Il fiore sul vulcano

Il fiore sul vulcano ed altri racconti

Il fiore sul vulcano ed altri racconti A Carmelo, indimenticabile

Lugubri previsioni sul presente e sul futuro della narrativa italiana. Giorgio Montefoschi sul “Messaggero” scrive: “La narrativa italiana, escluso l’inossidabile Bevilacqua, è massicciamente assente”. Giampaolo Rugarli, in un accorato articolo sul “Corriere della Sera”, lamenta: “I grandi scrittori italiani son tutti radunati nella prima metà del secolo; l’itinerario del romanzo novecentesco consiste nel prendere atto della propria impossibilità”. E Umberto Eco: “L’industria editoriale ha concesso la licenza di romanzare ad autentici magliari”. Quelli che si pubblicano col nome di romanzo sono per lo più dei racconti dilatati fino ad un centinaio di pagine “tanto per fare libro”.
Morto o moribondo il romanzo, sembra che torni in auge il racconto, genere trascurato, ritenuto spurio e di poco mercato. Ma l’avvenire sarà il racconto: “breve, fulmineo, sorprendente, soprattutto bello” (Renato Minore). Un libro di racconti costerà meno di un romanzo; i racconti sono di rapida e facile lettura. Guido Almansi, che cita Moravia e Malerba come entusiasti del racconto, è esplicito: “Quello che mi interessa adesso è proprio il racconto, di retroguardia o di avanguardia sperimentale o di impianto convenzionale, purché bello e leggibile”.
Sembra che Mario Tornello abbia fiutato l’evento; ed ecco dieci suoi bellissimi racconti dal titolo: “Il Fiore sul vulcano”, dal primo racconto che apre il volume.
Ha una precisa e forte personalità Mario Tornello, che è anche squisito poeta ed apprezzato pittore. Ben lontano dal gioco delle amicizie letterarie che riescono a dar valore persino a un barbarismo o rumore intestinale.
Mario Tornello, ovvero il dono della scrittura. Qualunque materia finisca nella penna di questo autore – la storia, l’aneddotica, la memorialistica, la critica d’arte, la lirica pura – si veste sempre del panneggio d’una lingua ariosa ed elegante, suggestiva e spesso ridondante; s’impasta con una maniera espositiva che talvolta mette in ombra persino il soggetto; come avveniva nel barocco; e come avviene, nelle opere maggiori o minori, ogni tal volta lo stile si alza ad insolite quote. Le parole, le immagini, i pensieri che Tornello dedica a questi suoi racconti sono di una bellezza smagliante; altrettanto notevole è la descrizione dei siti e le rievocazioni della memoria. I ricordi, le rimembranze del tempo passato, molto lontano oppure vicino, sono il pezzo forte dell’autore; d’altronde, arrivati ad una certa età si rimpiange qualsiasi cosa sia accaduta, solo perché si avevano vent’anni.
Un testo fresco, una scrittura calda; è consentito parlare di incanto; un libro che lievita in ogni frammento, in ogni frase. Ma attenzione: Tornello è un narratore più complesso di quanto faccia credere la cordiale disponibilità e arrendevolezza della sua prosa. E’ un narratore profondo questo scrittore di superficie; ha una nascosta ma solida struttura questo romanzo frantumato in dieci racconti.
Qualche racconto sembra qua e là insaporito, magari caramelle con liquore, ma poi vi accorgete che non c’è nulla di dolciastro, effetto solo di un ricordo adolescenziale che lo rende leggero e patetico. Chiamatela eccellente fattura, anche nel senso però di magia; il racconto è fatto a memoria con la più aggiornata alchimia linguistica. Inoltre, Tornello non bada alla moda; l’attualità culturale ce l’ha nel sangue. La sua frase non ha le emorragie della scrittura informale o schizomorfa.
Insomma, ci si commuove e ci si diverte con una prosa che stuzzica i capillari; apritelo a caso questo libro e faticherete a chiuderlo, perché, oltre alle stupende descrizioni (pittoriche) dei luoghi e degli ambienti (vedi l’isola del primo racconto); oltre alle memorie di un tempo passato, c’è – quasi sempre presente – la sicilianità dell’autore (Bagheria, Palermo); c’è l’orrore della guerra, della violenza, della morte; e, in contrasto, l’amore infinito per la musica; senza parlare dei tanti personaggi che compaiono: Guttuso, Erroll Garner, Glenn Miller, i Romanoff.
Un libro affascinante che sembra dare ragione ad Almansi: “l’avvenire della narrativa è il racconto”.
Roma, gennaio 1994

Lucio Anzalone

Autoritratto a parole dell’autore

Sono nato a Palermo.
Sono alto un metro e settantacinque ed ho pochi capelli bianchi.
Sono miope. Ho compiuto studi classici e magistrali ed ho fatto l’insegnante elementare per trentacinque anni, insegnando, negli ultimi quindici anni, attività artistica in una scuola elementare d’avanguardia di Roma, dove, tra l’altro, ne ho affrescato le pareti del teatro per centocinquanta metri quadrati con figure comiche del teatro dialettale di ogni regione italiana e con una “Città della fantasia”.
In pittura sono autodidatta; dipingo dal 1951. Sono Ceramista.
Ho realizzato 18 “murales” di grandi dimensioni (pittura, terracotta, ceramica) in varie città italiane.
Ho tenuto 45 mostre personali di pittura ed ho partecipato, su invito, a più di 250 Rassegne collettive nazionali ed internazionali, in Italia e all’estero.
Dal 1960 scrivo poesie in lingua ed in dialetto siciliano e cioè da quando mi sono esiliato a Roma da Palermo. La nostalgia mise in moto il cuore mentre assaporavo la nobiltà delle prime sconfitte.
Gabriella Sobrino, cara amica poetessa, ha letto per prima le mie poesie ed ha accettato di presentarle, unite in cartella con cinque mie serigrafie alla mia 32° mostra personale di pittura alla Libreria Croce di Roma, nel 1974.
Nel 1984, il compianto Editore Salvatore Sciascia ha pubblicato il mio primo volume di poesie dal titolo esplicativo: “L’isola della memoria” con il quale ho vinto diversi premi a livello nazionale.
Osservo lunghe silenzi creativi che preludono all’esternazione figurativa di quei “paesaggi dell’anima” che esistono in me, dove mi piacerebbe viverci e morirci; sono canti della memoria e provengono da lontananze insondabili del mio io. Canto la malattia del vivere.
Da molti anni approfondisco la mia ricerca stilistica figurativa sulla tematica dei valori umani e tratto il mio discorso pittorico su un tema di base: “Gli uomini di pietra”, come simbolo di degradazione umana che, allo stesso tempo, si dibatte per un autentico riscatto.
Sono un “verde” convinto e naturale, vivrei in campagna “se le orride valve della città me lo permettessero”.
Amo l’amicizia e la curo come bene prezioso; non potrei farne a meno.
Vivo a Roma da più di trent’anni e continuo a sentirmi ospite.
Nella vita ho esercitato diversi mestieri; dal fattorino di una ditta di rivendita di medicinali allo sterratore, dal rappresentante di una famosa ditta di olio per auto a fattorino in una rivendita di prodotti alimentari ed altri ancora. Ho girato abbastanza di estero suggendone le dimensioni culturali.
Su invito dell’Amministrazione comunale di Cervara di Roma, ho diretto un documentario, a colori, sul paese, autentico gioiello del paesaggio laziale dove, in seguito, ho organizzato un soggiorno di artisti per affrescarne alcune pareti del centro storico.
Mi considero un buon umorista, ma in gioventù molta gente confermava le mie qualità comiche. Non capisco come si concili la poesia con l’umorismo; che non sia il sorriso dell’anima? Sarà vero quanto si afferma sui pagliacci? Avrei, infatti, desiderato immergermi nel loro mondo poetico, ma avrei voluto distinguermi tra quelli musicali ed acrobati.
E’ il mio grande rimpianto.
Il mio segno zodiacale è la Bilancia; da esso si evince la doppia personalità che mi possiede.
Scrivo critica d’arte e di costume collaborando con riviste letterarie quali: “Silarus”, “Primarno”, “Revisione”, “Eurart”, “Fermenti”, “Queste lettere”, “Il Giornale della poesia siciliana”, “Insieme nell’Arte”, “Spiragli”, “Progresso agricolo”, “Confronto meridionale”.
Non ho ancora capito se credo in Dio, ne aspetto un segno tangibile che mi scuota.
L’amore è per me molto importante; pervade tutti i miei pensieri.
La mia silloge poetica dell’84, “L’isola della memoria” è un canzoniere d’amore dedicato alla donna dell’anima, che come immagine erotica e materna è costante nella mia immaginazione.
Ho scritto una ventina di racconti ed ho pubblicato per i tipi dell’“Aracne” di Palermo: “Il signor Piazza ed altri racconti”.
Amo svisceratamente il cinema e tengo dei soggetti nel cassetto.
Da ragazzo ho recitato e cantato, tra un incontro di “boxe”, a livello dilettantistico, e l’altro.
Questi scritti sono la mia immagine. Sono brani di vita rivissuti nella macerazione del ricordo e sono scavi di memoria tra le foschie di fratturate immagini.
Amo tanto la buona musica sinfonica ed ho una venerazione per Chopin nel quale, talvolta, mi ritrovo in perfetta simbiosi. Amo anche quella jazz che curo con l’ascolto durante le mie lunghe ore al cavalletto.
Da ragazzo ho composto con un amico musicista dei brani musicali dei quali non mi vergogno.
Penso spesso alla morte e ci rifletto abbastanza, ma non credo nell’aldilà.
Sono un tipo molto disponibile. Chi vuole, lo provi.
Roma, 1995

Un caro saluto
Mario Tornello

Il Fiore sul vulcano

La nave traghetto, diretta all’arcipelago, viaggiava al massimo della velocità consentita dai suoi esausti motori. Varata nel primo decennio del secolo era certamente una tra le più vecchie navi della flotta mercantile.
Un’alba brumosa, pregna di umidità e caligine impegnava la vista in direzione della prima isola. Essa era attesa dai passeggeri che già s’ammassavano a prua nel buio appena rischiarato da una luna filtrata da nuvole in marcia malinconica.
Tra i turisti si notava appena una certa animazione silenziosa composta entro i limiti di una deferenza all’accadimento. Nessuno parlava ed i movimenti pigri di ognuno indicavano di un sonno spezzato dal tocco di secchi colpi di chiavi sulla porta di ogni cabina che, uniti ad una voce perentoria, avevano dato la sveglia.
Anche Hans Bormann fu destato e, come gli altri, si vestì in fretta, consapevole della visione di cui avrebbe beneficato.
Pregustò quindi quei momenti d’attesa promettente, mischiato agli altri turisti immersi in un silenzio stracciato soltanto dal cupo e regolare rumore dei motori della vecchia nave e dallo sciabordare dell’acqua ai suoi lati. L’aria abbastanza fresca sferzava tutti coloro che si ostinavano a rimanere sul lato destro della nave, mentre tanti altri stavano al riparo sul lato opposto.
Un mare disteso, levigato, attraeva l’ultima eco di una ghirlanda di luce lunare dipingendo il profilo dall’orizzonte marino di un metallico riverbero.
Soltanto l’ansare degli esausti motori era vivo, tutto sembrava sospeso nell’attesa, finché quel rumore ostinato non si dimezzò di colpo. La gente, a bassa voce, cominciava a scambiarsi brevi notizie sull’isola. Frasi in tedesco s’intrecciavano a volo con altre in italiano mentre Hans Bormann se ne stava riparato alla meglio tra due barche di salvataggio.
Un chiarore, al limite indefinito tra la luce ed il buio, simile forse a quella che fu l’alba dei nostri giorni, cominciò a definire ogni contorno della nave ed i tratti somatici di ogni persona.
Sul basso tono dei motori soffocati si udì improvviso un sibilo tra i due maestosi fumaioli. Anticipava due fischi di sirena di uguale lunghezza, chiaramente tarati da un meccanismo consunto.
Stranamente, per incanto, la leggera caligine sull’acqua diradò squarciata elevandosi per presentare l’isola che comparve come avvertita dietro un velario, in una luce eterea, rivelandosi inscritta nel suo perimetro triangolare, ancora acromatica per la distanza. Ma ciò che costituì motivo di meraviglia fu l’indefinito delinearsi su di essa di una tortuosa linea di fuoco che calando da un cratere invisibile si torceva, come verme dai mostruosi tentacoli fino a mare.
Bormann, come gli altri, fu preso da forte suggestione.
Le basse nuvole, stagnando a mezza costa accrescevano una visione quasi onirica proponendo l’immagine surreale della favola che è in noi, dalla quale ci provengono i frammenti emozionali. Tutti erano assorti in quella direzione tra i bagagli che dovevano essere sbarcati. Pur così, il silenzio quasi irreale era spezzato dalle frasi in dialetto dei marinai dell’equipaggio che si apprestavano alla manovra di fermata. L’isola, che mancava di zona di attracco, ora cominciava ad assumere tenui colori sui grigi perlacei uniti ad un verde spento che ricopriva l’intera sua area fin su a breve distanza dal cratere. L’aria era fresca e distesa ed il chiaro fumo del vulcano, adesso poteva essere meglio distinto nella sua pigra spirale. L’alba cominciava a cedere all’aurora il cromatismo di ogni oggetto del paesaggio ed in particolare delle caratteristiche case degli isolani, accostate le une alle altre, come gregge infreddolito; esse si presentavano nella loro architettura spontanea sotto un falso colore bianco corrotto dall’assenza di luce solare.
Un nuovo rallentamento della nave la fece procedere a motori quasi muti, finché un forte sferragliare improvviso fece trasalire i passeggeri. Veniva calata l’ancora e la nave, a basso regime, pigramente, come scivolando, si fermò al largo.
Il fumo acre dei fumaioli sfaldandosi verso il basso per improvviso capriccio della debole brezza, investì tutti, mentre l’animazione cresceva tra i passeggeri.
I marinai iniziarono il consueto lavoro per un ordinato sbarco della gente, dei bagagli e della merce indirizzata a quell’isola; ma ciò che interessò ancora ogni turista e che fu interpretato come un saluto di benvenuto fu il lento delinearsi, quasi goffo, di due grosse barche condotte, ciascuna, da due marinai. Provenivano dalla spiaggia, e si avvicinavano con colpi professionali di remi; una di loro recava i passeggeri che si sarebbero imbarcati. Avanzavano in quella luce indefinita risvegliando sopite fantasie dantesche.
Giunte sotto la nave che offriva la dritta alla spiaggia, s’avvertì financo lo sgocciolio dei remi, mentre tra i marinai dell’equipaggio della nave e quelli delle barche si dialogava per indicarsi manovre idonee all’operazione di sbarco.
Le scale vennero abbassate da ambo i lati della nave al fine di regolare, da un lato l’ingresso dei passeggeri in partenza e dall’altro lo sbarco degli arrivati.
Infine ambedue colme di bagagli, passeggeri e varia mercanzia si staccarono lentamente mentre saluti e raccomandazioni s’incrociavano tra gli sbarcati e quelli che proseguivano.
In una sospensione temporale permaneva nella luce ormai chiara un senso misterioso di attesa quasi a voler caricare di significato un approdo spirituale. Le due grosse barche cariche, in gran parte, di quell’umanità che aveva lasciato i freddi siti del nord Europa giunsero sulla riva con un concitato crescendo di colpi di remi allo scopo d’inghiaiarsi per agevolare un comodo sbarco dei turisti.
Tutto l’avvenimento dello sbarco sulla spiaggia, dal colore antracite, avveniva in una dimensione quasi metafisica, come sospesa nell’anima. Nel momento in cui, però, tutti i turisti toccavano quel suolo soffice si verificava puntualmente un improvviso, collettivo elevarsi del tono vocale quasi per inconscio stimolo liberatorio.
La luce, come per preordinata regia, abbracciava adesso ogni gesto, ogni oggetto nell’aria frizzante del mattino.
Molti turisti venivano presi in consegna da chi, avvertito anzitempo, si era presentato sulla spiaggia per guidarli alle rispettive pensioni e case di marinai; altri si allontanavano da soli preceduti da ragazzi del luogo carichi di bagagli, mai pari a quelli che riusciva a trasportare quell’omone di Manderino, uomo fortissimo.
Buona parte di quelle case che apparivano linde ed accoglienti nella loro struttura mediterranea erano state tolte dall’abbandono in cui erano cadute per l’emigrazione dei proprietari in Australia, dai nuovi acquirenti italiani e tedeschi che avevano scoperto in quello scoglio ventoso il luogo ideale come rifugio dell’anima.
Molte di esse erano state riattate nel rispetto più assoluto di quell’architettura mediterranea, conservandone religiosamente le caratteristiche. Le costruzioni del villaggio, allineate sull’asse viario principale, non più largo in media di tre o quattro metri, si profilavano in alternanza discontinua inframmezzata dal variegato verde della vegetazione spontanea. Si reggevano su una comune linea architettonica essenziale i cui volumi richiamavano alla mente quella orientale e pertanto avevano i tetti in piano senza tegole al fine di agevolare la raccolta dell’acqua piovana nelle capaci cisterne sotterranee.
Bormann, accettando di visitare una casa che gli era stata proposta in affitto, s’avviò preceduto da un omino dallo sguardo luciferino, olivastro in viso e capelli ricci come aureola, che si presentò con il nome di Palino, di cui seppe in seguito essere il barbiere del luogo.
La casa di modeste dimensioni, due camere e cucina con un vasto terrazzo ed un piccolo orto fu subito apprezzata dal tedesco. La trovò accogliente ed ordinata nel suo mobilio ottocentesco mentre discopriva piano ogni cosa a tiro d’occhio.
Il grande fico, che si ergeva maestoso attraverso il tetto crollato della casa abbandonata di fronte, lo inchiodò e così il viottolo che immetteva alla casa che stava visionando, incastonato com’era tra alti oleandri dai fiori rutilanti simili ad esplosioni pirotecniche.
Non volle vederne altre per non rischiare di perdere il fascino di cui già godeva e confermò un affitto per due mesi.
Hans, bell’uomo dalla barba grigia come i suoi capelli leonini, licenziatosi l’omino proprietario, restò seduto sull’alto letto a meditare, guardandosi intorno e con i bagagli rimasti sul terrazzo d’ingresso; si sentì sopraffatto da una stanchezza emotiva che lo fece scivolare piano supino dove restò a fissare il soffitto dalle travi dipinte di bianco. Le contò e ricontò, erano otto, mentre da fuori gli giungevano un dialogo latrato di cani insieme al canto di un galletto.
Si sentiva stordito dal flusso emozionale che lo aveva avvinto mentre respirava a pieni polmoni l’aria benefica mista agli odori di fiori silvestri sconosciuti.
Il sole già splendeva alto assegnando ad ogni fiore e frutto il suo colore. Il terrazzo ombrato dal tetto di canne riceveva tangenzialmente la luce solare. L’alto cespuglio di campanule bianche a ridosso del muro perimetrale emanava un profumo sottile e perverso da evocare misteriose alcove orientali.
Hans appagato da codeste sensazioni scivolò in un sonno profondo dal quale si risvegliò a mezzogiorno al suono dell’Angelus della chiesa vicina. Notò che aveva dormito con le finestre e la porta d’ingresso aperte nel tepore più distensivo. Si sentì rinvigorito, si alzò di scatto per disfare i bagagli mentre un moscone gli ronzava intorno nel silenzio.

