonate a se stesse, si disfano (e della inesorabilità del volgere del tempo, della implacabilità degli elementi, quali si affermano là dove il costruire può avere perduto il suo significato: là dove l’opera è destinata a regredire il suo originario stato di materia inerte). Insomma, tutto è – diciamo – “relitto” (rare le illuminazioni della natura in rigoglio) nelle metafore pittoriche suggerite all’autore dalla sua terra di origine, la Sicilia: dove i bruni rossastri o nerastri, i gialli opachi, i verdi macerati, da magma vulcanico o da argilla, si insinuano un po’ in ogni cosa.
C’è, in questo pittore di grandi asprezze e di grandi abbandoni, una sorta di ansia tellurica, quasi – si direbbe – di ritorno alla terra e al mare sotto forma di colluttazione. Niente è pacifico, nella pittura di Tornello; niente induce alla contemplazione e alla rassegnazione. Vi respira piuttosto un’ebrezza carnale che si trasforma in materia ctonia, rupestre, in maschera catafratta in difesa. I paesaggi hanno lo stesso corpo degli uomini e degli uccelli, non hanno rapporto con l’aria ma col ferro e roccia. Tutto, in questo pittore in cui anche la luce pare salire dalle viscere della terra o dagli abissi del mare, parla di energia muscolare in movimento. Il tempo che passa su queste immagini è quello della devastazione, e in questa dimensione al tempo stesso arcaica e duramente presente si articola la forza di un artista che non descrive i suoi sogni, ma determina il profilo delirante dei propri incubi bloccandone il tumulto nella misura dello stile.
C’è in lui, Mario Tornello, come nella sua pittura, una frenetica ansia di esprimersi e di comunicare, una interiore disponibilità ad amare e a donarsi.
La poesia di Mario Tornello è di quelle che si leggono non con gli occhi, ma con il cuore: perché col cuore del figlio devoto e dell’artista innamorato è stata scritta.
Ricordo bene la sera in cui mi si presentò con un fascio di fogli tra le mani. Pensai subito a nuovi disegni. Che altro potevo pensare, del resto, conoscendo Tornello pittore? Ricordo ancora che fui proprio io a suggerirgli di pubblicare le sue poesie che mi sembrarono subito bellissime. Da allora diventai la “lettrice segreta” dei versi di Tornello.
Dalla poesia di Mario Tornello si impara certamente il desiderio, quel desiderio che cerca l’anima e si invera nel gesto sacrificale della scrittura con cui il poeta ricostruisce le relazioni, le avventure spirituali e che, nella poesia “Littra a dda Sicilia buttana”, raggiunge vertici di struggente liricità.
L’isola è una condizione geografica o è qualcosa di più? Forse un rovello continuo, una struggente amarezza, o forse è un “dolce” veleno che condisce di letterarietà le grigie e monotone giornate che ingabbiano le esistenze dei più? Così i venti componimenti di Mario Tornello che sono racchiusi sotto il titolo “L’isola della memoria” (Sciascia, 1984) costituiscono un itinerario sia temporale (1961-1983) che geografico (Palermo-Roma). I temi sono quelli che già erano nel Tornello pittore: quel ritmo ossessivo del tempo che diventa osservazione letteraria delle cose quel tempo che è per Tornello anche “il ritmo ossessivo della persiana/che non regge più/il grande rampicante” o diventa “collina nebbiosa del tempo” per consentire uno spazio al vivere da poeta, quel tempo ancora che “cuce le tele dei giorni”, quel tempo che, appunto, è tempo della memoria, tempo del trascorso.
Mario Tornello sa trasfigurare in canto le sensazioni più intime perché, come egli dice, ha bisogno di “una festa dell’anima.
L’espressione “a braccia aperte” è senz’altro un invito all’Amore nel senso più alto del termine: amore per l’autore dell’Universo, amore per tutte le creature che vivono sul pianeta Terra, amore per la meravigliosa Natura dentro la quale viviamo. Leggendo i versi di Mario Tornello mi è venuto in mente lo stupendo mito platonico della caverna, tutto giocato sulla metafora della Luce (che è poi, Poesia, Monte Tabor, Trasfigurazione).
Mario Tornello è un poeta che è, ormai, un punto fermo della cultura italiana, un punto di riferimento obbligato...
