Cervara delle Scale
Intorno all’anno del Signore 1537 viveva nell’area territoriale di Roma, in uno dei palazzi nobiliari più imponenti che tuttora si specchia nel torbido Tevere, un giovane aristocratico di ricca personalità.
Di altezza oltre la media fisica di quel tempo e dai tratti somatici di rara bellezza incorniciati da fluente chioma bionda sfoggiava una carnagione eburnea sulla quale spiccavano imperiosi due occhi cerulei indagatori che caricavano lo sguardo di una intensità rara.
Ben conosciuto nell’alta aristocrazia romana per la sua cultura umanistica e per l’intensa vita libertina non difettava di una forza interiore pur intessuta di volubilità caratteriale.
Di eleganza ricercata, era conteso nelle serate cittadine dei palazzi di prestigio dove, spesso, le avventure amorose l’avevano condotto ad attirarsi ire e vendette.
Ma tale vita elargita tra lussi, avventure e insane attività libertine lo portarono, all’età di trentacinque anni, ad interrogarsi sui significati della vita e sulle sue incognite.
Fu pervaso da una crisi spirituale. Curava con passione l’attività venatoria con falcone per boschi e valli assolate alla ricerca, forse inconscia, di se stesso. Erano ozi che lo attraevano in un vortice di inadeguatezza alla vita cittadina. Non vide mai il sorriso di sua madre che perdette con la propria nascita.
Marchiato da una innata solitudine interiore curava l’espressione artistica della pittura per la quale era portato d’istinto, mediante la quale trovava linimento al suo rovinio interiore che camuffava in ogni modo.
Personaggi ed animali immaginari correvano nella sua mente e sulle tele sovrapponendosi in dissolvenze come espressioni di sentimenti rattenuti, compressi in lotta con se stessi.
Avvenne che, stanco di quella vita effimera e priva di concretezze che nulla conferiva al suo travaglio interiore, fosse folgorato da una decisione che gli segnò il corso della vita.
Decise di abbandonare quella vita dispersiva cittadina e di ritirarsi come eremita nel castello di famiglia a Cervara delle Scale sui Monti Simbruini, a mille metri circa di altezza.
Tale luogo, quanto mai ameno nella buona stagione, rifulgeva di un fascino singolare anche in quella invernale all’insegna della neve che l’ammantava; era come un’isola sui monti il cui nome rimandava ad una natura ubertosa dove il cervo viveva numeroso e la fauna era ricca e le sue due vie si ramificavano esemplificate da stretti cunicoli a scale, a larghi gradini, come tentacoli di cefalopode distribuiti in salita e in discesa.
Un superbo panorama, diradate le nebbie invernali, si offriva alla vista della pianura sottostante che rifulgeva ingemmata di balze verdi e declivi a corona di un torrente tumultuoso che provenendo dai monti sferzava la base posteriore del castello dei principi Barenchi.
Non esisteva una via piana a Cervara delle Scale e tutte avevano l’ampiezza a misura delle braccia aperte di un uomo.
Ogni passo degli abitanti e delle loro cavalcature risuonava tra quelle abitazioni addossate le une alle altre come gregge infreddolito. Lo zoccolio delle bestie conferiva una caratteristica particolare a quel sito montano così isolato e ne cadenzava le giornate.
L’intero agglomerato urbano era ristretto in un perimetro murario con due opposte porte d’ingresso vigilate. Una piccola guarnigione di uomini armati vi risiedeva ottemperando al loro compito esattoriale per passaggio di bestiame e controllo del vasto territorio boschivo.
Fu così che nel maggio del 1540 il giovane principe Baldirino Barenchi con cinque cavalcature al seguito vi giunse accompagnato dal suo fido Giuliano con il quale sin dall’adolescenza aveva diviso risse ed avventure.