(2)

I primi giorni trascorsi nell’isola furono per Hans Bormann tutti all’insegna della scoperta. S’infilò come furetto frenetico a frugare silenzioso con lo sguardo ogni vicolo, ogni andito erboso, pur sentendosi osservato, per appagare quell’anelito di conoscenza che caratterizzava la sua personalità. Gli ingenui disegni primitivi realizzati con chiodi piantati sulle porte di alcune case, a forma di cuore, pesce o altro, i comignoli dalle forme più fantasiose, i tetti in piano abbacinanti e quanto altro discoprì durante le passeggiate resero esaltanti quelle giornate. Tutto ciò gli si offriva come grazia di una natura gentile che, agli occhi di un normanno come lui, costituiva la panacea per il suo spirito.
Ciò che maggiormente lo colpì subito furono le espressioni di saluto che gli rivolgevano gli isolani incontrandolo nell’intrico di quei vicoli; lo rendevano ammirato della loro indole cortese. Egli ricambiava intrattenendosi a chiacchierare con chiunque, prestandosi, in seguito, per piccole riparazioni di motori marini, grazie ai suoi studi di ingegneria interrotti ad un passo dal conseguimento della laurea.
Le giornate si sgranavano pigramente in un alternarsi di piccole scoperte sulle calette sabbiose dopo i marosi e di lunghe letture di quei libri che aveva portato con sé, ascoltando della buona musica che spaziava dalla sinfonica alla jazzistica. In poco tempo Hans aveva familiarizzato con gran parte degli isolani che, conquistati dalle sue doti umane, cominciava ad invitarlo a divertenti partite di pesca notturna dove, al termine, il pescato veniva ugualmente diviso. Fu curioso di conoscere nuove ricette culinarie che apprezzò per la loro fantasia.
La sera, dopo cena, intrattenendosi in allegria nell’unico bar a bere i suoi due o tre boccali di birra da buon nordico, esibiva il suo stentato italiano che migliorava ogni giorno di più.
Divenne “Hanz” per tutti ed anche per i pochi bambini cui costruiva piccoli giocattoli di legno.
Intessendo nuovi rapporti umani, dei quali in città aveva perduto ogni cognizione, discopriva lì, piano, la generosa personalità degli isolani anche se celata sotto una scorza scontrosa. Ma, anche Hans, sotto la sua apparenza gioviale portava in sé una vena malinconica che levitava in quelle giornate uggiose e ventose quando l’ansare del mare mosso s’avvertiva fino a casa sua ed il cielo di un grigio pesante si accompagnava al rantolo del vulcano.
Erano giorni in cui potevano essere avvertite, supini a letto, lievi scosse sismiche. L’atmosfera che ne sortiva, pregna di una certa mestizia climatica, spingeva Hans ad indossare il suo giaccone impermeabile giallo e a girovagare, forse, in cerca di se stesso. Così si ritrovava, senza avvedersene a spaziare con lo sguardo dal piccolo cimitero incustodito che per la posizione superiore all’abitato abbracciava tutto l’orizzonte fino a perdersi tra i grigi nebulosi. Il paesaggio s’appiattiva perdendo il fiato viale dei suoi volumi. In quel luogo ventoso da dove, talvolta, si udiva il fragore dei frangenti, era entusiasmante osservare i bianchi gabbiani sulla spiaggia in evoluzioni acrobatiche; segnavano con brevi colpi d’ala immaginari diagrammi sulla lavagna del cielo, mentre il suolo umido tra l’erba rada esaltava forti odori d’erbe selvatiche.
In tali momenti di abbandono sentimentale, quando la meditazione fiorisce spontanea, in Hans riaffiorava la sua condizione umana di persona sradicata, ma ogni risposta ai propri interrogativi non dissipava l’esigenza spirituale che lo aveva ancorato a quello scoglio.
Quell’aria pesante da incubo e quel silenzio immaginifico davano la parola soltanto alla pioggia ed al rincorrersi dei tuoni, ai propri passi e a qualche voce isolana.
Questi era Hans, un uomo maturo sui cinquant’anni che indossava sempre un cappello di foggia austriaca sul cui nastro era scritto “Munchen” e si serviva di un nodoso bastone sul quale erano inchiodate alcune targhette metalliche di diversa provenienza turistica.
Un cucciolo di cane pezzato bianco e nero che sembrava la figura animata dell’antica etichetta musicale della “Voce del padrone” e che aveva deciso di affiliarglisi cominciò a seguirlo ovunque dividendo con lui cibo e casa. Fu chiamato Whisky e gli fu fedele.
Il tempo scorreva inavvertito per Hans sin da quando si era stabilito in quell’isola e mai aveva manifestato il desiderio di compiere un’ascensione al cratere, finché un giorno spinto da alcuni connazionali e da Salvatore, guida autorizzata, cui si era legato di amicizia, decise d’intrupparsi con una ventina di turisti all’imbrunire sul grande sagrato della chiesa di San Bartolomeo, simile ad una grande terrazza, da dove ogni sera nella visione esaltata di un tramonto indorato, il disco solare s’inabissava in mare.
Da quel punto panoramico tutte quelle case bianche che ricevevano quella luce radente apparivano come diamanti sparsi in disordine su un tappeto verde di gioielliere, mentre il loro candore veniva esaltato dall’elegia cromatica del momento.
Hans ascoltò con gli altri, le modalità alle quali si sarebbe dovuto attenere per la propria ed altrui incolumità e s’incamminò con essi seguendo il solito itinerario che iniziava da dietro la chiesa.
L’ascensione durò tre ore circa nel buio più totale, rischiarato soltanto dalle numerose torcie elettriche e dal fanale a petrolio della guida che con frequenti soste consentiva alle persone anziane di riprendere fiato; si trattava infatti di partire quasi dal livello del mare e pervenire a mille metri circa di altezza.
Metà percorso avveniva per una stradella basolata, mentre per il resto si proseguiva per un viottolo appena tracciato che s’intuiva tra lo sciabolare delle torce e la voce della guida.
Superato il crinale est del vulcano, un vento secco, tagliente investì da sinistra tutta la comitiva che, in difficoltà, proseguiva l’ascesa tra il sommesso brontolio del vulcano.
Quasi in prossimità del cratere, quell’accenno di viottolo scomparve del tutto per cui gli ascensionisti che frattanto erano pervenuti ad una pianura soffice per uno strato ghiaioso, si posero in ordine sparso. Il mormorio gutturale del mostro vulcano adesso giungeva più netto per la immediata vicinanza del cratere. Tutti ebbero presto la visione materializzata di ciò che costituisca l’idea dell’inferno dantesco. A quel punto Salvatore, la guida, che dalla nascita aveva convissuto con i capricci del vulcano e ne intuiva le più sommerse manifestazioni ammonì tutti di attenersi alle sue istruzioni senza ammettere deroghe.
Pervenuti così sulla parte più alta del margine del cratere, ebbero la visione totale del suo invaso, la cui attività effusiva occupava con masse magmatiche fluttuanti la parte centrale e che, eruttate tra bolle esplodenti, tracimavano sulla sciara in un apocalittico fiume di fuoco lungo il suo versante naturale fino a friggere in mare tra alte nuvole di vapore acqueo.
I turisti che giungevano nell’isola due volte la settimana godevano di tale spettacolo dal mare dato il prolungarsi della manifestazione eruttiva. Pure Hans fu rapito da quella visione che, per quanto gli fosse stata descritta, non poteva essere paragonata all’idea che se n’era fatta la sua fertile mente.
Molti fotografavano, presi nel vortice di sensazioni che sfioravano i limiti estremi dell’immaginazione.
Erano soggiogati dall’avvenimento e la frenesia del cacciatore d’immagini li pervadeva. Le esplosioni verticali di circa cinquanta metri di altezza, come riferiva la guida, avvenivano con una frequenza che variava tra un minuto e un minuto e mezzo in un susseguirsi di altissime lingue di fuoco, precedute da sibili assordanti ed accompagnate da un vera pioggia di lapilli incandescenti ricadenti nel suo invaso principale.
I turisti disseminati in poco raggio, quasi vagavano pervasi da stupore. Tale spettacolo che sembrava provenire dalle lontane regioni della fantasia, poteva essere ammirato in tranquillità da tutti perché occupavano un punto di osservazione superiore ed arretrato rispetto al luogo delle esplosioni. Ne godevano, anche se raffiche di vento gelido mordevano alle spalle. Alcuni, appagati dalla visione infernale, si erano già sdraiati supini sul terreno che rimandava un tepore confortante.
La sosta, di un’ora circa, compresa una frugale cena, ebbe però fine improvvisa. Salvatore, per la sua esperienza ventennale, ebbe sentore del vento che, evolvendosi nella loro direzione, avrebbe portato con sé i gas venefici del cratere.
Si organizzò quindi, dopo una ennesima conta dei partecipanti, la discesa che avvenne, in massima parte, sulla sabbia nera della sciara vecchia, su sentieri tortuosi, come di labirinto, tracciato da passi umani tra canneti e ginestre e in una nuvola di polvere. Essa era solita avere un epilogo divertente per ritemprare i fisici debilitati dalla fatica e cioè un bagno collettivo a mare tra schiumate e schiamazzi nella luce nuova di un altro giorno.

(3)

Alle nuove sensazioni acquisite da Hans durante i tre anni trascorsi in quel luogo che elesse a residenza abituale, subentrò naturalmente un che di abitudinario, fatto di gesti uguali ed antichi che occupavano le sue giornate. La città era dimenticata, era di già sepolta dalle nuove vibrazioni di un paesaggio mediterraneo. Ogni azione fisica avveniva nella semplicità di un rito quotidiano antico. Non conosceva la noia poiché trovava modo d’impegnarsi in diverse attività, compresa la cura di piante nane secondo l’antica disciplina giapponese del Bonsai; ma ciò che particolarmente lo occupava era la scultura, sua vecchia passione che si era rinverdita. Il suo terrazzo fu presto invaso da figure, in legno e in pietra, della cui materia sfruttava la conformazione antropomorfa al fine di evocare con chiara impronta primitiva, figurazioni che spaziavano dal bestiario esotico a quelle muliebri in cui soleva evidenziare, per vezzo, la poesia dell’incompiuto. Si serviva della pietra lavica la cui specificità conferiva alle stesse un marchio di tormento accrescendo l’espressione di un travaglio interiore.
La figura femminile, in particolare, esaltata come da richiamo spirituale, appariva minata dall’artiglio dell’angoscia che altro non era se non lo specchio inconscio dell’autore.
Da quella casa che si vide allietata da prolungati soggiorni femminili, provenivano, egli in casa, note musicali quasi ad indicare in parallelo la sua presenza. Quell’armonia, sia sinfonica che jazzistica era sottolineata in prevalenza dal suono di pianoforte suo strumento preferito che lo rasserenava più di altri. Gieseking, Pollini, Orowitz, Rubinstein e così Erroll Garner, Oscar Peterson, Art Tatum e tanti altri erano i musicisti le cui note echeggiavano tra quelle mura fino a quelle dei vicini di casa.
Spesso, inoltre, da quella casa giungevano le note gracchianti di un grammofono a tromba che Hans aveva acquistato insieme a tanti dischi da collezione da una vecchia isolana che, avanti con gli anni, si ritirava in un ospizio del capoluogo; si udivano dunque le tremule magiche voci di Caruso, Gigli, Bastianini e di altri ancora.
L’abitazione, che in seguito fu acquistata da Hans, subì delle modifiche esterne ed interne che, senza svilirne l’originaria struttura valsero ad ingentilirla ed a creare un rifugio tranquillo come oasi, circondata com’era, da una natura gonfia di umori stordenti. La casa, per la posizione arretrata rispetto alle altre, quali celata tra il verde imperioso degli olmi e dei fichi ebbe come nome “la tana” che spiccando su una ceramica all’ingresso sanciva di un luogo confortevole e tranquillo, ma che indicava pure l’inconscia necessità di autoprotezione.
Hans avvertiva però che, per quanto fosse accogliente quella casa, da essa nasceva talvolta un senso di sgomento dal quale sentiva fiorire quel proverbio africano che dice: “Meglio la tosse di una vecchia che una casa vuota”.
Viveva quindi certe giornate assalito da una deprimente malinconia.
Erano trascorsi ormai cinque anni dal suo arrivo nell’isola e tranne assenze di poche settimane per visite culturali e qualcuna in Germania nella sua Baviera sulle sponde dell’Isar, aveva condotto la vita serena che aveva desiderato. Si era perfettamente integrato tra piccola popolazione dell’isola fino a partecipare alle processioni delle due festività religiose. Per questa sua adesione naturale si convinceva sempre più di una sua preesistenza in quell’isola, fino a ritrovare con la memoria dell’anima, luoghi, albe e financo odori incisi fortemente in lui.
Le giornate consumate sulla sua barca a vela senza motore, come ritorno alle origini felici dell’uomo, avevano la facoltà di ritemprarlo nello spirito e nel fisico. Per lunghe ore, costeggiando da esperto nocchiero, l’isola, per lunghi tratti a falesia, dove le primarie colate di magna mostravano le loro tormentate stratificazioni, godeva, pescando a traino, delle immagini di orrida bellezza della costa isolana fino alla sciara che sgomentava chiunque per il suo piano, fortemente inclinato, che ratteneva sulla sua sabbia, dal funebre colore, un mostruoso serpente di fuoco dai lunghi tentacoli.
Superato quel vasto tratto di costa, lasciandosi dietro quei rivoli di fuoco segnati da spirali di fumo, la montagna ritornava brulla, arida, nella gamma infinita delle ocre, interrotta dai vari verdi delle piante spontanee. Tutto ciò arricchiva con il suo abbraccio visivo Hans che, assorto, fruiva di sensazioni esaltanti.
In tali amplessi con la natura, Hans amava talvolta soffermarsi nell’altro borgo dell’isola posto nel versante opposto, in cui vi giungeva per una ripida scalinata a tornanti dopo essere sbarcato, nel silenzio più assoluto, spezzato soltanto dal frinire delle cicale, nel porto ritenuto il più piccolo del mondo. In esso si accedeva, infatti, attraverso un passaggio appena sufficiente per un normale gozzo.
Nell’isola, a primavera, e da giungo in poi, i turisti tornavano puntualmente a guardarsi intorno silenziosi e con essi, ai primi di luglio erano sbarcati due giovani tedeschi provenienti da Monaco.
I due, dopo aver vagabondato per l’intero giorno, tra una cala e l’altra e tra il bar e la trattoria s’installarono con i loro sacchi a pelo in una delle tante case fatiscenti, abbandonate dai proprietari emigrati.
Trascorrendo una apparente vacanza iniziarono con discrezione a reperire in giro notizie, pur se vaghe, su ogni turista tedesco stabile fino a pervenire, per eliminazione, nel giro di poche settimane, ad una rosa di tre uomini che furono avvicinati con un fare distratto per saggiarne la personalità.
Ancora dopo poche settimane individuarono, con quasi certezza, in Hans la persona che erano venuti a cercare anche se portava un nome diverso.
Con distacco ostentato iniziarono a circuirlo quando, casualmente, ma non tanto, s’incontravano la sera, dopo cena, a sorseggiare qualche boccale di birra. Con sottile strategia d’indagine esplorarono la sua intima personalità fino a stabilire con certezza suffragata da una foto giovanile che la persona cui rivolgevano la loro attenzione era quella che avevano avuto indicata.
I due giovani, Erich e Joachim cominciarono a tessere una tela di rapporti amichevoli che li portò ad ottenere, nel giro di poco tempo, la totale fiducia del connazionale. Iniziarono così a trascorrere insieme intere mattinate in barca corroborate da robusti pranzi in cui Hans dimostrava la sua inclinazione alla cucina mediterranea; finché per l’amicizia raggiunta non venne ad Hans l’idea di condurre i due giovani in ascensione sul vulcano fidando sulla acquisita conoscenza del percorso.
I due biondi teutoni, a quella proposta opposero un ambiguo rifiuto al fine di mostrare un apparente scarso interesse, mentre con uno sguardo d’intesa si rimandavano la felice opportunità che si presentava loro. Dopo vari rinvii intenzionali, un giorno, dopo aver trascorso ancora una mattinata in barca nei paraggi del grande scoglio segnato dal faro, fu concertato, su altra proposta di Hans, l’accordo di effettuare l’escursione l’indomani sera. S’avviarono così all’imbrunire in allegria preceduti dal passo agile di Whisky che soffermandosi spesso a fiutare piste di conigli, spariva alla vista, ricomparendo ai reiterati fischi del padrone. Per circa tre ore arrancarono su quelle pendici e Bormann, anche se più anziano, dimostrò un certo allenamento, frutto delle sue passeggiate quotidiane. Pervenuti al culmine dell’ascesa, anche se per due volte avevano rischiato di smarrirsi, proseguirono per l’altopiano sabbioso come tappeto per grossi granuli lavici, da dove intravidero, ancora distante, la parte più elevata del cratere, punto di osservazione sicuro.
Hans data la nebbia che a tratti s’infittiva improvvisa avvolgendosi sperava in cuor suo di trovare sul posto una comitiva di gitanti che li avesse preceduti a cui accodarsi per una discesa più sicura. Ma per la stagione turistica ormai al tramonto, gli escursionisti si erano diradati e così i tre tedeschi si ritrovarono affascinati ma soli dinanzi a quello spettacolo suggestivo. Esso racchiudeva in sé, in modo tangibile, ogni ipotesi di fantasia attrattiva. Tutti e tre ironizzarono su una eventuale precipitazione nel cratere.
Seduti per terra ed in contemplazione, quasi al margine del baratro di quella fucina di Lucifero, consumarono una frugale cena, i visi arrossati dai sinistri bagliori. Fumarono e bevvero in abbondanza chiacchierando piano mentre i due si rimandavano lunghi sguardi d’intesa a conferma della soluzione al loro piano.
Rimasero sul posto per più di un’ora, seduti o distesi bocconi su quell’orlo, rapiti dalla strana atmosfera, finché d’accordo, deciso l’abbandono del luogo e al momento di alzarsi in piedi, Erich, il più forte dei due, scattò improvviso, come cane rabbioso su Hans che con mezzo giro rotatorio su se stesso, annaspando nell’aria senza un grido precipitò nel cratere a testa in giù sulla sabbia nera del ripidissimo pendio. Rotolò fino a perdersi alla vista per il fumo delle esplosioni.
A quel gesto assassino seguì il lancio dello zaino e del bastone di Hans che sparirono.
Joachim, rimasto pietrificato dalla scena fu preso da brividi convulsi che imputò all’accanirsi del vento gelido. Il cane Whisky, che intanto si era fatto rivedere dopo i suoi abbandoni temporanei, fece la stessa fine; fu lanciato giù anch’esso dopo aver morso la mano ad uno dei due scellerati.
Compiuta la prima parte della loro missione, i due, estranei a quel luogo che incutava terrore a solo restarci, furono presi da breve panico che superarono rinfrancandosi a vicenda. Fu pertanto deciso di restare sul posto, riparandosi dietro grossi massi, sdraiati sul tiepido terreno per trascorrervi la notte. All’alba avrebbero cercato le piste battute per rientrare al villaggio. Trascorsero così la peggiore notte della loro vita tormentati da folate gelide che a tratti portavano i gas venefici del vulcano.