Turi Vasile, noto regista, drammaturgo e scrittore d’origine messinese, parlando dei “siciliani della diaspora”, ha sostenuto che la vera Sicilia oggi non sarebbe nell’isola ma nella sua diaspora. Presa alla lettera l’idea di Vasile può presentarsi come una provocazione scomoda, tuttavia lo è di meno e più veritiera – io direi – se assunta nelle sue valenze metaforiche. Mario Tornello, pittore, narratore e poeta d’origine palermitana il quale ama definirsi un siciliano in esilio a Roma dal 1960, ha conservato vivo il suo sentimento di sicilianità. Egli ha trascorso gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, a Bagheria e a Palermo. E oggi in lui – parafrasando Turi Vasile – nelle memorie che confluiscono all’interno della sua scrittura letteraria, c’è più “palermitanità” di quanto non se ne rintracci adesso a Palermo (o, immagino, a Bagheria). Elemento che io trovo più immediato e scoperto in molti dei suoi racconti (in sintonia con la sicilianità di scrittori come Vincenzo Consolo, Andrea Camilleri, lo stesso Turi Vasile, Antonio Castelli, Melo Freni e ancora tra i contemporanei qualche altro) che possono leggersi sia in “Il signor Piazza ed altri racconti” (Palermo, 1989) sia ne “Il fiore sul vulcano” (Palermo, 1995).
Le storie narrate da Tornello con grande acutezza di osservazione sono colme di verità spesso amare, frutto dell’accumulo di tanti minuscoli frammenti di vita che hanno lasciato tracce di sé, e in esse persino le angosce si nobilitano e offrono motivi di riflessioni.
Mario Tornello esprime come sa le sue sensazioni e la sua visione della realtà: ne avesse acquistato la tecnica, si esprimerebbe anche in musica, ma la parola non ha segreti per lui per cui riesce a descrivere, con stupendo e disarmante linguaggio poetico, quanto di universalmente valido vi è nelle sue personali sensazioni e memorie.
Nelle sue liriche, come nella pittura, Mario Tornello esprime sé stesso liberamente e coraggiosamente, senza seguire nessuna corrente, indirizzo o raggruppamento, ma se la pittura riflette tutti i lati della sua natura, inclusi anche quelli sommersi del suo carattere, la poesia ci trasmette la parte alta ed ideale della sua anima.
“Pochissimi artisti hanno il privilegio di inverare le idee: Mario Tornello è uno di questi! Le idee gli vengono porte sulle ali della storia che egli decodifica non solo con la razionalità dell’uomo ma anche con la fantasia plurima e singolare, che afferisce alle radici della millenaria cultura della sua terra di Sicilia.
Erede di cotanta tradizione, che ha visto la corte di Federico II culla della prima letteratura italiana, punto d’incontro, crogiuolo delle maggiori menti dell’epoca, esempio ante litteram di ecumenismo artistico culturale, il Tornello, pittore, poeta e narratore, ha la disponibilità a recepire (propria delle grandi anime) che pur nel frastuono della contemporaneità riesce a prestare ascolto al pigolio d’un passero, al montare delle maree, allo sciabordio delle barche sotto costa.
Il suo occhio curioso è attento alla bellezza della natura (quando l’uomo non l’ha deturpata) al mutare dei costumi, delle tradizioni ma anche allo scempio che tanta scultura e architettura provoca all’armonia; s’eleva, quindi, alto il grido di ribellione dell’uomo e dell’artista a stigmatizzare la follia suicida di questa società che per smania di profitto ruba non solo i sogni ai nostri ragazzi ma anche il futuro al pianeta terra”.
Mario Tornello era un amico sincero e affettuoso, un letterato di valore e un uomo che ha saputo vivere bene la vita fino all'ultimo. Il suo ricordo ci conforterà per la perdita; i suoi molti scritti, le opere da lui prodotte nell'arte del segno, certamente gli sopravvivranno. Io lo ricorderò sempre come una persona speciale, di grande valore umano e culturale.
Il mio personale ricordo, basato su poche telefonate e pochi contatti, riguarda la sua signorilità, la sua gentilezza d’animo.
Pittore, poeta e narratore. Mario Tornello è stato tutto questo. Nato a Palermo, ha cominciato la sua vita artistica come pittore. Trasferitosi a Roma, dove ha vissuto per mezzo secolo, ha tenuto mostre personali e partecipato ad oltre 200 rassegne in Italia e all’estero. Tornello però ha sempre amato la sua Palermo, e quando poteva vi faceva ritorno. In città era molto conosciuto… Ha collaborato con riviste letterarie e le sue opere sono state tradotte in molte lingue, specialmente in russo dalla moglie Irina Barancheeva, corrispondente da Roma per la “Literaturnaja Gazeta”. Chi lo ha amato lo ricorda nel suo studio, sempre vivace e solare, con l’entusiasmo di un fanciullo. Sino all’ultimo ha continuato la sua attività artistica.