In quel luogo, un po’ sinistro, arroccato tra monti silicei ed una natura endemica rigogliosa, battuto da freddi venti invernali, tra sonori antri sottostanti, sorgeva quel maniero di famiglia, vecchio di tre secoli su cui era trascorsa tanta storia del suo nobile casato.
Fino a quel mese di maggio, nell’alternarsi di giornate luminose e grigie di cielo, tra gelidi venti di tramontana, il tempo scandiva i suoi giorni dove i pochi contadini e pastori appartenenti a quel casato conducevano una vita grama insieme al bestiame, tenuto allo stato brado.
L’ala del castello che lo avrebbe accolto era stata riattata e resa più accogliente in breve tempo ed alcuni camini ripristinati per un migliore tiraggio.
Il giovane aristocratico, chiamato dagli intimi Irino iniziò, dunque, a vivere le giornate del suo ritiro spontaneo tra quelle rupi a circa mille metri di altitudine.
Ebbe, però, necessità di acclimatarsi per gli improvvisi sbalzi di temperatura che si alternavano tra limpidezza del cielo e giornate uggiose.
E fu certo che in tale esilio volontario dovette uniformarsi ad una vita quasi monastica esaltata soltanto dalla visione di un panorama sulla valle, impareggiabile.
Si adattò, presto, alle tante manchevolezze e disagi del luogo.
Dopo alcuni giorni trascorsi senza sortire dal castello colse l’invito di una giornata solare per aggirarsi a cavallo, seguito dal più fido dei suoi scudieri, nei paraggi tra radure e ombrosi cerreti dove il cinghiale, il cervo e tanta selvaggina vi stanziavano. Col falcone sull’avambraccio sinistro, godeva delle sortite venatorie.
Maggio s’inoltrava luminoso e le giornate erano sempre più cariche di quei vividi colori che rasserenavano l’anima.
Venne il giorno in cui, attenuata quell’esigenza conoscitiva che lo spingeva all’aperto, dispose su un ampio tavolo di una camera fatta adattare a studio, colori, pennelli, diluenti, vernici, attrezzi e terre varie per la preparazione di base delle opere che sarebbero nate.
Un giorno, di prima mattina, postosi dinanzi a tale materiale, assorto in profonda meditazione e con la mente affollata di idee, inchiodato in riflessioni non strettamente di ordine artistico, si rivide in città tra salotti mondani ed alcove forzate, tra compagni di bagordi represse dalla severità del padre con il quale non c’era mai stato un vero rapporto filiale.
Quel mattino, dunque, scuotendosi dopo lunga meditazione si approssimò al tavolo ingombro di quel materiale.
Da perfetto mancino iniziò a pestare nel mortaio di marmo, insieme a Giuliano, le prime terre amalgamate a sostanze resinose frammiste ad olio e trementina, dopodiché, su un foglio di pergamena tracciò una serie di segni, privi di una minima trama artistica.
Bastò questo breve rodaggio perché gli sorgesse, come da placenta, un viso femminile dagli occhi quanto mai inespressivi, assenti, a sprigionare d’improvviso la sua naturale creatività. Scartato quel disegno quasi informe ne giunsero altri in cerca di una loro identità.
L’intera mattinata la trascorse, dunque, nell’alternanza di quelle idee non definite e amorfe.
Aveva dato inizio alla sua attività artistica da impegnarlo per giornate intere. Le distrazioni erano minime durante tale ricerca creativa in cui sorbiva soltanto bevande calde e biscotti. Trascorsero circa due mesi con poche sortite all’aperto come licenza liberatoria.
Superata quella fresca estate, avanzava un mite autunno preannunciato da folate di vento che costringevano i sudditi del borgo a rintanarsi nei loro miseri tuguri. Giornate di nebbia cominciarono ad alternarsi ad altre luminose attraverso le quali la pianura sottostante spariva allo sguardo o risplendeva nel suo verde manto.
