Apollo 2011

Ricordo di Mario Tornello

Apollo 2011 Neppure la magia di Akiro Kurosawa, mirabilmente espressa nel suo Rashomon di oltre mezzo secolo addietro, riuscirebbe a convincermi che, “...a ben vedere...”, la morte non esiste: Mario se n’è andato, ci è stato rubato, è scomparso, non c’è più, mettiamola come volete, ma non riuscirò a consolarmi pensando che “...non è morto e ci aspetta di là”.

E quindi vi prego di concedermi di non stare, com’è consuetudine, a tessere le lodi del poeta e del pittore defunto: altri l’han fatto, e lo faranno ancora, molto meglio di quanto io non riuscirei a fare. Consentitemi, dunque, di raccontare che avevo un amico, uno dei pochissimi, di quelli che bastano le dita di una mano per contarli, e l’ho perduto. Questa è la cruda verità con cui, piaccia o no, ci si deve confrontare. E non mi consola per niente il fatto che ciò sia avvenuto in omaggio a una immanente, ineludibile, eterna legge naturale, alla quale niente e nessuno può sottrarsi.

Non era, la nostra, un’amicizia nata ieri e neppure trent’anni fa: noi fummo Balilla, insieme, e “vestivamo alla marinara”! Abbiamo visto arrivare, e guardavamo col naso all’insù, stupefatti più che spaventati, gli americani, gli invasori (o i liberatori, secondo i punti di vista!) che, dall’alto dei loro carri armati, grandi quanto una casa, lanciavano caramelle e scatolette di marmellata, per ingraziarsi la benevolenza dei locali, per altro abbastanza ben disposti.

E ascoltavamo Gershwin, venuto, per noi, insieme a Steinbeck e al boogie-woogie e alle bombe delle Fortezze volanti e la “corned beef” dei liberatori, Mario e io, passeggiando smarriti sull’onda di quella musica nuova e del tutto sconosciuta, che veniva a sconvolgere le nostre simmetrie consolidate e che, sia pure inconsciamente, credevamo immutabili.

Oggi, anche in Italia, la musica di Gershwin non sbalordisce più nessuno ma, ai primi degli anni ’40, quando Mario ed io eravamo appena adolescenti e giocavamo a foot-ball con una palla fatta di stracci, cuciti ben stretti insieme perché potesse rimbalzare almeno un po’, le cose erano ben diverse, perché ben diversi erano gusti, abitudini e conoscenze, anche musicali, degli italiani.

Eravamo abituati, almeno nel campo della musica popolare e, quindi, più diffusa, alla tipica canzonetta che raccontava, in musica, un fatto, un episodio di vita ed era costituita da una strofa, seguita da un ritornello, cui seguiva un’altra strofa e quindi altro ritornello e, a volte ma non sempre, un finalino per concludere il discorsetto musicale.

Alcune canzoni narravano di storie lunghe e complesse e, per esigenze di descrizione narrativa, comprendevano addirittura tre strofe e, quindi, altrettanti ritornelli. Ma la struttura della composizione rimaneva, sostanzialmente, quella: perfettamente simmetrica e prevedibile, anche negli accordi e nella successione dei toni (minore per la strofa, maggiore per il ritornello …).

E le storie narrate dalle canzonette descrivevano fatti e sentimenti semplici e tradizionali, storie banali e, più frequentemente, addirittura lacrimevoli: amori non ricambiati, speranze deluse, infanzie maltrattate, giuramenti infranti; ma anche fiducia nel futuro, amicizie indissolubili, l’amore per la mamma e così via. E i testi, di quelle canzonette, erano sempre rigorosamente in rima, costruiti addirittura con l’uso del “rimario”.

Soltanto qualche cantante (Natalino Otto, Alberto Rabagliati, il Trio Lescano...) che, occasionalmente, aveva avuto modo di conoscere realtà culturali differenti, da quelle di casa nostra, eseguiva canzonette il cui testo era a rima libera; o dava una interpretazione insolita (la si definiva, piuttosto grossolanamente, “sincopata”) della tipica canzonetta italiana. Ma si trattava, pur sempre, di rare eccezioni, considerate come vere e proprie bizzarrie.

La musica di Gershwin, per naturale conseguenza, ci appariva assurda e incomprensibile. L’incipit della Rapsodia in blue, ad esempio, con l’assolo del clarinetto che sembra produrre una cascata di note, degradanti in successione graduale e costante, dai toni bassi via, via verso quelli più acuti, ci faceva trasecolare e chiederci: “ma che vuol dire?”.

Non capivamo (eravamo poco più che bambini!) che, quella musica, ci diceva che Roma non è più immortale (o non lo è mai stata? O lo è sempre, malgrado tutto?).

Mario, però, fu conquistato da quella musica nuova, che lo accompagnò sempre, in seguito, insieme a quella di Chopin, nei momenti delle sue invenzioni artistiche. E, infatti, sia Gershwin sia Chopin sono una presenza fondamentale in alcune sue ispirate composizioni, racconti e poesie; o gli hanno dato compagnia mentre inondava di colori e di luce le tele con cui creava visioni oniriche dell’adorata, eoliana Stromboli.

Eravamo in pochissimi, fra tante conoscenze, a poterci dire veramente amici: amici di quelli che stanno bene, insieme, sempre e comunque, talvolta anche senza dire una parola, per lungo tempo, in un silenzio che è condivisione, tacita concordanza di idee.

E passeggiavamo a lungo, di sera, in quel silenzio quasi complice, magari tirando calci a un barattolo o a uno scatolo di cartone che, in quei tempi, era abbastanza facile trovarsi fra i piedi; o scendendo alla diavola, in bicicletta, dai tornanti del Monte Pellegrino, nella nostra bella e sventurata Palermo.

Adesso non c’é più, Mario (e forse neanche Palermo!), e bisognerà farsene una ragione. Ci mancherà la sua ironia, il suo inguaribile buon umore, la sua generosità, a volte mal ricambiata; la sua voglia di vivere che lo faceva apparire giovane anche ad anni ...anta abbastanza avanzati.

Ci resta solo la speranza, l’illusione, forse, di ritrovarci ancora, guariti da ogni male terreno, nei boschi eterni dei Giusti e degli amici perduti.

Piazza Armerina, Febbraio 2010

Pubblicato su “l’Apollo buongustaio” di Roma 2011