(4)

Palino, il figaro dall’aria levantina che vendette a buon prezzo “la tana” a Bormann e con il quale aveva mantenuto ottimi rapporti di amicizia, si trovò casualmente quella mattina nei pressi del sentiero di arrivo degli escursionisti e fu incuriosito delle condizioni in cui notò i due tedeschi. Laceri, feriti in viso e sulle mani, si erano smarriti tra i rovi e le grandi macchie di ginestre alla ricerca del percorso usuale per la discesa. Lo stato di palese ansietà dei due lasciò perplesso Palino che chiese loro notizie di Hans, essendo stato informato da lui stesso il giorno prima, e casualmente, dell’ascensione al vulcano, quasi presagio della sua fine.
Il barbiere, alle risposte evasive dei due, dimostrando caparbietà e senso di amicizia verso l’amico straniero, volle approfondire il caso recandosi, come d’uso in quell’isola per la minima controversa, dai carabinieri ai quali partecipò le sue perplessità.
I biondi teutoni furono fermati in tempo sulla spiaggia, in procinto d’imbarcarsi, dopo che “la tana” fu trovata a soqquadro e del suo proprietario e del suo cane nessuna traccia.
Gli assassini si contraddissero diverse volte negli stringenti interrogatori separati cui furono sottoposti tramite Salvatore la guida che fungeva da interprete. Al secondo giorno la loro tracotanza iniziale cedette d’improvviso con la conseguente confessione del crimine. Sparsasi la notizia dolorosa, tutti gli isolani manifestarono un cordoglio sincero mentre alcuni, minacciando il linciaggio dei due reprobi si accalcavano commentando dinanzi la piccola caserma.
Si vociferò presto che Hans, celandosi sotto falso nome fosse stato un ex comandante di un campo di sterminio nazista in Polonia dove si era distinto per la sua efferatezza su migliaia di ebrei e così la vendetta sionista lo aveva raggiunto sin lì. Si disse pure che fosse stato il tenutario di una grossa somma di denaro rapinata in Germania e da lui sottratta con inganno. Di essa non fu però trovata traccia.
In un immediato sopraluogo sul vulcano, presenti i due assassini, fu trovato il cappello di Hans ch’era volato via e nient’altro.
Il magistrato preposto alle indagini, giunto in aliscafo dal capoluogo, postosi sullo stesso punto di osservazione dei turisti, vide, attraverso il binocolo, il corpo del tedesco semisepolto dai lapilli.
Dopo attenta riflessione non volle autorizzare i vigili del fuoco al recupero della salma. Non intendeva porre in pericolo alcuna persona con il suo permesso. Trascorsero così diverse ore tra proposte e solleciti in attesa che un evento nuovo sbloccasse la situazione. Tra i curiosi intervenuti si avanzavano le idee più fantasiose per quel difficile recupero mentre le ore trascorrevano sotto un caldo sole. La situazione stagnava, finché Salvatore non decise di proporsi al magistrato al fine di tentare, a proprio rischio e pericolo, il recupero mediante una sua tecnica sperimentale. Pensava di conoscere bene il vulcano avendoci convissuto per più di quarant’anni e, a suo parere, non sarebbe stato tradito.
Il magistrato non si oppose alla sua idea, ma precisò che non si sarebbe assunta alcuna responsabilità. Salvatore che di mattina era sobrio, calcolati bene i tempi intercorrenti tra le varie esplosioni e l’andamento del vento, annodatasi una lunghissima corda alla vita fu pronto per essere calato all’interno del cratere, indossata una maschera antigas ed un elmetto dei vigili.
Ironizzando sulla propria fine immatura, raccomandandosi ai presenti per l’assistenza alla sua vedova, memore della morte di un fotografo francese che pochi anni prima aveva osato troppo, Salvatore fu lentamente calato all’interno del cratere mentre con la mano destra reggeva il cappio di un’altra lunghissima corda.
La prima fase della delicata operazione ebbe una pausa quando la guida toccò la sommità del ripidissimo pendio sabbioso all’interno del grande invaso. Un primo momento di circospezione ed iniziò a scendervi affossando fino ai ginocchi; giunto in basso, al termine del dislivello, dopo aver sostato in osservazione per qualche minuto, fuori dall’area ad alto rischio, fu visto, dal magistrato che seguiva l’operazione con il binocolo, guardare l’orologio. Trascorso qualche minuto di esitazione che parve interminabile, iniziò una corsa sul terreno accidentato in direzione del corpo dell’amico, sparendo alla vista di tutti. Lì si abbassò sulla salma, le serrò il cappio ad una caviglia e rigiratosi di scatto ripercorse il tratto arrancato.
Sostenuto dalla corda che lo traeva verso l’alto uscì fuori da quella zona pericolosa. Altri vigili traevano piano la salma.
Salvatore ebbe il tempo esatto di giungere alla base dello scosceso piano sabbioso che le esplosioni ripresero precedute da fischi sibilanti. Tutti coloro che osservavano quel rischioso recupero esultarono quando videro comparire, come fantasma, Salvatore fuori da quel velario di morte; la foschia stagnante del luogo lo aveva nascosto per quei pochi attimi che ognuno considerò infiniti. La salma venne recuperata con una certa difficoltà ed issata come fantoccio disarticolato. L’operazione che ebbe momenti di grande tensione emotiva riuscì con successo e fu salutata da uno scrosciante applauso all’indirizzo della giuda quando riapparve da quel baratro infernale. La giuda manifestò appena un sorriso e rispondendo ad un giornalista presente disse che con il suo gesto aveva voluto dare prova di un atto di pietà verso un uomo ed in particolare verso un amico del quale aveva apprezzato le doti umane.
Hans Bormann, straziato nel corpo, fu adagiato in una rozza cassa di abete e trasportato giù al cimitero, dove, dopo l’autopsia, fu sepolto temporaneamente in una tomba abbandonata, in attesa del prosieguo delle indagini.
Si avverava così il suo desiderio, espresso più volte, di concludere la sua avventura terrena in quel luogo in vista del mare.
L’indomani, sulla vecchia lapide corrosa dalla salsedine, tra gerani di sangue, comparve una scritta col gesso, dalla calligrafia incerta, che diceva: “quì giacie il mio amico Anz Borman”.


Una mattinata al buio

In quelle mattine in cui il livido colore del cielo si accompagnava ad un mio più chiaro disinteresse scolastico, nasceva quella decisione.
E così, all’incerta luce intristita da una pioggia sottile e snervante, decidevo di marinare la scuola.
La “routine” solita di una condizione scolastica ripetitiva, senza alcuno spazio concesso alla fantasia, alienava ogni mio interesse allo studio. Essa era così diventata sinonimo di libertà apparente, anche se gravata da pensieri opprimenti di colpa che si alternavano nella mente tra il pentimento e l’infinito amore per il cinema.
La decisione, anche se sofferta nel limbo della trasgressione, mi induceva a ricercare la complicità di un compagno di scuola ed, in sua assenza, la via solitaria di uno dei due cinema palermitani il cui orario d’inizio delle proiezioni era fissato intorno alle dieci del mattino. Ma aggirandomi nei pressi di quello prescelto, tra vie protettive, attendevo l’apertura del locale sbirciandolo da lontano allo scopo d’entrarci furtivo per evitare, data l’ubicazione centrale e la prossimità della mia abitazione, spiacevoli incontri.
Ed ecco vedere apparire, per incanto, al suo ingresso il tecnico proiezionista, un uomo claudicante vestito di nero e dallo sguardo spento; poco dopo, il proprietario del cinema, basso quanto largo, dal sorriso pronto, ed ancora la cassiera, una vecchia signorina dalla chiara impronta di zitella stagionata. E, sempre in ritardo, il ragazzo delle caramelle e dell’acqua che a sera era venduta in grossi bicchieri verdi colmi ed annebbiati d’anice.
Una caratteristica ambientale che ritrovavo ogni volta che ne varcavo la soglia era l’immancabile umidità del pavimento del cinema appena lavato dall’inserviente e che non era mai completamente asciutto; ma soprattutto il nauseante alito di disinfettante, greve come qualcosa di putrido.
La mattinata che vi avrei trascorso, come ladro protetto dall’oscurità, era spesa all’insegna dello stomaco vuoto per aver impegnato in un biglietto rosa d’ingresso la modesta somma per uno spuntino. L’ingresso chiassoso di un pubblico, in maggioranza adolescente, ma anche di disoccupati scansafatiche, era a stento contenuto dalla maschera che controllava col cipiglio dell’unico occhio di guercio.
I Cinema “Bomboniera” e “Vittorio Emanuele” a Palermo erano dunque il rifugio, a buon prezzo, di una giovane umanità che voleva sgravarsi per due ore delle proprie responsabilità di vita, dove la libertà vocale, specialmente prima della proiezione era imbastita di sguaiati richiami ed epiteti esilaranti. Luoghi di varie iniziazioni e della prima sigaretta mai fumata, per intera, per obblighi di cessione ai compagni; e di risse incruente causate da un nonnulla come sfogo erompente di tempra giovanile compressa.
Immancabili, infine tra di noi, due o tre distinti signori dall’aria invitante che sapevamo omosessuali. Uno di loro, anziano dai capelli tinti di un nero uniforme contrastante con un viso segnato da trascorsi immondi, era da tutti conosciuto come “il professore” che, pare, lo fosse stato, ma anche radiato per indegnità.
Il ragazzo delle caramelle dall’urlo facile bandiva la sua dolce mercanzia costituita da semi di zucca e noccioline tostate, sesamo caramellato e Kubaida, un dolce durissimo di origine araba.
Chi poteva, scartava con ostentazione caramelle, mentre io ed altri lanciavamo da una canna soffiandovi dentro coppetti di carta in tutte le direzioni, compreso lo schermo di proiezione ed in particolare sulle natiche delle attrici. Ne ricordo una che, per un mio lancio perfetto sembrò sussultare volgendosi di scatto inviperita verso il pubblico. Le risate furono tante e fino alle lacrime per i tempi perfetti che si erano combinati casualmente.
Ancora alcuni minuti di attesa, prima della proiezione, infarciti di richiami osceni e tutto piombava nel buio più assoluto mentre un fruscio pesante dall’altoparlante dava inizio al commento musicale del film muto. Non che il cinema di allora fosse ancora a quello stadio, ma soltanto in quei due miserabili locali se ne proiettavano ancora di quel genere. Non potevano adeguarsi ai tempi.
Il sonoro era arrivato da anni, ma lì, per quel modico prezzo ci si ritrovava studenti, ladruncoli e disoccupati.
Di quei vecchi dischi fruscianti che accompagnavano la proiezione ne conoscevo ogni nota e sapevo financo dove si sarebbero inceppati ripetendo alcune note a lungo fino a che il tecnico in cabina, per i reiterati fischi in sala, non si fosse deciso a spostare il braccio del grammofono.
La pellicola di un pallido color ocra, dall’immagine talvolta invisibile perché martoriata da una pioggia d’usura di consunzione, ci narrava storie patetiche che a noi poco importavano, di pionieri del West che lottavano per la sopravvivenza tra rapinatori ed assalti di indiani. E così sconosciuti protagonisti, ma anche Tom Mix, Ken Mainard ed altri assicuravano alla giustizia rapinatori di banche e diligenze con il degno coronamento di un bacio di donna ritrosa che balbettava frasi che non udimmo mai.
Quelle figure traballanti dai movimenti a scatti furono i protagonisti di un mondo oggi del tutto scomparso, ma che segnarono con la loro patetica recitazione l’epoca pionieristica del Cinema e per il pubblico uno svago alle incertezze della vita. Progenitrici delle “stars” di oggi, tracciarono le basi di quell’itinerario culturale che oggi si dibatte tra i suoi problemi.
La musica del disco frusciante continuava a spandere note asfittiche di celebri sinfonie che nulla avevano in connessione con il film, per cui era cosa normale che le scene più crudeli fossero accompagnate da soavi melodie e di contro, per certe scene d’amore vi fosse sciorinata una musica dalle fosche tinte. Ma tutto ciò ci costava relativamente poco e ci appagava di una libertà vocale scatenata e soprattutto ci proteggeva da una probabile interrogazione scolastica. Comunque era evitata una giornata di tedio tra i banchi di scuola.
In sala non esisteva presenza femminile, né al mattino né a sera; sarebbe stato disdicevole a causa della teppaglia che la frequentava.
Ma, oltre ai films “westerns”, anche Ridolini, Buster Keaton ed altri ci allietavano, protagonisti di esilaranti avventure e così Charlot per la sua vita sventurata affrontata con disincantato distacco. I suoi disimpegni acrobatici da energumeni e sfruttatori ci regalavano risate da rasentare lo spasimo.
Chopin, Mozart, Respighi, Beethowen, Grieg, la cui musica strideva con le vicende spesso sanguinarie dello schermo continuavano ad essere mortificati per l’uso brutale che se ne faceva ed, ancora oggi, al loro ascolto, non posso dissociare la cagnara di quelle stagioni spensierate. Poteva, infatti, accadere che la “Marcia funebre” di Chopin accompagnasse le esilaranti fughe di Ridolini, e Cajkovskij quella fosca vicenda della “Muta di Portici”. Ma la cosa più scatenante per noi che ne aspettavamo le occasioni, era la improvvisa comparsa sullo schermo di uno spezzone di film che nulla aveva a che vedere con quello in proiezione. I fischi si sprecavano con gli urli, ma l’accoglievamo come motivo pretestuoso per rincarare la baldoria.
Con due ore trascorse così al buio di quella sala maleodorante, eccitati all’uscita più che all’entrata, avevamo evitato una probabile interrogazione in trigonometria o in greco e con gli occhi feriti dalla luce del giorno sciamavamo per il Centro ancora per qualche ora per avviarci poi alle rispettive abitazioni oppressi da un senso di colpa, ma anche lieti di aver trascorso una mattinata esaltante.
L’unico problema per me da risolvere era quello di riuscire a sostenere lo sguardo lettore di mia madre.