Giuliano pestava nel mortaio terre e minerali vari e nella stanza se ne spandevano gli effluvi resinosi. L’ampio camino scoppiettante era l’unica voce al di fuori delle loro due, quando, vibrante ed d’improvviso, Irino trovava l’imput giusto per sciogliere le trame dei suoi pensieri in cui affondava la sua creatività.
Sdraiato supino su un letto approntato o seduto su una sedia dagli alti braccioli rimirando le decorazioni del soffitto si perdeva in lontane immagini alla fioca luce di quattro lucerne ad olio alle pareti.
Preso da sentimenti in contrasto tra loro e folgorazioni improvvise trascorreva notti agitate da sogni ricorrenti innervati l’uno all’altro da ossessive macerie di palazzi abbattuti tra i quali gli era difficile procedere.
Non se ne spiegava il significato.
L’indomani, nel grigiore di un mattino ovattato ed intristito da una nebbia che cancellava la visione della pianura, si ritrovava infreddolito, pur sotto due coperte di lana per cura del suo Giuliano.
Sorseggiando una buona tazza di latte sentiva d’essere ancora permeato dalle idee compositive del giorno precedente che gli si erano chiarite.
Su quelle superfici sortivano, allora, scene agresti e mitologiche tra cavalli rampanti, boschi ombrosi e tra esse, un giorno, iniziò ad apparire, come immagine evocata, dietro un velario, dapprima inespressiva e poi più distinta, una figura muliebre dalle sembianze a lui sconosciute.
Sembrava sorgere attraverso una scenografia visionaria in dissolvenze d’immagini incrociate. Un senso mistico vi aleggiava e lo stesso artista riteneva, in cuor suo, di dipingere in “trance” in una cornice di avvenimenti simbolici relativi alla sua vita.
I tratti somatici di quella figura femminile sconosciuta erano molto simili tra di loro nelle varie realizzazioni ed ogni opera manteneva lo stesso marchio espressivo. Mutava soltanto la policromia delle vesti che l’avvolgevano: il verde tenero, il rosa pallido, il celeste cielo, tutti evanescenti come a perdersi nell’immaginifico.
Quella figura femminile, in poco tempo, gli divenne ossessiva perché gli affiorava alla mente improvvisa come polla d’acqua sorgiva.
Fu così che durante una notte fredda e piovosa, torturato dall’insonnia che lo rodeva raggiunse lo studio dove con una pennellessa intinta di biacca iniziò a cancellare tutte quelle figure tanto simili tra loro.
Era stato preso da una febbre ossessiva.
Voleva togliersela dalla mente quella grazia perforante, ma quel sorriso intriso di dolcezza infinita, iniziò ad apparirgli nei sogni, indistinti e nebulosi. Si macerava, roso dall’inquietudine. Non trovava linimento a tale violenza mentale che gli procurò un interesse particolare per l’alcol con il quale tentava di distogliersene tracannandone fino allo stordimento. A quel punto veniva adagiato da Giuliano nel suo letto e lì rimaneva, farneticante e minaccioso.
Venne, di conseguenza, preso dalla disappetenza che s’appaiava ad una trasandatezza della persona ed a una tracotanza che non gli si appropriava.
Delle sue condizioni fisiche che lo negavano alle radiose giornate all’aperto fu informato il vecchio genitore a Roma, il quale si premurò di accorrere al castello ponendo da parte i rancori che intercorrevano tra loro su spartizioni e lasciti ereditari futuri; motivo per cui, da figlio indocile, aveva troncato ogni rapporto con tutto il casato esiliandosi tra quei monti.
Il genitore giunse al castello in una tarda ora serale e l’incontro non fu felice perché gravato di un sommerso distacco anche se mitigato da malcelata familiarità.
Appena due giorni dopo quel freddo incontro fu fatto accorrere un buon medico che, preso in cura il giovane rampollo, cercò in breve tempo di ricondurlo nel binario di una vita più morigerata intuendo che la miglior medicina sarebbe stata un caldo affetto familiare.