Un brano di vita

Il giorno in cui ci fu recapitata, era un venerdì; ricordo bene, perché la signorina Brigida, nostra anziana vicina di casa, mi aveva bucato, ancora una volta, un gluteo con una iniezione dolorosissima per una cura ricostituente.
Ci sembrò una vera apparizione, tanto ci sbalordì. Il commesso della ditta Sottile di Via Roma ce la consegnò senza nulla chiedere, al secondo piano di Via Celso, 30, a nome del mio fratello maggiore.
Era fiammante nel suo lucido nero, con i pneumatici più grossi dei normali, bordati di bianco e con un grosso fanale cromato. Ma ciò che c'incuriosì di più furono i cerchioni delle ruote in legno. Mai visti prima in una bicicletta. L'autarchia ed un certo sapore di novità s'imponevano.
A pranzo apprendemmo da Ninì, il fratello proprietario, che quell'acquisto a rate, festeggiava il suo primo stipendio di ufficiale di prima nomina nell'Esercito.
A me fu subito detto, con molta chiarezza, che non avrei dovuto toccarla “nemmeno con un dito”, dati i miei trascorsi di distruttore patentato. Mi portavo appresso quel marchio essendomi reso colpevole di chissà quali misfatti di cui non ho memoria.
Una bellissima “Bianchi”, dunque, con un “carter” lussuoso recante la scritta della marca. Il campanello aveva un trillo allegrissimo e forte.
Trascorsero almeno due mesi prima che mi fosse permesso di montarla per una brevissima prova e devo dire che credetti di volare in estasi, ammirato dai ragazzi del quartiere. Feci il giro dell'isolato di casa e venni chiamato dal balcone alla consegna.
Il fatto di abitare, però, in un appartamento al secondo piano, produsse, nel tempo, un lento ma progressivo disinteresse nei miei due fratelli maggiori relativo ad essa; infatti, scenderla in strada e riportarla in casa, a spalla, su quaranta gradini circa, richiedeva un certo impegno fisico che, a lungo andare, sminuì il loro interesse iniziale.
Allorché fu chiaro in famiglia tale loro distacco, sollecitai ancor più mia madre affinché intercedesse per un permesso d'uso, almeno domenicale, terminati gli odiati compiti scolastici.
Le raccomandazioni che mi accompagnavano, allora, erano tali e tante che ancora mi risuonano. Ed, in verità, ero terrorizzato di una eventuale caduta, non tanto per me che n'ero avvezzo, quanto per un graffio che certamente si sarebbe prodotto su quel lucido metallo.
Al rientro di ogni mia uscita che si prolungava sempre più, la bicicletta veniva sommariamente controllata dai fratelli che, ormai, la usavano soltanto per gite fuori città.
Nel giro di un anno ne fui padrone assoluto. Il quartiere non ebbe più segreti per me e, come cucciolo curioso, mi allontanai sempre più, anche per rendere servizi in famiglia.
Il giorno in cui ebbi il permesso di recarmi a Bagheria, il nostro paese di origine, in visita alla zia Cristina, non nascosi l'emozione per le incognite di un tragitto complessivo di una trentina di chilometri.
Tutto andò bene per le giaculatorie di mia madre ed in serata ritornai in città con una borsa colma di profumati mandarini e limoni.
Avevo conquistato quella bicicletta che trattavo con ogni cura; la chiamai “Bianchina”. Ogni amico me la invidiò, chi espressamente e chi con sguardi vogliosi.
La città intera si aprì alla mia curiosità ed in sella al nuovo mezzo la percorsi in ogni senso. Avevo acquisito una conoscenza di essa simile a quella dei cocchieri. Al pomeriggio il mio vagare conosceva una pausa lieta per ascoltare “u cuntu”, ossia il racconto delle gesta dei paladini di Francia, dei loro amori trascendentali, delle loro ire, follie e vicende cavalleresche.
In un'atmosfera resa tangibile dal poeta narratore, aleggiava aulico il mito della grecità; la sua voce come ripescata da quella di Omero saltellante in toni difformi sciorinava una narrazione ispirata, sotto le palme di quell'oasi cittadina dinanzi la Cattedrale che è la Villa Bonanno. Ascoltavo incantato a cavallo di “Bianchina”, ippogrifo della mia fantasia. Vagavo con quegli eroi per foreste incantate e duellavo con gl'infedeli per la conquista di luoghi sacri e di pulzelle vereconde.
Ugualmente accadeva per un altro poeta di strada che incontravo casualmente per il suo continuo spostarsi da un quartiere all'altro. Si trattava di Giuseppe Schiera, uno stralunato poeta le cui allitterazioni in rima baciata di graffiante ironia narravano di costume cittadino e nazionale.
Le risate e gli sghignazzi degli sfaccendati erano garantiti, mentre, tra un gioco di prestigio e l'altro, l'allampanato uomo si rigirava in bocca una sigaretta accesa. I passanti richiamati dai suoi lazzi s'addensavano ed egli dava inizio alle sue rime esilaranti.
La situazione politica in Europa precipitava ed il dittatore italiano annunciava, solenne, che “la dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di Francia ed Inghilterra”.
Poco dopo i miei fratelli venivano chiamati alle armi e presto ne perdemmo il contatto epistolare.
Le incursioni aeree arrivarono e la prima, ad opera di aerei francesi, produsse pochi danni al porto ed un morto. Mezza città accorse per constatare di persona e mi ritrovai tra i primi per vederne gli effetti ed il morto che mi apparve diverso da quelli che avevo visti prima, composti e con i vestiti in ordine. Questo, infarinato di polvere era scomposto come fantoccio su una grande macchia di sangue rappreso.
La città impigriva nel suo caldo clima e quasi rifiutava la realtà di trovarsi in un conflitto armato che tragicamente si espandeva.
Presto le incursioni, ad opera degli Inglesi produssero i primi seri danni al porto con vittime tra i militari ed una nave, carica di munizioni, saltata in aria.
La città sembrò scuotersi per adattarsi ai primi sacrifici in ogni senso, specie in fatto di alimentazione. Tutto cominciava a scarseggiare e la vita intristiva.
La situazione bellica precipitava e l'ingresso degli Stati Uniti nella mischia mondiale segnava una svolta negativa per l'Italia.
Palermo cominciava a subire pesanti bombardamenti aerei, tali da indurre la maggioranza dei cittadini a cercare rifugio in provincia e così anche noi, ridotti a me, sedicenne, mia madre vedova e mia cognata in attesa di un bimbo. Ci trasferimmo a Bagheria nella casa dei nonni materni, ospiti di quella santa donna signorina ch'era la zia Cristina.
Le micidiali incursioni avvenivano, in media, ogni tre, cinque giorni ed, in genere, nelle prime ore del pomeriggio, tanto che ogni mattina la città si rianimava nel suo lavoro.
Io partivo da Bagheria in bicicletta con due borse colme di fragrante pane per rivenderlo di contrabbando a Palermo per le restrizioni istituite. La mattinata la trascorrevo, dunque, in città passando di porta in porta nell'ambito delle conoscenze che avevo fatto tra coloro che, dimostrando un particolare attaccamento alla propria casa, rifiutavano di abbandonarla.
Il mio piccolo commercio integrava la misera pensione di mia madre mentre i nostri limoneti, in stato di abbandono, intristivano al sole.
Il mio quotidiano rientro in paese avveniva, quasi in un rituale, soltanto dopo essermi recato alla casa natale di città per raccogliere quanto più potessi al fine di salvarlo da una eventuale distruzione. Caricavo la bicicletta in ogni suo punto, mentre io m'impegnavo con uno zaino militare sulle spalle. Ogni giorno, per un periodo di un anno e più, mi sobbarcai a tale fatica che, sinceramente, non avvertivo, se non per la noia ripetitiva. Riposavo la domenica in paese con le mie scorribande.
Ma, ogni giorno si aggravava la situazione in città per le incursioni sempre più frequenti. I miei occhi di adolescente si sbarravano dinanzi alla città martoriata e alle case sventrate che, il giorno prima, avevo visto integre.
Qualche volta mi trovai anch'io nel pieno di una incursione aerea cavandomela con tanto tremore addosso come quella volta che, non so neppure io come, cercando rifugio nei pressi della Stazione Ferroviaria Centrale, mi ritrovai nel Cimitero di Sant'Orsola tra le tombe in frantumi. Al “cessalo allarme” mi diressi verso l'uscita passando dinanzi alla sua antica chiesa medioevale da dove parti la rivolta contro gli Angioini, nota come i “Vespri siciliani”; una visione raccapricciante mi fulminò quando notai, attraverso il suo ingresso spalancato, decine di persone morte distese ed allineate occupanti l'intera pavimentazione. Fuggii sconvolto, ma cominciai ad assuefarmi a quelle visioni. Tante ne avrei viste in seguito.
Le squadre dell'U.N.P.A., formate da civili anziani militarizzati, tentavano di dare una parvenza di ordine ed ammirevoli erano i Vigili del Fuoco chiamati per i casi più urgenti.
La città assumeva, ogni giorno di più, l'aspetto della desolazione per le macerie dei palazzi che impedivano la scarsa circolazione automobilistica e pedonale. Un senso di tragedia alitava con chiarezza. La Via Celso, dove, in stato di abbandono è ubicata la nostra vecchia abitazione non era stata interessata dalle massacranti incursioni fino a quel fatidico nove Maggio del '43, giorno in cui due distinti bombardamenti a tappeto sulla città la ridussero un cumulo di rovine.
Quel giorno, al solito, mi ero recato in città; avevo venduto il mio pane ed ero ritornato alla casa cittadina per il consueto carico da salvare. Aggiravo con “Bianchina” palazzi crollati o pericolanti per districarmi in quel labirinto di morte. Appunto quel nove Maggio ero appena rientrato a Bagheria che sul paese gravò, improvviso, un fatale rumore in crescendo. Saliti in terrazzo avvistammo circa trecentoventi aerei come minuscoli moscerini neri. Li osservavo supino e li contavo mentre ci sorvolavano. Erano diretti su Palermo da cui nel giro di qualche minuto s'alzò una immensa, mostruosa colonna di polvere da essere vista da noi, distanti, in linea d'aria, almeno dieci chilometri. Le donne piangevano ed un senso di disperazione ci attanagliava. Eravamo inebetiti.
La nostra casa di città era nei nostri pensieri.
In successive ondate distruttrici Palermo subì il più grave bombardamento. Le vittime furono moltissime tra la popolazione per l'insolita ora dell'incursione. Era avvenuta infatti, intorno a mezzogiorno.
Bagheria, stracolma di sfollali palermitani che si erano intanati in ogni buco del paese, assistette, anche ad un fatto inatteso. Un aereo quadrimotore americano (la cosiddetta “fortezza volante”) comparve improvvisamente, a volo radente, sul paese per precipitare, con una lunga scia di fumo, a mare nei pressi di Capo Zafferano. Aveva sfiorato i tetti delle case con agghiacciante rumore e si era disfatto del suo carico mortale sganciandolo al limite del paese. Si suppose, in un tentativo estremo di risparmiarlo.
Corsi, fremente, in bicicletta a vedere le voragini provocate dalle esplosioni in un limoneto che ne fu distrutto, mentre due bombe di grosso calibro si erano interrate senza esplodere.
Fui preso da un moto di rabbia, mista a viscerale amore per la mia casa natale e senza avvertire le mie donne presi la via per Palermo, la solita S.S. 113, anche se attardato da una inefficienza alla catena di trasmissione della bici.
Volevo rivedere il luogo dove i miei sogni di adolescente si rincorrevano come rondini sul campanile.
Stravolto ed in affanno giunsi in città. Sin dalla periferia cominciai ad avvertire quanto fosse stata distruttiva quell'incursione; gli effetti erano li con la testimonianza delle vie impraticabili e le inferriate dei balconi divelte e pendenti come trofei di guerra dai palazzi sventrati. In diversi punti avevo visto con raccapriccio dei morti cui la pietà umana non concedeva più di un interesse momentaneo. Rari passanti camminavano al centro della via cosparsa da frammenti di ogni tipo, la Messina Marine, lamentandosi ad alta voce come assenti ed in “trance”.
Ovunque aleggiava un tangibile senso di morte. Un'aria greve, polverosa, in un silenzio irreale, spezzato da qualcuno che imprecava e piangeva mi indusse a riflettere sulla necessità o meno di entrare in città per la mia verifica. Pedalavo lentamente tra i massi scagliati in strada ed ebbi attimi d’incertezza; d'improvviso, dietro un vasto cumulo di macerie, mi si parò dinanzi una triste scena: una carrozzella da nolo ed il suo cocchiere stavano per terra abbattuti da una folata di morte. Dentro di me si andava pietrificando il senso di morte e mi sorprendevo a fissare quella scena. Tali immagini anziché farmi fuggire all'inverso mi spronarono ad andare avanti sul mio mezzo che a piedi.
Proseguii, dunque, spinto da incosciente curiosità, addentrandomi per vie a me poco note o sconosciute per aggirare le rovine che ostruivano la via principale. Ebbi anche momenti di smarrimento non riuscendo a trovare riferimenti esatti per l'improvvisa modifica che aveva generato una nuova realtà.
Da ogni palazzo rovinato in strada venivano fuori, come braccia invocanti le travi di legno che avevano sorretto per secoli i vari pavimenti con tanto mobilio fracassato, ma era più triste notare quello rimasto in bilico o al suo posto. Mi sembrava di violentare con lo sguardo l'intimità di quelle famiglie disgraziate. Tra tanta varietà di oggetti esposti improvvisamente alla curiosità dei pochi passanti ricordo lucidamente un cane di piccola taglia guaire tra due manichini di sartoria. Era in bilico su un pavimento che si reggeva all'edificio soltanto da due lati.
In alcune zone dove mi ero addentrato dovevo necessariamente superare le macerie che mi si paravano davanti. Arrancando su di esse in quel paesaggio spettrale sentivo rintronare il battito accelerato del mio cuore combattuto da vari sentimenti.
Verso il centro della città dov’è ubicata la nostra abitazione, gruppi di vigili del fuoco erano già al lavoro insieme a volontari per la ricerca di persone che erano state indicate con sicurezza sotto le macerie. Era una gara con il tempo.
Si cercava, principalmente, di rendere praticabili le vie di collegamento interzonali.
Due o tre volte mi fu imposto o consigliato di tornare sui miei passi, data la pericolosità delle zone che attraversavo. Ma, a piedi o in bicicletta, compiendo giri tortuosi ero giunto nei pressi di casa mia, in Via Maqueda, all'ingresso di Via Celso, dove è ubicata in stato di abbandono la mia casa natale.
Avanzavo in salita con un tremore più accentuato di prima. Avevo il terrore che, percorsi ancora cento metri, avrei scoperto di essere rimasto orfano di quel luogo di memorie. Vagavo in un limbo assolato dove mi mancavano molti punti di riferimento per l’abbattimento di alcuni edifici. Credevo di trovarmi in un sogno funesto dal quale non potevo risvegliarmi; il silenzio irreale mi martellava i timpani. L'unico rumore era, forse, il mio ansare furioso. Ebbi, improvviso, un pensiero per le donne che non avevo avvertito della mia prodezza, quando me ne esplose un altro: se avessi trovato l'edificio in piedi non vi avrei potuto accedere per aver dimenticato di prendere le chiavi di casa. Mi arrovellavo sulla mia leggerezza decisionale ed avanzavo verso la fontanella al limitare del Vicolo Ragusi per una bevuta consolatoria. Pochi sorsi e mi avvicinavo al luogo del mio interesse.
La mia pena fu grandissima quando constatai che la chiesa cinquecentesca della piccola Piazza del Gran Cancelliere era completamente rasa al suolo. Stranamente, soffermandomi qualche attimo a meditare su tale scempio, mi parve di udire distinte le voci infantili di tutti quelli che l'avevamo frequentata. Erano quelle delle preghiere, della baldoria, dei canti. Anche li un'assurda luce si era creata e tutto era stravolto. La via mi sembro offesa ed offerta oscenamente al caldo sole.
Gli edifici sulla sinistra della via erano rimasti in piedi e così la mia casa si era salvata. Ma il palazzo nobiliare, nostro dirimpettaio, sul cui ingresso un cartiglio ricordava: “Qui fu l'antico palazzo di Maione” era completamente rovinato su se stesso e su di esso si aggiravano degli sconosciuti che parlavano a bassa voce. Giunto li vicino appresi della coppia di coniugi che era rimasta sepolta li sotto; il calzolaio e sua moglie, una prosperosa donna bionda che ero solito guardare con interesse.
Erano vivi e si lamentavano debolmente; rispondevano perfino ai richiami di quelle persone che, mentendo, promettevano immediati soccorsi. Noi, però, non potevamo che raccogliere i loro ultimi palpiti di vita. Mi feci il segno della croce quando quegli uomini mi risposero che mai si sarebbe potuto recare soccorso a quei disgraziati a motivo delle strade adiacenti bloccate da tante macerie. Sarebbe stato vano ogni tentativo di intervento manuale su quei massi enormi dell’antico palazzo.
Quel nove Maggio del '43 mi è rimasto marchiato a fuoco nella mente ed ancora ne rivivo quegli istanti drammatici compreso quello dell'avventuroso ingresso a casa mia attraverso l'appartamento del piano sottostante al nostro. Infatti, lasciata la bicicletta sulle macerie che ostruivano completamente l'ingresso al nostro edificio, ne scavalcai agevolmente il balcone del primo piano. Mi introdussi in quell'appartamento dalle imposte divelte e lo percorsi al buio per uscirne dalla sua porta d'ingresso. Mi affacciai, così, nella scala comune per salire al nostro appartamento, al secondo piano. Non avevo le chiavi di casa e notai che la porta d’ingresso aveva resistito bene a quelle tremende sollecitazioni.
Per entrarvi misi, allora, in atto quella strategia acrobatica che eravamo soliti usare, in simili occasioni, io e mio fratello Ninì.
Sarei passato attraverso la finestra che s'affaccia sulla tromba delle scale, sospendendomi su di essa, poggiando il piede sinistro su una tubazione orizzontale di zinco, quanto mai malsicura. Trattenendomi inoltre, con la mano destra sulla stessa tubazione verticale, le avrei assestato con la mano sinistra, un buon pugno tale da spalancarla.
L'appartamento mi apparve estraneo. Grossi frammenti di tufo occupavano i pavimenti di due stanze. Vi erano stati scagliati dalla violenza delle esplosioni che avevano abbattuto le imposte del balcone che dà sulla Via Celso. La stanza da pranzo era inondata di una luce nuova per la sparizione del palazzo nobiliare dirimpettaio. Dal balcone credetti di affacciarmi su una piazza e non sulla stretta via cui ero abituato. Da lì scorsi, come per scatto fotografico, e per la prima volta, la cupola verde del Teatro Massimo che dista, in linea d'aria, circa mille metri.
Un magnifico azzurro di cielo che non partecipava alla mia mestizia s'inquadrava fra le imposte divelte. Diverse centinaia di libri erano disseminate per la stanza sotto una coltre di frammenti tufacei e polvere. Ogni oggetto aveva perduto la sua identità.
Aggirandomi per casa ispezionai, tastando timoroso con il piede, le stanze retrostanti rimaste al buio.
Raccolsi qualcosa che ritenni necessaria e non ingombrante da portare via. Riattraversai, in un silenzio angosciante, l'appartamento sottostante al nostro, scavalcandone di nuovo il balcone spalancato sulle macerie.
Sentivo percuotermi le tempie per il momento che vivevo; la città tutta sembrava coperta da un ovattato sudario.
Due colombi disorientati, improvvisamente comparsi a volo radente, mi sfiorarono il capo. Ebbi un sussulto di vera paura. Più in là, due persone che non vedevo, molto distanti da me, parlavano tra loro e per la strana eco che si era creata, ne coglievo, distintamente il dialogo. Una di esse affermava che non si sarebbe mossa da lì e che, se il destino l'avesse voluto, sarebbe rimasta sotto le macerie della sua casa.
Ripassai su quel cumulo che seppelliva i miei due conoscenti e fermandomi un attimo senza respiro, riascoltai i loro flebili lamenti.
Mi segnai e mi allontanai vibrando dentro.
In quei giorni appresi della morte di Giuseppe Schiera, quello svampito poeta di strada che con i suoi surreali ditirambi aveva segnato una stagione della vita cittadina.
Durante il ritorno a Bagheria mi fu chiaro, per ritardata riflessione, quanto avessi osato.
Dopo pochi giorni tornai a prelevare altri oggetti da salvare ed, alla fine, decisi di portar via financo la maggior parte dei libri della nostra biblioteca con particolare riguardo per quei libri verdi della Collezione Medusa della Mondadori a cui eravamo particolarmente legati.
I suoi nomi prestigiosi, da Dos Passos a Lewis, a Hamsun, Huxley, Woolf, Gide, Saroyan, Faulkner mi avevano affascinato ed aperto nuovi orizzonti aiutandomi a crescere e per me salvarli aveva il significato di rendere loro gratitudine.


Il Saccheggio

Compivo sedici anni quel giorno in cui riferii ai miei familiari (mia madre, la zia e la cognata in attesa di un bimbo) di essere stato assunto dal Comando Militare Territoriale di Bagheria dove vivevamo, a causa dei bombardamenti, da cittadini sfollati da Palermo.
La grande e fresca casa della zia ci accoglieva ed eravamo affamati.
La notizia fu accolta con gioia.
L’indomani mattina, alle otto precise, fui presente all’appello.
Eravamo circa un centinaio, tra studenti e contadini disoccupati che per un rancio giornaliero ed una misera retribuzione quindicinale venivamo impiegati a distruggere interi limoneti lavorando di piccone e badile per creare fossati anticarro che, a parere dei militari, avrebbero fermato l’avanzata di carri armati ed altri veicoli nemici di una improbabile invasione.
Il lavoro era in sé abbastanza pesante; le vesciche alle mani, tante, ma esso era, in parte raggirato da quella flemma tutta italiana per la quale siamo noti.
Un fossato lungo qualche chilometro a forma di “V”, profondo sette metri, dietro le scuole nuove avrebbe fermato una invasione nemica?
La cosa ci lasciava perplessi, ma ci conveniva non trattare quell’argomento ad alta voce. In realtà avevamo la sensazione di venire impiegati non per quell’opera militare, ma per godere di un’assistenza umanitaria dati i tristi tempi bellici.
La fame era, però, nella mente e nel fisico e le donne di casa mia rastrellavano la verdura spontanea dei nostri limoneti abbandonati di De Spuches e di Incorvino il cui frutto non aveva più mercato ed intristiva al sole. Di quell’erba ne mangiavamo tanta, cruda e cotta, fino alla nausea, ma da quel giorno festoso trovai da masticare cose diverse.
Ed, al riguardo, avevo escogitato un ingenuo espediente che mi consentiva di prendere due volte il rancio militare che veniva distribuito a mezzogiorno.
Al suono della tromba che ci avvisava di sospendere il lavoro, mi trovavo, quasi sempre tra i primissimi in fila, per ricevere quella brodaglia di pasta nera o riso. Ero velocissimo ad ingoiarla e, dopo aver pulito la gavetta, mi rimettevo in fila, ormai tra gli ultimi, per scroccare un’altra razione. Lo stomaco era sistemato e, così, i due pani e la frutta li portavo a casa.
L’invasione anglo-americana avvenne come prevista.
I responsabili civili e militari si erano eclissati e tutti i magazzini di approvvigionamento dello Stato e di privati cittadini vennero saccheggiati da una popolazione famelica allo stremo che si appropriò di ogni cosa; dalla farina alle mandorle secche, dalle medicine ai letti del treno ospedale della Croce Rossa fermo alla Stazione Ferroviaria, ai mezzi militari, alle armi, nafta e financo cavalli.
Io partecipai con l’entusiasmo della mia età a quell’esperienza esaltante per procurarmi cibarie diverse. La fame aveva i suoi diritti ed i magazzini che si ritenevano sprovvisti si rivelarono colmi di tanto ben di Dio. Mi sentivo compreso delle mie responsabilità e mi ero assunto l’onere dell’uomo di casa.
Per tale avventura alimentare portai a casa di tutto, comprese cose inutili che eccitavano la mia fantasia di ragazzo; tra esse tanta farina rimediata acrobaticamente e noccioline secche rovinate sul marciapiedi in seguito al litigio tra due uomini, uno dei quali esigeva la spartizione evitando di partecipare al saccheggio. Ed, ancora, scatolame di diverso genere dove primeggiavano i pelati di pomodoro e la caponata, nonché due pistole scariche.
Ma ciò che mi rese orgoglioso e felice dell’azione che compii fu quella d’impossessarmi di un magnifico cavallo di razza normanna, da tiro, la cui schiena sembrava una piazza ed il suo passo lento e maestoso una sua caratteristica. Avevo fatto esperienza per tante estati in campagna con i muli degli zii, per cui, saltargli addosso e guidarlo con decisione a casa della zia Cristina, attraversando il paese, fu quasi agevole.
Risalivo trionfante con esso per il Corso Butera, al centro della strada, proveniente dalla Punta Aguglia e diversi uomini provarono a fermarmi, sia per rubarmelo e sia per volerlo acquistare, ma io menavo calci a destra e a manca per difendere la mia conquista.
Al colmo di una gioia incontenibile tiravo dritto, fiero come cavaliere antico.
La folla invadeva la sede stradale ed i marciapiedi in un disordinato accorrere verso quei luoghi che si ritenevano ricchi di qualsiasi cosa da saccheggiare.
Ma, ahimè, per il mio cavallo che, di già, chiamavo Artù, l’accoglienza delle donne di casa fu quanto mai negativa e così gli fu negata l’ospitalità per ovvii motivi di spazio e di assistenza.
Era effettivamente ingombrante.
Il mio pianto accorato non valse ad intenerirle e così riuscì a venderlo per una misera somma ad un contadino vicino di casa che non era riuscito ad accaparrarsene uno.
Ma quel giorno di follia collettiva fu caratterizzato da un fatto da brivido cui assistetti e che mi sconvolse.
Trovandomi tra la folla forsennata ad abbattere il portone d’ingresso di un frantoio per l’olio di oliva in cerca di qualche lattina confezionata, assistetti a ciò che ancora m’inquieta al ricordo.
Tra quanti assaltavamo quel luogo, un uomo, lanciandosi dentro tra i primi, scivolò su quella pavimentazione viscida sparendo ai nostri occhi in una botola scoperchiata al livello del calpestio, colma di quel prezioso liquido.
In molti assistemmo alla scena e, pur nel trambusto del momento, s’alzarono alte grida a segnalare il raccapricciante dramma.
La botola non era più profonda di due metri, e larga altrettanto, ma il malcapitato vi era scomparso in un indicativo gorgoglio. Il panico si diffuse all’istante tra la gente, in specie tra coloro che, nella confusione del momento, non ne avevano percepito il motivo scatenante.
E, come accade, talvolta, in casi drammatici, si associò l’aspetto umoristico.
Tre uomini che si lanciarono di colpo in soccorso di quell’uomo sfortunato, scivolando uno su l’altro, come ebbri di chissà quale etilismo, si avvicinarono in ginocchio, con circospezione alla botola scoperchiata invocando altri al fine di reperire una corda, una scala o altro adatto alla bisogna. Ma uno dei tre, un mio cugino, sporgendosi di sua iniziativa sulla botola vi immerse un braccio alla ricerca del capo di quel disgraziato.
Attimi di grande tensione passarono tra gli astanti che ci eravamo allontanati in circolo e da lì a pochi secondi quanto mai lunghi, con fortuna strabiliante, emerse da quella trappola una testa stravolta come maschera tragica dalla bocca ed occhi spalancati, trattenuta per i capelli da mio cugino Pasquale.
Un urlo di gioia s’alzò da quella folla scomposta, mentre i tre soccorritori, aggrappati ai vestiti dello sfortunato, lo traevano con fatica sul pavimento dove fu fatto rinvenire a schiaffoni.
Il saccheggio ebbe il suo epilogo nella confusione più indescrivibile e quell’uomo venne abbandonato per terra tra i macchinari.
Raccattati fortunosamente, da quel rapace ch’ero, due latte di olio di oliva di mediocre qualità, fuggii da quel luogo violentato verso casa, felice di quell’impresa, ma sconvolto per quello spettacolo.
Quel giorno ebbi più chiaro il senso di solidarietà umana, ma conobbi il cinismo e la violenza. Anch’essi servirono alla mia maturità indicandomi altri aspetti della vita.
Dopo due giorni tre camionette di militari americani entrarono guardinghe a Bagheria costellata di lenzuola bianchi ai balconi.
Gli applausi convinsero quello sparuto gruppo di militari ad un migliore incontro. Uno di essi, distribuendo dolciumi, in uno stentato dialetto siciliano, chiedeva ad alta voce notizie di suoi parenti.


Un "blues" a Bagheria

Tutti gli abitanti, compresi gli sfollati palermitani, eravamo nella piazza centrale e sui marciapiedi del Corso Butera di Bagheria per vederli passare.
Una greve atmosfera pesava d'intorno in un silenzio irreale.
La lunga colonna di prigionieri sfilava con passo pesante dinanzi a noi che leggevamo nei loro occhi intristiti da un destino avverso una disperazione muta e rassegnata. Qualcuno di loro salutava e lanciava messaggi orali. Soldati deleritti, bardati di un vestiario sommario; molti tenevano il pastrano su una spalla o sul braccio come fardello inutile. A qualche altro pendevano dalle gambe le odiate fasce di lana grigio-verde.
In testa alla lunghissima fila un gruppo di ufficiali dal viso mesto guardava senza vedere. Un residuo di fierezza militare, anche se frustrata, era ancora viva. In coda e distaccato, bene inquadrato, un gruppo di militari tedeschi i cui ufficiali sembravano sfilare per una ricorrenza.
Una ventina di soldati americani, preceduti e seguiti da due camionette, armi in pugno, affiancavano quel serpente umano con vigile superiorità.
A quel tempo il Corso principale del paese non era asfaltato e quel mesto corteo si allontanò in un nuvolone di polvere bianca.
Contemporaneamente in altro luogo non distante, un battaglione di militari americani, in maggioranza di razza nera, si accampava in località Parisi sulla strada nazionale 113 in vista di Santa Flavia. Il mare di Aspra sta a due passi.
Senza chiedere, ma informando soltanto la persona da loro scelta a Capo del Comune, i militari cominciarono a sdradicare con potenti “buldozers” che ci sbalordivano, una infinità di alberi di limone ed ulivi per creare un loro accampamento. In due giorni furono sistemate un gran numero di tende militari tra quei profumati alberi. Nei giorni seguenti provvidero a circoscrivere con filo spinato una zona adiacente per sistemarvi una grande polveriera con residuati bellici italiani e tedeschi trasportandoveli con enormi autocarri. Un polverone rossastro s'alzava altissimo ed era visibile da lontano.
Quegli alberi strappati, con le radici al sole, ammassati in un enorme cumulo, insieme a detriti murali di piccole costruzioni formavano una piccola collina.
Una infinita serie di casse di legno colme di proiettili di ogni tipo venne sistemata sotto gli alberi come un grande reticolo le cui pareti dei corridoi raggiungevano l’altezza di un uomo.
Il terreno, tra quei limoni ed ulivi, era disseminato di proiettili di fucile, mitra e pistola. Molte casse erano squarciate ed il loro contenuto di morte esposto in disordine. Moltissimi erano i proiettili di artiglieria alti più di un metro.
Assistevo, controvento, a tale sistemazione durata alcuni giorni, solleticato dalla curiosità adolescenziale e dal fatto che caracollavo da mattina a sera in piena libertà con la mia “Bianchina”, una bicicletta Bianchi. Con tale mezzo mi era facile curiosare da lontano su coloro che giorni prima erano stati i nostri nemici.
Le poche nozioni di lingua inglese, apprese svogliatamente a scuola, me le ritrovai utilissime per intavolare brevi scambi di idee e di simpatia con le sentinelle prima, e poi, pian piano, penetrando nei Campo. Masticando la loro cioccolata e “chewing-gum” e fumando le loro sigarette scoprivo la loro irrefrenabile sete d’alcol.
M’impegnai, allora, con le mie donne di casa all’acquisto di buon vino di alta gradazione alcolica, sui tredici gradi, che diluiti con acqua, quasi per la meta, versavo in bottiglie di vetro da un litro che, per altro, stentavo a trovare, perché scarse.
Avviai, così, un florido commercio che portò in casa mia nuove disponibilità economiche insieme a tanta roba mangereccia d’oltre oceano.
Apprendevo, intanto, che quei militari erano tutti “consegnati” al Campo e non potevano che recarsi in auto a Palermo in permesso. Disponevano di tanto denaro che friggeva loro in tasca. Circa l’ingresso al Campo, ovviamente precluso ai civili, mi era relativamente facile eludere la blanda sorveglianza della “Military Police” per aver osservato orari e sistemi della loro giornata. E poi, quel vino mi apriva molti ingressi per trattare il mio commercio che non si limitava soltanto ad esso, ma anche alla vendita di stupidi oggetti, trovati casualmente, che eccitavano la loro fantasia di grossi fanciulli. Li proponevo come “souvenir taliàno”, secondo la loro pronuncia. Inoltre incassavo laute mance per segnalazioni di “segnorine” disponibili che gravitavano nei dintorni. Per me restava il grave problema del reperimento delle bottiglie che, per quanto mi raccomandassi per la restituzione dei vuoti, erano fatte segno di colpi di pistola e fucile.
Ma, a parte il florido commercio, ciò che maggiormente mi attirava in quel luogo così insolito era la loro musica che scoprivo ogni giorno di più. Al pomeriggio, infatti, e fino a sera tardi, dopo che un sole di fuoco s’inabissava nell’indaco mare di Aspra ed il suo odore salmastro mordeva le narici, nascevano, per incanto, gruppi musicali come momento liberatorio dell’anima.
S’alzavano dei “blues” e “spirituals” cantati in coro, carichi di quell’angoscia antica di un popolo, di una razza.
Accostandomi a tali improvvisati concerti notavo come la fantasia potesse contribuire a generare validi livelli musicali su strumenti rimediati alla meglio come un pettine rivestito di carta velina o la voce ritmata dentro le mani raccolte a conchiglia per imitare in modo strabiliante il suono della cornetta o, ancora, la voce, baritonale di un gigantesco negro imitante quella di un contrabasso. Ed, infine, una batteria composta da varie casse di legno e altre di metallo di diversa risonanza. Era tutto un inno all’inventiva.
A questi strumenti creati alla buona si aggiungevano un’ocarina ed un’armonica a bocca per improvvisare in “jam session” accorate melodie e ritmi indiavolati.
La mia presenza tra quei guerrieri in riposo era quanto mai interessata.
Quel commercio alcolico ci aiutava, in casa, a vivere.
Per due volte, però, la “Military Police” mi sequestrò il carico diffidandomi di frequentare il Campo, ma la mia caparbia inosservanza del divieti era derivata dal fatto che, orfano di padre, mi sentivo compreso delle mie responsabilità di unico uomo di casa, anche se sedicenne. Dei miei due fratelli in guerra non avevamo più notizie da tempo.
Quel vino in bottiglia associato alla musica agiva da linimento per l’anima ed esso, qualche volta, mi serviva per invitare una sentinella rigorosa a distrarsi sui suoi giornali a fumetti.
Giungevo al Campo nei pomeriggio inoltrato, quando il sole, mitigati i suoi folli raggi, liberava, come da alcova orientale, il profumo stordente della zagara dei limoni. Trovavo, in genere, una combattuta partita di palla a volo tra una nuvola di polvere rossa in cui i giocatori erano intravisti. Altrove alcuni militari, in ginocchio, sotto gli alberi, erano infervorati nel gioco dei dadi con grida stridule e bestemmie. Qualche altro, isolato, soffiando lieve su un armonica a bocca, inseguiva, sulle ali della memoria la sua infanzia, il suo quartiere, le sue origini. Più in la, su una pedana composta di casse di munizioni una valida schermaglia boxistica richiamava un po’ di pubblico.
Di tanti militari che frequentavo ricordo ancora il nome e la personalità di uno, in particolare, che mi è rimasto nel cuore: Charles Chief, uno spilungone nero di un metro e novanta, dai movimenti di burattino snodato per via delle sue pertiche di gambe e braccia. Originario di Manassas, una cittadina della Virginia, da civile lavorava in una segheria. Un dolcissimo uomo, di autentica umanità, certamente corroso da problemi personali che intuivo nei suoi occhi color ocra insanguinata. Cantava bene e schioccava le dita in continuazione, dimenandosi lentamente. Impazziva per la mia bicicletta ed i miei sofferti prestiti del mezzo lo rendevano improvvisamente vivo; si destava dal suo torpore di razza e fuggiva in sella a “Bianchina” cantando a squarciagola. Mi lasciava in apprensione. Non capii mai se tenesse più alla nostra amicizia o alla bicicletta.
Un giorno, verso il tramonto, non trovandolo nella tenda dove si giocava a dadi, né tra i pockeristi, né altrove, appresi da Holley, un sergente, che Charles stava in prigione per le sue escandescenze della sera precedente in cui aveva ferito due commilitoni.
Mi sentii in colpa per il vino che gli vendevo, ma sapevo, per constatazione personale, che le sue sbornie erano malinconiche e silenziose.
Con il permesso del sergente Tallen lo visitai ed ebbi la certezza che il suo comportamento era stato originato dall'alcol, ma anche da ciò che, annidandoglisi nel cuore gli era come esploso.
Fu felicissimo di rivedermi; parlammo tanto attraverso l’inferriata, anche se, in certi momenti sembrava non ascoltarmi preferendo inseguire con un canto sommesso i suoi itinerari mentali.
Era rincuorato della mia presenza e lo sentivo confortato, ma sopraggiunta l'oscurità accennai a lasciarlo. Mi si strinse il cuore quando appresi da lui che in quel luogo dove era stata ricavata la camera di punizione non c'era alcuna fonte di luce elettrica ed aggiungeva che aveva un sacro terrore dei topi che aveva sentito la notte precedente.
Corsi al Campo risalendo la ripida scala intagliata nel tufo e, nell'incerta luce dell'imbrunire cercai uno dei suoi commilitoni. Ottenni una torcia elettrica che gli portai subito.
Lo trovai che cantava sottovoce, quasi assente.
Lasciandolo, il suo canto struggente si elevava più in alto per accompagnarmi. Era un “blue” che diceva. “Non mi resta altro che farla finita. Attenderò il treno delle 22.35; mi sdraierò sul binario e poggerò la testa sulla rotaia”.
Quelle note amare, colme di angoscia mi vibrano ancora dentro, al ricordo.
Occorre spiegare che la prigione di Charles era situata in un luogo quanto mai oppressivo.
Ad Aspra, località marina di Bagheria vi sono limoneti sottomessi di otto, dieci metri rispetto al naturale livello della campagna. Sono degli spazi come piazze, larghi anche un centinaio di metri, usati, in passato, come cave di tufo per l'edilizia. Alla base di una delle sue pareti, man mano che ne veniva estratto il materiale di qualità e se ne abbassava il fondo, veniva ricavata per estrazione un angusto locale come deposito di attrezzi e per godere di un po’ d'ombra. Quella era, appunto, la prigione di Charles; un luogo dove il silenzio poteva far male.
Pochi giorni dopo, trovandomi, al solito, tra i militari che mi chiamavano “Marius”, vedemmo giungere al Campo un grosso camion con dei soldati che, saltati giù, inscenarono una danza mimata per informarci che avevano portato un pianoforte, certamente saccheggiato in una abitazione palermitana bombardata. La città martoriata offriva ancora le sue orride ferite come visceri al sole.
L'entusiasmo era alle stelle e qualcuno volle provarlo prima di scaricarlo. Il suono, ovviamente, era falsato, ma con l'impegno di alcuni genieri e qualche musicista, nel giro di poche ore, fu reso degno di emettere suoni ed armonie passabili.
Intanto una decina di militari aveva allestito una larga pedana con casse di munizioni di uguale altezza e con tutto il loro carico mortale. Altri avevano provveduto ad apprestare un microfono con casse acustiche. Erano “genieri” e disponevano di tanti mezzi.
A quel pianoforte verticale, tornato a vivere, si alternarono diversi militari, alcuni dei quali, si espressero anche in buona musica sinfonica. Ne ero meravigliato ed entusiasta.
Nella serenità di quella sera d'agosto, sotto un cielo scenografico, rinacquero le note limpide di quel pianoforte marca “Diamond”.
Ad esso si aggregarono quei musici di quella orchestra della fantasia, i quali, dopo un breve conciliabolo, innalzarono un magnifico “blue”. A Bagheria, tale avvenimento era inimmaginabile, immerso in un'atmosfera stregata. Una grande luna e quel profumo di zagara completavano un quadro indimenticabile.
Ma tra i pianisti che più m'interessarono quella sera e le seguenti ce ne fu uno di breve statura, rotondetto, con un viso ispirato e caprino da richiamare il profilo di un rabbino ebreo. Dopo qualche battuta spiritosa al microfono e scusandosi di non sentirsi in forma, prese l'avvio con una lunga serie di scale cromatiche fino ad involarsi con limpida personalità. Gli applausi scrosciarono subito sottolineando certi passaggi di puro virtuosismo. La sua musica, intessuta di suoni arabescati, quasi di arpeggio, s'innestava su un tema di base che, elaborato con maestria, veniva svisato per perdersi in aureole musicali.
Le stelle di quella notte di San Silvestro sembravano staccarsi dal velluto nero del cielo, attratte in scie luminose da quell'artista.
Ne chiesi il nome: Erroll Garner.
Un nome che non trattenni tanto. Spari dalla mia mente, ma continuai a vendergli il mio vino annacquato. Non avevamo tanto legato per via della sua personalità schiva e riservata. Lo ascoltai con molto interesse altre sere, sia in funambolici assoli che coadiuvato da quella scalcagnata orchestra di suoi commilitoni. I suoi “blues” e “ragtimes” evocavano quelle sensazioni segrete e le armonie che ci portiamo dentro.
Anche dagli “spirituals” corali coglievo brani di alta poesia musicale.
In quelle sere, viva meraviglia mi nasceva nel riascoltare dal vivo motivi famosi, alcuni dei quali credevo italiani: “Stardust”, “American Patrol” e “Saint Louis Blues” che conoscevo cantata da Natalino Otto sotto lo sconcertante titolo: “Tristezze di San Luigi”.
I militari chiedevano ad alta voce “Perdido”, “Indiana” ed altri ancora.
Due sere dopo venne presentato al microfono, con il rispetto dovuto ad una “star”, il cantante nero Red Mc Kenzie, del quale non ho avuto più notizie, che dimostrava un alto livello professionale, senza, peraltro, entusiasmarmi.
Nel giro di poche sere era nata una autentica orchestra all'insegna dell'improvvisazione. La notizia volò ed in quelle sere estive cominciarono a giungere da Palermo camions carichi di militari, compreso un Generale, per assistere a quegli spettacoli. Anche da Bagheria e dintorni giunsero tanti civili cui fu loro riservato uno spazio, in piedi.
Trascorse del tempo. Molti altri militari si avvicendarono in quel Campo in località Parisi. Non vidi più Charles Chief; era stato trasferito a Messina.
Le bottiglie di vetro erano diventate rarissime. Il mio commercio alcolico aveva subito un arresto e non riuscivo più a trovare quegli stupidi oggetti da gabellare come “souvenir taliàno”. Quel rapporto di simpatia con i militari aveva ceduto il posto a qualcosa di più controllato e per me che non trovavo cosa vendere loro, era nato un certo disinteresse.
Da lì a poche settimane, io e la mia famiglia rientravamo a Palermo nella nostra abitazione di Via Celso dove rimettemmo su l'appartamento liberandolo dai calcinacci e grossi massi di tufo che vi erano stati scagliati dalla furia distruttrice che aveva spianato il palazzo nobiliare, nostro dirimpettaio.
Viva fu la nostra meraviglia quando affacciatici al balcone della stanza da pranzo, da sempre ombrato da quell'antico edificio, vedemmo stagliarsi, in una luce nuova, in lontananza, la verde cupola del Teatro Massimo.
La vita cittadina, seppur stentatamente, riprendeva il suo corso.
Diversi quartieri della città non erano stati resi ancora agibili, anche se lunghe file di camions continuavano a scaricare a mare le macerie.
A Piazza Castelnuovo, una tra le più vive della città, allo scopo di fraternizzare con la popolazione, cominciarono ad esibirsi in concerto, sull'ottocentesco palco, complessi bandistici delle varie armi americane. Gran pubblico vi affluiva per ritrovare tra quelle note musicali speranza e fiducia nell'avvenire. Era uno sprone alla vita nuova.
In quei pomeriggi, oltre alla banda musicale della portaerei “Forrestal”, si esibì, per diverse sere la grande orchestra di Glenn Miller, molto armonica ed entusiasmante. Non che la conoscessi, ma ne ricordo l’indicazione del cartello esposto. Anni dopo, interessandomi di musica jazz, appresi della morte del popolare musicista caduto in Atlantico.
Cominciai a frequentare la Biblioteca Americana di Via Libertà dove m'interessai, arso di conoscenza d'oltreoceano, alla quantità di riviste di ogni genere; dall'Arte alla pubblicitaria, dalla letteratura alla sportiva ecc. Nuovi orizzonti mi si schiudevano e la mia adolescenza assorbiva nuovi umori culturali come zolla arsa.
Ebbi tra le mani i “V Disc” o dischi della Vittoria. Erano i primi “long playings” su cui erano incisi, di seguito, tanti motivi musicali. Un'assoluta novità per noi. Vi frequentai un corso informativo sul jazz americano e mi ci appassionai. Scoprivo talenti di indubbio valore penetrando un mondo musicale a me sconosciuto.
Una sera, come altre dedicate ai maggiori strumentisti vennero presentati alcuni famosi pianisti. Viva fu la mia meraviglia allorché riconobbi, tra i tanti, lo stile inconfondibile ed angelico di quel pianista riservato e schivo al quale, a Bagheria, avevo venduto il mio vino annacquato.