Il vecchio principe installandosi al castello cercò in ogni modo di riportare il figlio alla vita sociale e all’aria aperta. Capì per esperienza che egli si mordeva l’anima per qualcosa d’intimo, non intuibile a vista.
Le tavole gessate dei dipinti cancellati da rabbiose pennellate di biacca indussero il genitore a ragionarvi su, corroborato da vaghe indicazioni del servo Giuliano.
Trascorsero giorni più sereni essendo subentrata una reciproca e controllata fiducia che riuscì ad attenuare il sommerso conflitto tra i due.
Irino sembrò riaversi in poco tempo da quello stato abulico ritrovando un nuovo interesse alla vita.
A quel punto una felice intuizione del padre trovò il figlio consenziente più che altro per non compromettere ulteriormente i loro rapporti.
Il padre proponeva di organizzare un bel festino, pur nell’altalena di sofferte indecisioni, al castello dove sarebbe stata invitata gente del parentado e personaggi d’alto rango.
Fu così che lentamente si mosse la macchina dell’organizzazione.
Restaurato, in poco tempo, il prospetto del castello che dichiarava la sua vetustà, vennero inviati veloci corrieri a quanti si desiderava rivedere; furono raggiunti manieri nelle varie contee e principati, alcuni dei quali molto lontani. Molti, tra i nobili più in vista, si onorarono di accettare l’invito del vecchio principe garantendo la loro presenza.
Da lì a due mesi, a stagione ormai estiva, iniziarono i primi arrivi di tanta nobiltà che si protrassero per più di una settimana a causa delle effettive distanze.
La cittadella entro le mura era stata infiorata di festoni di foglie di lauro e mirto; ovunque era un segno di benvenuto per gli ospiti che venivano accolti con ogni riguardo. Gli stendardi di ogni casato invitato erano stati innalzati sui bastioni. I muri delle abitazioni antistanti il castello erano stati anch’essi ripuliti. Fu eseguita una accurata toletta di ogni cosa che fosse caduta sotto lo sguardo degli ospiti.
Giuliano, alla guida dei servi, contribuiva ad organizzare un perfetto ricevimento assegnando ad ogni famiglia alloggi adeguati al rango e al loro numero. Erano state ripristinate molte stanze in abbandono.
La guarnigione di stanza al castello era stata rinvigorita con altre presenze. Tutto era stato concertato con scrupolo pur nei dettagli e così per un torneo cavalleresco.
Musici, giullari ed acrobati erano stati chiamati per allietare le giornate degli ospiti; insomma ogni cosa, definita nei minimi particolari, fu curata per una accoglienza all’altezza di tanta gente blasonata e dei loro servi al seguito.
Tale idea festaiola era sortita al padre di Irino con due scopi specifici: rianimare un figlio sull’orlo della disfatta fisica e morale e quello di rinvigorire rapporti diplomatici con le varie famiglie che, nel tempo, sembravano essersi attenuati.
L’ingresso al castello in festa di ogni famiglia attraverso il ponte levatoio venne cadenzato da un annuncio verbale ad alta voce sorretto da squilli di tromba che conferivano una certa solennità all’evento.
I due principi, padre e figlio, al centro del cortile su una pedana, paludati delle vesti preziose ed appariscenti accoglievano gli ospiti con la dignità del loro blasone e con le felicitazioni più vive. Gli abbracci che suggellavano antichi legami di amicizia furono tanti.
L’indomani dell’arrivo degli ultimi ospiti, ossia il 19 maggio, fu dato ufficialmente inizio a quel festino mirante a rinsaldare antichi rapporti.
Ma avvenne un fatto stranissimo che Irino ravvisò con la viva trepidazione. Un brivido, infatti, lo percorse quando si presentò ai due padroni per il saluto dell’incontro, la famiglia del principe Torrielli di San Cataldo composta dal padre titolare con tre figli, due maschi e una leggiadra fanciulla nella quale Irino aveva riconosciuto con emozione l’incarnazione della sua ossessiva figura dipinta.