Un Ferragosto particolare

La città si rianimava, scuotendosi dei sacrifici e delle sofferenze subiti nel conflitto armato. Ritrovava, a stento, se stessa come sollevandosi da una febbre spossante. Le truppe di occupazione anglo-americane mantenevano ancora la loro presenza a Palermo.
Ritrovati gli amici dispersi tornammo a scorrazzare per la città e dintorni con le nostre biciclette rabberciate. Di studio se ne trattava ben poco ed eravamo tutti usciti dall’esperienza bellica con una diversa maturità. Riprendevamo la nostra vita sociale dopo esserci intanati nelle varie località della provincia. Ognuno aveva fatto le sue esperienze e le nostre storie, quasi, s’eguagliavano.
Un caro compagno mancava. Era perito con la famiglia, fuori città, sotto un bombardamento ritenuto di nessuna importanza.
Alla radio tornavano i nostri beniamini della musica leggera ed ogni novità, ce la trasmettevamo; io ed un altro amico curavamo anche un vivo interesse per quella sinfonica.
Ed ugualmente, per il cinema che si rivitalizzava. Giunsero le prime proiezioni di “films” americani come: “No, no Nanette” e “Il sergente York” ed altri recanti, alla base dei fotogrammi, una approssimata traduzione in italiano e con evidenti errori di ortografia. Per noi cinefili accaniti era il primo sipario aperto sulla filmografia d’oltreoceano.
Cominciavamo ad apprezzare le interpretazioni di attori, allora, a noi sconosciuti e nascevano, così, i novi idoli.
Un nostro passatempo preferito era quello d’indovinare, oltre ai nomi degli attori protagonisti, anche quelli dei comprimari, del regista, del soggettista ed anche del musicista, autore della colonna sonora. Una vera palestra mnemonica che, alla base di un amore sviscerato per il cinema, curava, financo, essenziali notizie su qualche film muto che avesse fatto storia.
Ma, la bicicletta era il mezzo comune che cementava le nostre amicizie. Il nostro gruppo di moderni centauri era, animato da improvvise scorribande che nascevano, pur, da una vaga segnalazione d’interesse qualsiasi.
Per quel giorno di Ferragosto era stata decisa una gita ciclistica a Capo Zafferano, caratteristico promontorio nei pressi di Aspra che chiamavano “Cappello di Napoleone”. Un alito di fuoco sembrava avvolgerci da presso.
Si era stabilito un itinerario che, lasciata la città, attraversava il Parco della Favorita per giungere in quella conclamata località marina che è Mondello. Giuntivi, infatti, sostammo in una stretta via ombrosa di secolari pini, dove, dopo un riordino d’idee ed una bevuta si sarebbe attraversata Vergine Maria, per uscire fuori città, in direzione di Aspra, località marina di Bagheria.
Ma quella sosta di pochi minuti a Mondello fu, per me, caratterizzata da una casualità strana che non seppi spiegarmi. Allontanatomi per recare una notizia ad un’amica di mia madre, lì residente, pur avendo informato alcuni della nutrita compagnia della mia temporanea assenza, fui colto da vero sgomento, quando, ritornato sul luogo del raduno, non trovai alcuno dei compagni.
Mi fu ovvio pensare ad uno scherzo, come nostra caratteristica, ma presto mi si svelò la verità. Rimasi quanto mai deluso del trattamento ricevuto ed analizzavo, mentalmente, il loro ed il mio comportamento.
Una improvvisa frenesia di ricerca mi prese e cominciai ad aggirarmi per le vie adiacenti con lo sguardo proteso verso ogni direzione.
L’alta temperatura di quel ferragosto vive ancora nei miei ricordi per i suoi quaranta e più gradi. A Palermo non è difficile che si avveri tale iattura climatica.
In affanno e con tanta rabbia in corpo, considerando di trovarmi in eccessivo ritardo rispetto alla partenza dei compagni, scartai l’idea di raggiungerli da solo. C’erano da affrontare più di trenta chilometri e non me la sentivo. Il loro comportamento mi bruciava. Mi si rivelava la bassa considerazione in cui ero tenuto e ciò mi offendeva atrocemente. Ma non potevo fare altro che rassegnarmi all’evidenza del fatto. Mi arrovellavo anche sul mio comportamento.
Consideravo, tra l’altro, che non avrei avuto di che mangiare, dato che la mia magra colazione costituita della solita frittata nel panino e due mele, era rimasta nello zainetto di un compagno. In tasca tenevo qualche lira che non mi avrebbe aiutato.
Mestamente, arrendendomi del tutto, m’inoltrai, a piedi, in quella stretta via ombrosa alla ricerca di refrigerio per gli occhi e per placare l’arsura del corpo. Alla fontanella, li vicino, m’accostai diverse volte per momentanei rinfreschi. Una delusione cocente mi pervadeva mentre indirizzavo, mentalmente, gli strali di storiche vendette nei confronti di quei compagni.
Non mi sforava l’idea di tornare a casa; non me la sentivo, sia per quella giornata di fuoco e sia perché ero sprovvisto delle chiavi di casa.
La stretta via era, quasi, deserta; rari passanti l’attraversavano. Qualche voce da lontano mi perveniva incomprensibile come da sogno nebuloso. Il latrato gioioso di un cane m’infastidiva. Tutto appariva fermo come da scatto fotografico.
Saranno trascorse due ore dopo mezzogiorno ed un certo silenzio, gravato da una pesante atmosfera, si consolidava. Un merlo che non vedevo, fischiava richiami non corrisposti: una lieve brezza salmastra penetrava il tunnel ombroso dove mi ero sdraiato sul marciapiedi. Appoggiate le spalle al basso muro di recinzione di una villa, mi guardavo le scarpe quando mi pervenne, perverso, l’effluvio di un buon cibo cotto. Forse un ragù, del quale immaginai subito l’aggressivo ed invitante colore. Ne fui tormentato. Un vago senso di debolezza fisica, mista ad una certa abulia mi tenevano con sé.
Controvoglia, stavo per alzarmi ed allontanarmi per non subire quel tormento, quando, come celestiale pioggia sull’assetato, mi giunsero, ben distinte e soavi, le note di un pianoforte. Una lunga prefazione, articolata in scale cromatiche di intenso vigore, cercava l’avvio felice, come di gabbiano. Volò, infatti, nell’armonia della “Ballata n. 1, opera 23” di Chopin, una tra le più cariche di tensione creativa del mio prediletto artista.
Il tocco del pianista mi parve, subito, eccellente e, rapito, volsi lo sguardo a perdersi sull’indaco di quell’orizzonte marino.
Una strana sensazione di godimento spirituale mi elevò, scrostandomi la calura opprimente ed ogni altro bisogno fisico. L’aulico suono aveva la forza suadente d’immettermi in un mondo afisico, esente da esigenze terrene.
Quel tunnel arboreo magnificava una acustica perfetta. Le note mi pervenivano limpide e ben scandite.
I latrati del mio ventre vuoto si erano acquietati.
Il suono magistrale di quel pianoforte raggiungeva e leniva le mie sofferenze. Chopin, mio spirituale Maestro, mi tendeva le mani con l’armonia della sua musica eletta. Io ne coglievo l’abbraccio e, mentalmente, ero grato dell’occasione che si era creata. Mi ritenevo l’unico ascoltatore privilegiato e quel concerto, ricco anche di musiche di altri artisti, sembrò dedicato a me.
Quarant’anni dopo tale Ferragosto, descrivendo casualmente ad un amico quella strana giornata, ebbi l’affermazione che quell’artista al piano era stata una grande concertista, madre di un comune amico pittore.
A lei debbo il magnifico ricordo musicale. Resta nel vasto itinerario della mia memoria come eccelso frammento di vita vissuta testimone di un tempo consegnato alla memoria.


In memoria di un poeta di strada

Nella zona di quel grande mercato di Palermo, “la Vuccirìa”, noto ai turisti quanto il Duomo di Monreale, tra le vie aggrovigliate come gomitolo era solito comparire negli anni trenta e fino al secondo conflitto mondiale, un uomo alto, smagrito, dall’abbigliamento sommario che addossato al muro tra una rivendita ittica e una di alimentari, declamava versi ironici in dialetto cittadino.
Un cappellaccio su una folta criniera e lo sguardo acceso di nocchiero fremente esaltavano una figura caratteristica di artistoide distaccata dalla gente, quasi sospesa dai problemi umani. Un poeta di strada, amico di tutti che vagava per le vie del centro cittadino seguito da un codazzo di bimbi vocianti.
Popolarissimo nella Palermo di quegli anni si spostava da una via ad una piazza alla ricerca di quell’umanità di cui si nutriva. Viveva, infatti, di essa che gli procurava di che sostentarsi.
Giuseppe Schiera, questo il suo nome, è certo che non stia tra i poeti dell’Olimpo cinti di alloro, ma è rimasto nel cuore dei suoi concittadini canuti. Incarnava la classica figura del poeta estemporaneo cui non si ponevano limiti verbali, essendo capace, nelle alternanze rimate, di proporre pungenti verità sulle persone più note del tempo. E così Ciano, Badoglio, il Negus, il Federale della città e lo stesso Mussolini divenivano bersaglio della sua “verve” ironica; ma anche di se stesso, del suo parentado e di qualcuno dei presenti, spesso raggirato dalla sua impietosa rima.
La sua poesia, se tale poteva definirsi, dalla costante canzonatoria era quanto di più salace e smitizzante era dato sentire.
Preferiva la rima baciata su una terminologia dialettale che, per allusioni sommerse, raggiungeva quell’attento uditorio di disoccupati scansafatiche, studenti marinanti la scuola e commercianti senza clienti.
Gran fumatore, si esibiva in esilaranti numeri in cui la sigaretta accesa gli compariva e spariva dalla bocca e dalle mani in acrobatici gesti di vera maestria prestigiatrice mentre, d’improvviso, assumendo un atteggiamento serioso, sottinteso d’interesse maschile, scorgeva tra i passanti una bella donna. Iniziava allora, come ieratico sacerdote a declamare un delicato madrigale, merlettato di apprezzamenti davvero poetici, sconfinanti, in proporzione al suo allontanarsi, in altrettanti erotici. Il marito o chi godeva delle sue grazie veniva da lui benedetto.
Spesso, però, a causa delle sue strofe caustiche sull’andamento politico del momento, spariva dalla circolazione perché invitato, controvoglia, in Questura dove gli veniva contestato il reato di “lesa maestà” e trattenuto, pertanto, per un po’ di giorni.
Mio padre, maresciallo di Pubblica Sicurezza, era spesso incaricato di tradurlo in Commissariato dove il dirigente, gli si diceva: “ti vuole parlare”.
Il dialogo che ne sortiva avrebbe meritato una fedele trascrizione o registrazione sonora per la gioia postuma dei suoi ammiratori, dopodiché l’umanità del mio genitore si concretizzava nell’offerta all’affamato poeta di quel popolare cibo palermitano costituto di un pane con le panelle per sedare i latrati del suo stomaco, in perenne vacuità, in attesa di essere associato al carcere dell’Ucciardone, dove veniva accolto con viva simpatia dai residenti.
Giuseppe Schiera viveva una vita grama, stentata, come relitto alla deriva, privo di famiglia, affidato alla benevolenza dei concittadini vagando spesso ubriaco per concludere la sua giornata nel palco della musica di Piazza Politeama; figlio illegittimo, si diceva, di un nobile palermitano, era cresciuto alla scuola di vita della strada ed in seguito abbandonato dalla moglie; voleva nutrirsi di parole disperse in rima all’aperto senza solidificare nulla, senza concretezza di vita.
Non avendo, infatti, concezione del lavoro che aborriva si era ridotto ai margini della società cittadina anche se n’era stato, in seguito, riscattato con immensa simpatia.
L’umida stanza con latrina esterna che occupava al quartiere Perez nei pressi della Stazione Centrale ferroviaria, spingeva il poeta a mietere i suoi sogni fuori di essa, tra la gente dei marciapiedi o di una taverna dove svanivano in nuvole sfioccate dinanzi ad una bottiglia di vino.
Non c’era festa rionale o sagra paesana, in provincia, in cui non vi fosse presente la sua stralunata figura sciorinante rime dal contenuto demenziale, dalle assonanze dialettali divertenti.
I suoi versi, le parafrasi, le allusioni contenevano nel loro costrutto un che di insensato, certamente, ma la resa totale aveva di che far riflettere sui problemi quotidiani.
Il pubblico munifico gioiva e applaudiva; quella ingenuità di linguaggio colmava il primitivo bisogno d’evasione della massa. Accadeva così che, d’inverno, Giuseppe Schiera si trovasse sotto un ombrello dinanzi ad una rivendita ittica o alimentare a decantare a squarciagola con i suoi epigrammi la bontà della merce esposta. E lì ogni acquirente era insignito di pochi versi elogiativi “ad personam”.
Era questo un suo sistema di sopperire, per inclemenza del tempo, alla deficienza di pubblico che non indugiava all’ascolto delle sue strambe tiritere.
Intanto piombava il conflitto mondiale del ’40 ed il poeta, la cui età si aggirava sui cinquanta, veniva reclutato nelle file della Protezione Civile, l’U.N.P.A., i cui civili militarizzati vantavano età venerabili e fisici di deportati.
Con l’elmetto in testa, nuotando in una divisa “extralarge” e l’ascia al fianco, espletava con rigore il suo compito di controllore, rendendosi utile per quanto gli consentissero le sue forze di denutrito. E se la sera, durante l’oscuramento obbligatorio, notata qualche luce filtrare dalle imposte dei palazzi del suo rione, echeggiava la sua voce baritonale a redarguire gli inquilini indisciplinati.
Altra mansione legata alla sua qualifica era quella di regolare l’afflusso della gente ai ricoveri al suono delle sirene annuncianti un allarme aereo. E in uno di questi, durante un bombardamento considerato di nessuna importanza, data l’assuefazione a ben altri distruttivi, sparì il poeta.
Il ricovero, dove era entrato per ultimo, fu colpito da una sola bomba. Un solo morto, durante i pesanti bombardamenti su Palermo non vi fu mai, tranne in quello centrato del Perez, quartiere del poeta. Di lui non fu trovata traccia. Pochi giorni dopo un bimbo ritrovava la sua ascia.
La cosa che impressionò fu il fatto che in quell’occasione non vi furono neanche feriti. Soltanto Giuseppe Schiera era stato ghermito dalla morte.
Un caso unico di sparizione, originale, proprio confacente alla fine di un poeta. La città tutta ne fu rattristata.
A testimonianza del ricordo affettuoso che egli ha lasciato tra i cittadini canuti, sarebbe doveroso ricordare con una semplice lapide sul luogo della morte quell’uomo anomalo, satirico, surreale, i cui versi maccheronici liberati in rima baciata o alternata hanno fluttuato per le vie di Palermo divertendo due generazioni di cittadini.
Basterebbe un marmo delle dimensioni di un mattone dove inciderci: “qui morì nel 1943 Giuseppe Schiera, il più amato poeta di strada palermitano”.


Un caffè, alle otto, da Guttuso

“Domenica, alle otto, prenderò il secondo caffè con te”.
Era solito rispondermi così alla richiesta di rivederlo. Sapevo da tempo di quell’ora domenicale da lui preferita come inizio di vacanza liberatoria.
La giornata sorgeva indolente tra gli spazi architettonici dei Fori che s’illuminavano di un timido rosa; i miei passi cadenzavano un ritmo sulle basole sconnesse della silenziosa via che scende a quella piazzetta triangolare del Grillo sovrastata da un alto muro finestrato di epoca repubblicana.
Superato l’androne ed il freddo sguardo di Aldo, il portiere, su per una breve scalinata, opacizzata dal trascorrere dei secoli e che vide le fantasie dispettose del suo Marchese, mi accoglieva, in un breve abbraccio, il terrazzo che immetteva nello studio di Guttuso, il cui ingresso sembrava guardato a vista dalle due nerborute cariatidi barocche che, forse, selezionavano i questuanti da chi, per vari motivi, chiedevamo d’incontrarlo.
Dentro, ero accolto da un’atmosfera ovattata, come distaccata dalle vicissitudini umane, mista ad un certo tepore, carico di odor di trementina e resine e fumo di sigarette mentre mi si profilava la serena figura dell’amico Renato.
Il suo sorriso, unito all’abbraccio di antico nostro costume orientale, erano la garanzia di un incontro sul piano di un’amicizia consolidata dalla stima reciproca.
Risentivo, così, la sua voce dai toni bassi, a volte grave, nei convenevoli d’uso, mentre rivedevo i suoi tratti somatici fortemente impressi ed i polsini della camicia rivoltati, a metà braccia, sulle maniche del pullover, ora rosso, ora bleu. Presto tali formalità sfumavano incuneandosi in una indagine sommersa, quasi distratta, del nostro lavoro artistico; io, a conoscenza del suo per eco giornalistica e lui, nei miei confronti, per informazione indiretta di cataloghi d’arte ed amici comuni.
S’accendeva piano una chiacchierata generica intessuta di confidenze sconfinanti, talvolta, in pettegolezzi che nel nostro campo non difettano.
Ed, intanto, l’uomo sortiva dall’artista celebre in un’analisi umana tramata di certezze e debolezze. Il distacco avveniva quale crisalide dal bozzolo dell’affanno quotidiano in cui il fluire discorsivo rivelava, financo, l’adolescente che albergava in lui, perduto a rincorrere i sogni di quel successo che poi gli aveva arriso.
Renato conteneva nella sua accesa personalità il manifesto compiacimento della figura del Maestro incline a sostenere allievi e a dispensare quella nota generosità che lo distingueva, ma anche i caratteri della mutazione improvvisa di umore, simile ad ombroso cavallo di razza. Accanto a tali sentimenti, in un dualismo netto, manifestava, all’occorrenza, anche una certa durezza di giudizio nei confronti di gente che non onorasse un impegno, mantenendone a lungo una negativa schedatura mentale.
Un’amicizia trentacinquennale, la nostra, che ebbe inizio a Bagheria, nostro paese di origine, allorché mi presentai a lui, ospite di comuni amici, senza preavviso e con un certo numero di mie tele legate con lo spago. Orecchiavo Fattori e Casorati che m’incantavano. Erano gli anni cinquanta; il neorealismo sociale in pittura accendeva gli animi dei giovani pittori ed io gli mostrai in quelle tele che osservò, in un silenzio ossessivo, qualcosa che gli fece mormorare: “Cosa fai a Palermo. Trasferisciti a Roma”. Cosa che feci.
Nella capitale, infatti, mi confermò la sua stima presentandomi, nel tempo, in catalogo, tre mie mostre personali, presenziandovi. E così dal ’60 le mie frequentazioni dei suoi studi, prima in Via Cavour e quindi in quello dove finì i suoi giorni, sono state tante, oltre alle serate conviviali con comuni amici a Trastevere come a Palermo o a casa mia.
A Velate, dove spesso soggiornava in ritiro, mi recai in visita due volte; non riuscivo a vederlo inserito in quel paesaggio così disteso ed ombroso. Mi appariva, e glielo dicevo, estraneo e posato lì casualmente da una mano ignota. Le sue smentite mi sembravano sofferte. Credevo di cogliere da certi suoi discorsi e mezze frasi il filo di una intima solitudine.
La conversazione ora si animava, ora cadeva in un silenzio parlante e, se non erano presenti altre persone, preferivo lasciarlo solo dinanzi ad un foglio di carta bianca dove in un’anamnesi rivelatrice la sua penna scorreva leggera, ora soffermandosi, ora accanendosi a sottolineare un muscolo o un palpito d’occhi. La sigaretta accesa pendente da una estremità delle labbra, l’occhio sinistro socchiuso, il capo pendente a destra, inseguiva i colombi della sua fantasia. Il volto trasfigurato condensava un lavorio spirituale esorcizzando forse, una compressione intima. “Sai, è morto il tizio” ci dicevamo talvolta e da quel momento ne parlavamo all’imperfetto, memori di qualcosa che ci aveva uniti allo scomparso.
Il disegno si elevava fortificandosi, assumeva i chiari connotati della creatività ed il soggetto che ne sortiva sembrava sprigionarsi dalla piattezza dell’anonimato per assumere una corposità artistica.
Il fascino di quelle creazioni appariva racchiuso in un certo mistero.
Il nostro dialogare, intessuto di un frasario, spesso dialettale, toccava con espressioni tipiche quel mondo provinciale dove avevamo lasciato le nostre radici. Vivevamo la “sicilitudine” di sciasciana memoria. Le sue espressioni verbali, se raccolte, avrebbero rivelato l’intima poesia ch’è rimasta in ombra.
Ma un tocco leggero alla porta precedeva il comparire del cameriere in giacca e guanti bianchi recante un buon caffè casalingo del quale ne puntualizzavamo la differenza tra esso e quello che si beve a Palermo e così, sorseggiando, Bagheria aleggiava tra quei muri settecenteschi. Su di essi fotografie istantanee di momenti delle sue amicizie con personaggi della cultura internazionale; frammenti dipinti di carro siciliano, doni di ammiratori e oggetti, i più disparati, che sono rimasti eternati nelle sue tele, rivestiti dell’oro della trasfigurazione artistica.
Il tempo della provincia ci associava; e così in una delle presentazioni alle mie mostre personali ne tracciò un profilo essenziale: “…Sebbene Tornello non vi abiti più da tempo, un discorso su di lui non può non partire dal suo paese che è anche il mio: Bagheria, un grosso paese del palermitano, gonfio di vitalità, di coraggio, di intraprendenza ed anche di crudeltà e genialità. Un paese dove c’è stato sempre di tutto, dalle cose più eccelse alle più nefande, ma profondamente attivo, serio, antico…”
Gli argomenti delle nostre chiacchierate sconfinavano financo in dissertazioni culinarie e nelle loro alchimie segrete.
Nella mia memoria c’è ancora, al riguardo, la sua meraviglia, allorché mi presentai a lui, per una visita periodica, con il gustoso condimento, ancora tiepido, della famosa “pasta con le sarde” che egli sosteneva dovesse farsi in rosso, con l’estratto di pomodoro, secondo l’uso bagherese ed io, di contro, in bianco, alla palermitana. Quel mio dono gastronomico me lo ricordò per tanto tempo; ma una analoga sorpresa mi colse il giorno in cui ricevetti, tramite un amico comune, un suo scritto su un foglio di carta a quadretti di quaderno in cui, tra l’altro mi rivolgeva lodevoli parole per “…un tuo magnifico quadro che ho visto alla “Nuova Pesa”…”
La curiosità ha i suoi diritti e così passavo a curiosare tra le sue tele recenti accostate al muro; paesaggi come inni alla luce, composizioni squillanti, figure dal tipico taglio nervoso. Temi acclamati e consegnati alla storia dell’Arte del nostro secolo.
La conversazione planava dolcemente tra un sorso di caffè e l’altro sui vari campi del vivere finché un giorno me lo intesi più vicino quando, casualmente, il discorso sfiorò Rocco, il suo fedelissimo segretario, ex umile pescatore, come mi disse, conosciuto su una barca a remi in Calabria dove si era recato in vacanza di studio. Lì, infatti, produsse una serie di disegni sulla quotidianità dei pescatori. Di essi alcuni furono la base strutturale di opere di prestigio. Quella serie rimane, infatti, nella storia dell’Arte come pietra miliare della pittura del ‘900.
Fu l’occasione perché mi parlasse di quella lieta vacanza calabrese con amici nei dintorni di Maratea dove incontrò Rocco, uomo dal viso asimmetrico, enigmatico come sfinge, modello ideale per la sua pittura.
E così mi raccontò della sua viva simpatia per tale personaggio dai grandi piedi che non riusciva a mantenere moglie e due bimbi. Di quel pescatore dalla voce cavernosa per le troppe sigarette fumate, Renato chiamandolo a sé aveva eseguito diversi ritratti dall’aria perduta, in chiave espressionistica marcando i suoi tratti somatici con una analisi conoscitiva non comune.
Scudiero d’altri tempi, occhio vigile sulla sua incolumità fu la sua ombra, autista, segretario integerrimo.
A conferma di ciò Rocco un giorno mi riferì della generosità del Maestro citandomi casi di gente che bussava alla porta per ottenere tramite lui qualche “guache” che veniva all’istante ceduta ad un mercante d’arte, in attesa giù al portone, per un prezzo non degno della sua quotazione.
E la sua generosità, mi diceva, non si limitava a questo ma a presenziare alle vernici di mostre di giovani artisti dove non lesinava apprezzamenti. La sua presenza fisica era di sprone all’attività creativa di un giovane artista come lo fu per me.
Rocco lo vedevo esaltato in diverse opere; il suo viso asimmetrico, un po’ incupito da un certo sopimento di riflessi, si prestava alle interpretazioni guttusiane più espressionistiche. Oltre al ritratto di Moravia che vidi realizzato in parte, quelli di Rocco erano, senz’altro, i più carichi di emotività in cui si poteva leggerne l’anima.
Quasi vi rovistavo in quelle tele e lui mi lasciava fare finché con fare pigro non si decideva a mostrarmele in un’altalena dialettica accettando e respingendo le mie osservazioni critiche; nascevano serrate discussioni che ci lasciavano puntualmente nelle rispettive posizioni sull’Arte figurativa.
Toccando anche il tasto della tecnica pittorica di alta qualità, frutto d’intensa palestra di studio, era solito confermarmi il suo apprezzamento per la mia “maestria tecnica” che lo lasciava perplesso per le mie derivazioni autodidatte.
Il nostro dialogare esplorava gli anfratti umani reciproci dove l’ironia ed anche l’umorismo primeggiavano.
Trascorrevo, così, una mattinata esaltante, interrotta da varie telefonate e, talvolta, da altre persone in visita come il Presidente della Repubblica, l’On. Cossiga che, come me curavano un rapporto umano all’insegna di una calda amicizia.
Era quella una delle frequenti visite distensive che avvenivano fra i due uomini illustri.
Superati i convenevoli e le presentazioni gli argomenti, i più vari, s’involavano limitandosi a normali trattazioni amichevoli finché veniva annunciata un’altra visita allo studio, quella di Antonello Trombadori, noto politico e storico dell’Arte. Un cenno di capo di Renato al cameriere sull’uscio stabiliva di portare due caffè ed una camomilla per il Presidente tra il fumo delle numerose sigarette del nostro artista.
In un’aurea distensiva come di vecchi amici sortivano analisi politiche surrogate da opinioni personali in cui non volevo rischiare il coinvolgimento.
Sul piano del quotidiano e del figurativo assumevo le mie chiare posizioni.
Trascorrevano così circa due ore intervallate da telefonate per Renato che si limitava dopo il filtro di Rocco a brevi risposte ed annotazioni.
La mattinata era trascorsa nel tepore e dinanzi al suo cavalletto tra le inebrianti resine della sua tavolozza.
In una di tali visite si trattò dei festeggiamenti in suo onore in preparazione per i suoi cinquanta anni di età allorché il paese di Bagheria in festa vibrava per il suo celebre figlio realizzando una sua Mostra retrospettiva che determinò un’affluenza di pubblico incontenibile tra discorsi di noti critici d’arte e politici cui era seguito un pranzo per una cinquantina di invitati.
Il Comune non aveva badato a spese, una delle quali, preziosa, fu l’omaggio, per l’occasione, di piccoli pannelli in lamiera dipinti dal Maestro-decoratore dei famosi carretti di Bagheria, Minico Ducato: scene di battaglie evocate tra paladini di Re Artù e gli infedeli turchi. Lo spirito “naif” sosteneva quelle scene che ormai hanno raggiunto i Musei d’arte etnografica.
Ma la conversazione ci portò un giorno a ricordare anche il bel pranzo a Trastevere tra familiari e amici tra cui spiccava l’immensa personalità del poeta dialettale Ignazio Buttitta. Eravamo in sedici. Renato al centro della tavolata rivestiva la figura del Maestro-anfitrione felice di circondarsi di noi.
La nostra tavolata, come ricordammo, fu segnata a dito dagli avventori non soltanto per la presenza sua, ma anche per quella di Ignazio che provocò la richieste di autografi e foto.
A quel punto il poeta, da par suo, sollecitato da alcuni presenti venne pregato di declamare qualche sua poesia che alla fine del pranzo, sostenuto da buon vino dei Castelli romani, fu accolta da scroscianti applausi.
Erano queste occasioni tra me e Renato a stabilire quel rapporto solidale che di solito s’instaura tra cittadini siciliani fuori dalle mura natie.
Il posacenere del tavolo stracolmo di cicche mi diceva del tempo trascorso in lieto conversare e così, spesso, con un suo omaggio d’arte mi licenziavo con l’ingiunzione vocale di farmi rivedere.
Riattraversato il terrazzo da lui riprodotto più volte con la inquietante presenza di una tigre di passaggio e guadagnato lo scalone nobiliare mi perdevo tra i ruderi del cuore di Roma.
L’ultima volta che lo rividi stava sul suo letto di morte.
Avevo appreso la notizia del suo decesso alle sette ed alle otto com’ero solito, fui ancor con lui.
Varcato l’androne avvertii alle mie spalle un’insolita animazione con sportelli d’auto sbattuti. Mi volsi a guardare. Rividi il Presidente Cossiga attorniato da funzionari e poliziotti in borghese, uno dei quali, zelante, notandomi con le mani in tasca mi pregò di tenerli fuori. Così feci.
Il Presidente salì in ascensore con due persone ed io preferii ascendere lo scalone principale.
Ci ritrovammo dinanzi a Renato esangue in un completo bleu con cravatta rossa e notai subito, seduta, la Presidente del Senato On.le Nilde Iotti che aveva accanto, in piedi, Antonello Trombadori.
Restammo silenziosi in doveroso omaggio al Maestro.
Lo stesso giorno seppi da comuni amici che Renato, ricevuto il rituale religioso dell’Estrema Unzione, si era confessato a Monsignor Angelini, suo confidente spirituale e caro amico.
Non me ne meravigliai. Confermava il naturale senso religioso che alberga, anche se mortificato, in ogni siciliano.
Questa mia testimonianza vuole essere un omaggio all’umanità di un uomo, di un artista la cui Arte è stata consegnata ai posteri.


Fantasie oniriche su un tema di Chopin

Sarà un sogno o una componente onirica e simbolica sorprendermi a planare senza peso?
Rilassato mentalmente in un’atmosfera che raramente si verifica, ascolto un concerto al pianoforte e mi pare di sentirmi elevare fisicamente sul labile confine tra il sogno e la realtà.
Una distesa infinita d’erba ondosa, maculata qua e là, nelle diverse tonalità dei verdi, appare in basso sotto di me che mi lascio trasportare senza meta su un fiato di vento.
Una varietà di paesaggio, dall’opulento al desertico si propone alla mia ammirazione muta ed una felicità interiore, mista alla curiosità di possedere visivamente più oltre, mi arricchisce.
Sogno? Forse no, sono soltanto sospeso al di sopra di ogni peso fisico ed il bacio del sole che s’inabissa al di là dell’orizzonte, mi perde in un silenzio pervaso di mistero.
Il borgo medioevale, arrossato dagli ultimi fremiti di luce, appare ravvivato nella sua mestizia di pietra antica. Il castello diruto e soffocato dall’abbraccio dell’edera, dilata le sue vuote orbite come in un viso senza sguardo. Attorno al campanile un’aureola di rondini mi squittisce un saluto.
Archivio nel cuore ogni immagine, e le sensazioni che mi pervadono, alimentano i miei segreti pensieri.
La musica di Chopin mi pervade la mente ed il corpo che sembrano non appartenermi più.
Non riesco a chiarirmi se vago in una realtà o nella fantasia di una mente eccitata. Un arazzo di voci sconosciute s’intreccia, come sussurro dell’anima, al limite dell’incomprensibile.
Sotto un cielo imporporato sento scorrere il tempo in una dimensione che non mi appartiene, diversa da quella umana.
Sono in “trance” o presente a me stesso? E’ un’analisi che non trova soluzione immediata.
I pifferi della curiosità mi stimolano la mente ottenebrata.
L’armonico suono di un pianoforte può produrre tali sensazioni?
A me succede mentre ad occhi chiusi sono rilassato in uno stato afisico.
Ora il paesaggio cambia, trasmuta, cede d’incanto quel tepore visivo sfumando in un altro desertico, immaginifico, costellato da svettanti guglie di quarzite come custodi di luoghi ormai dimenticati dall’uomo e consegnati all’oblio.
Ai confini del tempo, ai limiti di un orizzonte immaginario, su questi luoghi del silenzio oppressivo, adesso plano sulle discrete pause d’ombra di regioni inesplorate dell’anima.
Un falco stridulo compare improvviso a ravvivare questo luogo di morte con un volo silenzioso segnato da un filo continuo d’ombra e questa archeologia del presente sembra ridestarsi anche se non si avverte dimensione umana.
Sul limitare di questa realtà fantastica, in un divenire alternato, compare adesso una foresta dai colori foschi, con i misteri del suo scrigno. Il suo stormire è forse la musica che mi canta dentro mentre inonda la mia mente come mare in burrasca e la risacca è il suo forte respiro agonico. Chopin continua a parlarmi accorato.
L’evocazione di perdute conoscenze mi sussurra segmenti di frasi portate da un’aura resinosa. Un viaggio immaginario scritto sull’acqua che non lascia testimonianza alcuna dello stillare del tempo.
Mi sento senza ricordi, come un assente che vuole inventare memorie che ha perduto.
Chopin adesso si allontana e mi rimanda in eco i suoi singhiozzi sulla lavagna del cielo. Mi parla con la sua voce ferita ora languida, ora accesa in scale cromatiche di grande intensità emotiva.
E’ un giardino segreto il suo universo interiore dove canta una voce di polla d’acqua sorgiva che zampilla in una fragile luce.
Gli ultimi bagliori di un tramonto, ormai sospeso tra due cieli, sembrano incatenare quelle note che si agitano in un crescendo maestoso.
Il mio volo continua adesso quasi senza percezione cosciente e mi pare d’essermi perduto nei luoghi di un labirinto onirico che mi opprime con squarci di visioni istantanee di nevi e deserti, di visi noti e sconosciuti in dissolvenze incrociate.
La luce si estingue sfumando sulle rive smaltate di verde e mi sento affondare nel buio del nulla come vento che lontano muore.
La sinfonia delle stagioni non ha più verità; le mie curiosità sono sopite, i miei desideri spenti.
E’, forse, fuga dall’uomo questo viaggio immaginario nel mare delle mie illusioni?
Il buio balza adesso ad impadronirsi dei luoghi fissati sulla ragnatela degli occhi ed io inerme sono pervaso dal delirio dei ricordi che mi lascia muto sulla cenere dei luoghi profondi dell’anima.
Nulla esiste di autentico, tutto è immaginario.
Adesso i giardini a mare laccati di toni autunnali, sono scomparsi, allagati dal nero profondo dell’inconscio, come da fiume in piena.
Il mare che profumava sembra spento; la madre che mi rappresentava con il suo immenso grembo mi si rifiuta.
Delirio e furore della fantasia sono frustati dalla immaginazione che non vuole concedersi.
Non mi resta che sorridere a ciò che è stato e che piano sfuma abbandonandomi. Anche lo specchio lontano dei laghi bianchi del silenzio non riflette più la sua luce metallica.
Il paesaggio religioso e pastorale non mi sorride più.
La musica dell’anima ora si eleva e trasale in forti tinte cromatiche su note che s’inseguono per moto contrario. Il vuoto mi annulla; scuote la notte. L’oppressione delle note percussive su un tema elastico si fondono alle sensazioni più segrete, ogni volta che l’armonia angosciata di Chopin mi raggiunge.
Nell’elevazione immaginaria della memoria, la nera signora delle tenebre mi si offre in simbiosi in un freddo abbraccio.
Il pianoforte si lamenta ancora e raggiunge gli abissi dell’anima mentre, passeggero del vento, cerco forse soltanto me stesso.