Erano stati colti da una chiara, reciproca attrazione.
La visione di quella giovane donna avvolta in preziose vesti occupò totalmente la mente di Irino che, quasi, non riusciva a concertare la degna accoglienza degli altri ospiti. Quella figura femminile apparsa tanto prepotentemente nelle sue oniriche pitture gli si era concretizzata.
Quella dolce figura che si chiamava Marionda Torrielli ed apparteneva ad una antica e ricca famiglia perugina produsse in Irino uno sbandamento mentale tale da non riuscire più a coordinare le porprie azioni: pensò, però, che il suo stato d’animo sarebbe, presto, scomparso con l’attivarsi della festa.
Cercò in ogni modo di guadagnarsi la simpatia di Marionda con la grazia affettata che lo distingueva mentre sentiva germogliare in sé i più teneri sentimenti nei suoi confronti.
Il giovane principe aveva percepito dentro di sé una carica di tenerezza, a lui stesso sconosciuta ed i sentimenti che ne derivarono riuscì ad esternare durante una visita che compirono alla torre centrale del castello.
L’atmosfera rilassante della sera e il vago profumo delle erbe d’intorno contribuirono ad accrescere quel sentimento che cominciava ad albergare nel cuore di Irino.
Se ne convinse dopo tre giorni di assidua corte alla giovane che l’aveva accolta con il ritegno di classe mentre in Irino sbocciava, improvviso, un alto sentimento d’amore.
I giorni di festa ebbero il loro sviluppo senza alcun impedimento, coronati di tornei di ogni genere con cavalieri in corazza e cotta di maglia e soprattutto di pranzi pantagruelici innaffiati da robusti vini.
Le cucine del maniero furono attive per una intera settimana sfornando prelibatezze gastronomiche di ogni genere il cui trionfo era segnato dalle tante carni alla brace ed in umido: sei cervi, sei cignali, tre vitelli, sette maiali e tanta cacciagione furono sacrificati per l’occasione. Musici e acrobati rallegrarono il rito prandiale.
Quella settimana festaiola rinsaldava amicizie, parentele e persino appianava controversie territoriali tra varie famiglie. Il trionfo convivale era in atto.
Tra gli stessi ospiti furono, financo, trovate occasioni d’impegno per definizioni di limiti e poteri territoriali.
Tutto contribuiva a rendere piacevole il soggiorno durante il quale fu naturale annunciare pubblicamente il fidanzamento tra Irino e Marionda, presi com’erano da un’attrazione che superava ogni confine.
La settimana trascorse al di sopra di ogni felice previsione in un alone di familiarità.
Ricchi premi furono assegnati ai vincitori del rito cavalleresco e di una tombola. Molta di quella gente blasonata partecipò anche a partite di caccia nel vasto territorio dei Barenchi.
La settimana sembrò volare nella distensione più felice per chi si ritrovava o per chi dava inizio ad una nuova amicizia.
Come ogni tempo che trascorre venne il giorno delle partenze e le piccole carovane, dopo i saluti e i ringraziamenti si avviarono di prima mattina sulla via del ritorno riattraversando quelle ricche foreste e pianori erbosi.
Un ricordo incancellabile rimase nella mente degli ospiti e così nel cuore di Irino e Marionda affascinati l’un dell’altro.
La giovane aristocratica ripartì con il padre e i due fratelli in una mattina ovattata di tenera nebbia che rese più pesante il distacco anche se Irino la rassicurava confermandole le sue future visite a Perugia.
Salutati gli ultimi ospiti che attardatisi erano partiti ancora un giorno dopo, il castello, rimesso in ordine, tornò alla sua “routine” quotidiana cadenzata dal solito ritmo di vita. Quell’aria festosa che aveva aleggiato anche tra le vie del borgo, presto fu cancellata, ma non dimenticata.
Continua...
In copertina: disegno di Giuliano Gentile