Il soggiorno dei Romanoff a Palermo

Nel primo pomeriggio del 23 Ottobre 1845, tra lo spirare di un forte vento di tramontana attraccava, al molo due del porto di Palermo, il piroscafo russo “Kamschatka”, di seicento cavalli, a cui si accompagnava di scorta il “Bessarabia” di trecento. Erano partiti due giorni prima da Genova dove, dopo una giornata di sosta, si era provveduto a rifornire le stive di quanto sarebbe servito per continuare il viaggio sino a Palermo.
L'indomani, il mare agitato, sin dall'uscita dal porto, alle sette del mattino, rendeva la vita di bordo cadenzata dai provvedimenti del medico berlinese Mandt tesi a lenire le sofferenze delle auguste persone imbarcate e del loro seguito.
Esse provenivano da un luogo assai lontano e freddo come San Pietroburgo, splendida città del Mar Baltico, alla foce della Neva, dove i canali placidi tessono la città come prezioso merletto ed i palazzi del centro cittadino, dai colori teneri, tra il bianco latte ed il celeste cielo, evocano note di calda armonia.
Le persone, di cui si tratta, erano i Reali di Russia.
Il viaggio e relativo soggiorno a Palermo erano stati consigliati dai Principi di Prussia, ed in particolare da Carlo che già vi aveva soggiornato e con lui il principe Voronzoff.
La Zarina Alessandra Feodorowna, nata Federica Luisa Carlotta di Prussia, minata dal “mal del secolo”, la tubercolosi, tentava il lungo viaggio per raggiungere il sito ameno nella speranza di alleviare le sofferenze di quell'imperdonabile malattia.
Erano con lei, il marito, l'augusto Autocrate di tutte le Russie, lo Zar Nicola I, un Romanoff, e la figlia, granduchessa Olga.
Particolarmente decisivi si erano dimostrati la disponibilità e relativo invito della principessa Varvara Schahovskaja che, trovandosi a San Pietroburgo, era stata casualmente informata della necessità di trovare un luogo dal clima mite per la Sovrana.
La principessa era moglie di Giorgio Wilding, il quale, avendo sposato in prime nozze Caterina Branciforti, Principessa di Butera, siciliana d'alto rango, aveva ricevuto alla sua morte dei beni, tra cui, la villa all'Olivuzza di Palermo.
Il luogo di campagna, rigoglioso per i giardini di agrumi e di tanta altra frutta, era situato al margine di quel bacino verdeggiante definito “Conca d'oro” dal Marchese Ventimiglia in una lettera al Principe Fabio Colonna. Il sito, fresco anche per le copiose acque che vi scorrevano, era stato scelto molti anni prima dalla Branciforti per elevarvi una dimora più tranquilla rispetto all'abituale palazzo alla Marina in città. Effettuato l'acquisto di numerosi orti della zona ed anche di una modesta casa della principessa di Carini, edificò una magnifica villa la cui costruzione diede l'avvio all'elevazione di altre appartenenti ai notabili e nobili della città che ostentavano le loro cospicue risorse economiche.
Anche se il tempo permaneva inclemente per le rabbiose folate di vento che spazzavano la città, una discreta folla di curiosi si era assiepata lungo il molo due del porto, trattenuta da gendarmi e distribuiti lungo il percorso che dal porto conduceva al Palazzo di città.
Il corteo reale, composto da tre carrozze scelte tra le più appariscenti dei casati siciliani e da altre quattro di autorità cittadine e nobiliari sfilava lentamente, ma per il tempo avverso era dato poco da vedere ai cittadini accorsi.
Il ricevimento di benvenuto offerto dalle autorità cittadine dava, però, alle regali persone la possibilità di mostrarsi nella cinquecentesca piazza Pretoria antistante il Palazzo di città.
L'accoglienza, per costume degli isolani era stata calda anche se pervasa di curiosità e ciò forse da attribuire all'animo nobile per natura del siciliano verso lo sconosciuto in visita, forse, all'assuefazione all'invasore con il quale, per opportunismo, c'è da convivere necessariamente.
Così per le condizioni fisiche degli illustri ospiti, provati dalle fatiche del lungo viaggio, il ricevimento subiva di tagli all'etichetta per far si che potessero raggiungere presto l'accogliente dimora; dal Palazzo di città veniva a snodarsi nuovamente il corteo che percorreva via Maqueda, una arteria viaria che intersecandosi con l'allora via del Cassero, ai Quattro Canti, divide la città in quattro parti.
La città, che contava a quell'epoca duecentomila anime non era particolarmente interessata alla notizia data con giubilo dal Giornale di Sicilia, ma la gente che si trovava lungo il percorso del corteo, manifestava curiosità e simpatia, non fosse altro che per quella parata regale.
Il corteo, raggiunto infine il suburbio, dove gli agrumeti premevano sulla città inondandola di profumo di zagara, scorgeva tra il verde, candida, villa Butera all'Olivuzza.
La differenza climatica tra San Pietroburgo e Palermo in tale stagione è ben notevole ed il fatto era stato subito avvertito dagli stranieri. Nei giorni seguenti l'arrivo, il clima, cedendo al meglio, rasserenava gli ospiti che, dopo alcuni giorni di totale distensione, lasciavano la villa ospitale per conoscere i luoghi del circondario: uno di essi, nei pressi, il castello della Zisa, un vero gioiello di architettura che racchiude elementi tipici dell'età musulmana, ma anche di età normanna. In esso, l'assenza di loggiati e finestre sui muri perimetrali, rafforza la ragione della costruzione araba (per la tradizione che vuole, essere stato costruito insieme all'altro della Cuba da un Emiro di Sicilia dedicandoli alle sue due figlie di tali nomi), ma ciò è in contrasto con l'altra di Silvestre de Sacy, apprezzato studioso del tempo, che li assegnava all'età normanna, il cui lungo dominio arricchì la città di preziose testimonianze.
Lo studioso, a sostegno della sua tesi, segnalava l'assoluta mancanza di formule coraniche che sempre si accompagnano alle iscrizioni dei Musulmani. Aveva infatti individuato in un residuo di scrittura murale la parola Maleck (Rex) che non poteva assolutamente provenire dagli Emiri.
Anche lo Zar Nicola s'interessò al dilemma manifestando la tesi globale in favore di entrambe e cioè che la costruzione primaria fosse di sicura impronta araba, su cui, nel tempo, erano state certamente inserite strutture di carattere normanno.
Compiute queste visite fu programmata anche un’altra di interesse religioso su Monte Pellegrino che sovrasta Palermo.
Un culto centenario si compie ogni anno alla grotta di Santa Rosalia, protettrice di Palermo, in cui fede e folklore si affiancano in festeggiamenti da aver pochi pari in Italia.
La Santa protettrice lo è da quando, invocata dai palermitani per la peste che mieteva migliaia di vittime in città ne fu salvata per sua intercessione, come narrano gli scrittori di quell’oscuro ‘600.
La visita della famiglia imperiale russa entrò, dunque, dopo un periodo di riposo nel panorama delle conoscenze del territorio.
Fu apprestato un programma quanto mai elaborato per l’augusta visita alla grotta.
Il Cardinale di quel tempo, Ferdinando Maria Pignatelli, napoletano di origine, espresse il desiderio di ricevere personalmente la famiglia reale: lo zar Nicola I, la moglie Alessandra Feodorowna e la figlia Olga, nonché il seguito di dignitari di Corte accomunati da quello amministrativo della città.
Da villa Olivuzza fu formato un corteo di pregiate carrozze che presto si unì a quello cittadino dove il sindaco, il nobile Ugo Li Vigni, partecipava con il suo seguito di amministratori locali.
Il corteo composto da dodici carrozze tra le più eleganti, giunse presto alle Falde, ossia la base del Monte Pellegrino, da dove iniziò l’aspra salita che era una vera scalata compiuta per la strada acciottolata di quel tempo che per tornanti porta al sito religioso posto sui cinque cento metri di altezza.
Tale percorso panoramico compiuto ai primi di un novembre, quanto mai consenziente, tra lo spirare di un tenero mattino assolato, in circa due ore, raggiunse tra i saluti di un’accogliente natura in cui primeggia il ficodindia che tanto incuriosiva gli ospiti e le ginestre odorose.
L’aria balsamica di quel mattino confortava il fisico depresso della zarina che si entusiasmava alla visita di quel luogo così aspro nonché alla visione del mare che ne bacia la costa. La sua distesa, infatti, è infinita.
Il Monte che accoglie il Monastero dei Frati Cappuccini offre una vista indimenticabile per la duplice visione panoramica sulla città e sulla località di Mondello, oggi rinomato luogo di vacanze.
Il Cardinale Ferdinando Maria Pignatelli fu lieto di accogliere dinanzi alla grotta della Santa gli augusti sovrani e il numeroso seguito a cui fece da cicerone.
Gli ospiti stranieri chiaramente incuriositi ed affascinati da quel luogo mistico furono ammaliati dalla storia e dall’antico rifugio della protettrice di Palermo.
La caratteristica Cappella mostra un tetto naturale difforme ch’è costellato di canalette metalliche a vista allo scopo di accogliere l’acqua piovana filtrante dalla roccia viva convogliandola al di fuori di esso.
Le panche in legno accolsero i numerosi ospiti che ascoltarono in francese la storia della vita della Santa e gli eventi religiosi che avevano prodotto quel rapporto tuttora vivo tra i cittadini palermitani.
Rosalia, giovane aristocratica palermitana, vissuta intorno al XII secolo, era stata promessa in sposa ad un ricco nobile per iniziativa dei suoi genitori. Ciò aveva rafforzato la sua decisione di dedicarsi alla sua fede religiosa, fuggì nottetempo avventurandosi sul Monte che domina Palermo.
Vivendo una vita di stenti fisici si dedicò unicamente alla preghiera cibandosi di erbe endemiche e di qualche regalia di latte delle greggi che pascolavano in quei dintorni. Finché sparita alla vista dei rari pastori fu dimenticata nel nulla.
Nel secolo XVII un cacciatore che riposava dopo una battuta ebbe una visione sconvolgente. Gli era apparsa la nobile Rosalia che esprimendosi in un superato linguaggio gli indicava con chiarezza dove si trovassero i suoi resti. Quel luogo divenne presto il sacrario che oggi lo caratterizza e lo rende unico per gli innumerevoli ex voto preziosi in oro e argento a testimonianza di grazia ricevuta nonché per il rivestimento in oro della sua effigie sdraiata entro una teca di cristallo. Tra i numerosi tutori medici offerti alla Santa si distingue una enorme ancora di nave portatavi a braccia da marinai scampati ad un naufragio per sua intercessione miracolosa.
Intorno alle tredici, apposte le loro firme sul registro degli illustri visitatori, fu offerta alle, circa, cinquanta persone del corteo una collazione nel refettorio dei Fratti conventuali a base di una calda minestra corroborante, formaggi di cittadina provenienza, prosciutti di montagna, burro e marmellate varie, nonché pane tipico palermitano, cosparso in superficie di sesamo, pistacchio di Bronte e fichi secchi.
Ma ciò che attrasse il vivo interesse degli ospiti fu il frutto del ficodindia di quel Monte gustato con perplessità mista a chiara diffidenza.
A coronare quella frugale colazione fu offerta la calda bevanda del the cui i popoli nordici non sanno rinunciare.
Lo zar e tutti i dignitari (tranne l’addetto militare) indossavano abiti civili, poi furono condotti a piedi in una zona belvedere, molto prossima al luogo religioso, per ammirare da quell’altezza la vastità marina e relativa vista a strapiombo su un’altra parte della città, detta Rotoli.
Intorno alle ore sedici il corteo si mosse per il rientro in città. Occorreva procedere lentamente in discesa per un acciottolato di strada campestre accidentato.
Giunto in città nei pressi del Piazzale delle Croci, rinnovati i saluti, il corteo si dimezzò con il rientro degli zar alla villa Olivuzza.
Un’altra visita di due giorni fu compiuta anche a Bagheria presso la sontuosa villa del Principe Butera, dove in ristretti ricevimenti furono loro presentati i nobili proprietari delle ville vicine. Bagheria in quell'epoca vantava, tra gli agrumeti, soltanto principesche dimore per le vacanze dopo il trasferimento, ivi, di don Ferdinando Gravina Alliata Principe di Palagonia nel 1715. Della villa di tale Principe, gli ospiti reali ne furono affascinati, serbandone magnifico ricordo per la sua strabiliante unicità. Molte decine sculture di mostri, ad altezza d'uomo, in tufo e terracotta ghignavano da sopra i muri perimetrali e tra le aiuole di piante esotiche. Musici, nani, gobbi, mendicanti, divinità o figure sghembe dalle sembianze indefinibili discoprivano il mondo misterioso dell'originale proprietario che volle esiliarsi, in tale luogo, dalla vita cittadina e dai suoi compromessi.
Il soggiorno dell'augusta Sovrana a Palermo, al tepore del suo clima, s'apriva ogni giorno di più al ristoro del corpo e della mente risollevandone il fisico debilitato. Ritrovava sensazioni di benessere che credeva dimenticate.
Dopo, però, quarantasette giorni di totale vacanza, lo Zar Nicola lasciò Palermo con la mente arricchita di preziosità culturali ed ammaliato dall'accoglienza.
Salutate le autorità cittadine e “la cittadinanza tutta per averci dato la possibilità di portare con noi il miglior ricordo di ogni altro soggiorno in terra straniera, dove non ci siamo sentiti affatto stranieri”, inizio il suo viaggio di ritorno in treno che fu abbastanza laborioso per le visite relazionali presso le maggiori capitali europee attraversate.
La Zarina Alessandra e la figlia Olga restarono a Palermo a godersi l'ospitalità, della quale si onorava la principessa Schahovskaja che non tralasciò alcuna occasione per la migliore riuscita di quel soggiorno.
La primavera anticipata di quell'anno consentì alla Sovrana Alessandra e ai suoi cari di allontanarsi dall'Olivuzza per visitare luoghi di grande attrattiva come le zone archeologiche di Girgenti, Siracusa, Segesta e l'isola di Mothia ed ancora Erice e la vicina Monreale dove l'interesse suscitato fu altissimo.
Le personalità nobiliari e politiche brigavano per essere presentate alla Sovrana e una volta ammessi, recavano doni di ogni genere, alcuni dei quali di preziosa qualità. Ma uno, in particolare, merita essere segnalato per l'eccezionale valore venale e culturale: un antico cratere greco, quanto mai splendente, ritrovato nella zona archeologica di Girgenti da poco e acquistato per la Regia Università, dipinto in nero su fondo terracotta. Era stato offerto alla Sovrana dalla Amministrazione Comunale nella persona del Sindaco Ugo Li Vigni, marchese di Castroreale.
Vi erano riprodotte due scene mitologiche: la lotta tra Ercole e Nereo e sul lato opposto l'incontro tra Ercole e le Ninfe dell'Eridano. Personaggi accertati dell'Olimpo greco per il particolare della pelle leonina e la clava tra le mani di Ercole, nonché per il pesce graffito sulla figulina, il cui disegno non poteva non indicare la qualità fluviale o marina delle Ninfe.
Il cratere, era stato ritenuto appartenere alle anfore panatenaiche che, colme di olio, venivano consacrate a Minerva e, nei giuochi panatenaici offerti in premio ai vincitori.
Di esso se ne ebbe notizia sino all'anno precedente la rivoluzione bolscevica, dopodiché se ne perdettero le tracce. Chi credette, nel tempo di averlo rintracciato, ha dovuto confrontarne il disegno con quello conservato presso il Museo archeologico di Palermo, ottenendone una discordante versione grafica.
Durante il soggiorno dei Romanoff a Palermo, tra le corali manifestazioni di simpatia, fu editato un libro unico sull'avvenimento ospitale dei Reali. Fu stampato “co' tipi di P. Morvillo, appaltatore della R. stamperia” “per cura degli editori G. Bastianello, G. Di Giovanni, A. Frascona, T. Tripodo” dal titolo: “L'Olivuzza, ricordo del soggiorno della Corte Imperiale russa in Palermo nell'inverno 1845-1846”. Vari gli autori, tra storiografi, poeti, musicisti, incisori, i cui scritti e tavole erano dedicati agli illustri ospiti ed in particolare alla Sovrana per la salute ritrovata.
Pietro Lanza, principe di Scordia; Domenico Lo Faso Pietrasanta, duca di Serradifalco; Agostino Gallo; Terenzio Mamiani della Rovere; Domenico Avella delle Scuole Pie; Ugo Carlo Papa; Giuseppe Solito; Giuseppina Turrisi Colonna; Pompeo Inzegna; Giuseppe Di Giovanni; Salvatore Di Giovanni; Francesco Paolo Priolo; Clelia Manjarot; Emmanuele Raimondi e il Cav. Maestro Vincenzo Bellini ne furono gli illustri redattori.
I succitati autori trattarono in prosa, poesia, critica descrittiva e musica argomenti tra i più vari, ma tutto sentito come omaggio reverenziale agli ospiti reali. Al riguardo, una nota particolare va espressa per la pubblicazione di una “canzoncina inedita del Cav. Vincenzo Bellini, composta all'età di dodici anni”.
Il soggiorno dei Reali russi e del loro seguito ebbe la durata di circa sei mesi, poiché a meta Aprile dell'anno successivo al loro arrivo, Alessandra Fiodorowna aveva deciso di rientrare in patria per un moto di acuta nostalgia e per un chiaro miglioramento della sua salute. La lontananza dell’augusto consorte, per il quale nutriva quasi adorazione, la sollecitò al viaggio di ritorno che fu compiuto sulla nave “Bessarabia”.
La Sovrana desiderava stare accanto allo Zar per le notizie che le pervenivano di contrastanti vicende politiche e per i fermenti che si manifestavano con più frequenza in Ungheria, dove, dopo qualche anno, lo Zar viene costretto ad intervenire duramente per riaffermare i suoi principi autocratici.
L'Imperatrice con la granduchessa Olga lasciarono, dunque, Palermo, salutate da espressioni di simpatia più calorose rispetto a quelle dell'arrivo. Avevano conquistato il popolo palermitano, oltre che per le loro qualità umane anche per un gesto generoso di munificenza concretizzato nella donazione di una cospicua somma di denaro destinata alla costruzione di un asilo per bimbi abbandonati. La Sovrana disse di portare con sé un ricordo struggente delle accoglienze ricevute e nel saluto alla cittadinanza indico “la Conca d'oro”, un luogo di paradiso dove “sarebbe bello perdersi”. Il riferimento era inteso ai giardini di tale luogo coltivati a frutteti ivi compreso il mandarino del quale, fino all'arrivo a Palermo, sapeva soltanto della sua esistenza.
Del soggiorno dell'augusta famiglia resta all'Olivuzza una lapide che ricorda con reverenziale affetto la presenza nell'inverno 1845-1846.

In copertina: “Fiore sul vulcano”, disegno dell’autore a china, 1994