Racconti scelti

Racconti scelti

Il Teatro dell’anima

Può accadere che per particolari condizioni spirituali ci si ritrovi ad occhi aperti, pervasi da un vago senso depressivo.
Quello è un momento in cui la nostra anima colma di flebili bisbigli è attratta da risonanze immaginifiche.
In un susseguirsi di scatti fotografici potresti, allora, scorgere con gli occhi del cuore brani della tua esistenza che credevi, ormai, consegnati alla valle delle ombre. E, così, come da caleidoscopio dalle mille facce, scorgi, dagli abissi della memoria, ombre, volti e luoghi che stenti a riconoscere e che un tempo furono sintassi di vita.
Può apparirti per incanto una lunga spiaggia invernale dove sembrano essersi dati convegno i simulacri e certe indelebili immagini del tuo tempo trascorso.
E’ Novembre, caro ai poeti.
Nell’aria un vento teso dal mare piega i radi cespugli come a contenderli alla terra. Lo schianto solenne delle onde sugli scogli merlettati di schiuma e un gracchiare lontano disegnano lo scenario ideale per un ipotetico “teatro dell’anima”.
Basterà sedersi su un coriandolo di spazio e da quella platea ascoltare il passo di mille pensieri snodarsi da scene in dissolvenze incrociate.
E’ uno spettacolo sospeso, a sud delle nuvole, dove su un’ideale passerella compaiono, in alternanza, personaggi e situazioni che hanno forgiato la tua adolescenza. Ed è come riattraversare quegli anni dove, pare, ci si guardi come dal palazzo di fronte.
E’ uno scorrere di diafane figure: il bimbo ch’eri, esile, al limite del rischio fisico, ma vitalissimo e inappagato nelle sue curiosità; due figure di nonni, molto vecchi, accuditi con amoroso rispetto che non ti hanno allietato; i primi funerali con lamenti di prefiche; la salma del giovane padre cosparsa di maleodoranti gerani; il primo sussulto dell’anima per la fanciulla che correva sui tuoi sogni e, poi, lo scorrere interiore di una primavera creativa che accostandosi ad una maturità fisica ti ha segnato di una personalità che oggi ti possiede.
Questa visione onirica, poi, divaga, lascia quella fisicità apparente per dare libertà alla fantasia.
Il paesaggio trasale. E’ invaso da una strana eco che dissemina suoni e parole in libertà per presentare in tale luogo della memoria un vaporoso uccello iridescente di grandi dimensioni mosso da un meccanismo celato. Strawinsky emerge dall’immaginario a proporre il suo “uccello di fuoco”. Le sue sembianze, in controluce, scorrono, scivolano, s’avvitano nella bruma salmastra sino a dissolversi.
Che significato dare?
La memoria è in libertà, volteggia, plana, trasale per, poi, acquietarsi.
Ora, dopo una pausa in cui lo spirito ti ha preso per mano, è la risonanza del luogo a portarti lo scalpitio furioso di un bianco cavallo simile all’unicorno della nostra fantasia infantile; appena maculato sopra le frogie, criniera scarmigliata, segna il candore e la vitalità dei tuoi anni verdi finché non fosti consegnato agli orridi della vita.
Ad esso s’innesta, da lontano, un suono liturgico di organo dalle mille canne che pare provenire dalle onde spumose di una cattedrale marina.
Il greve paesaggio trasmuta piano. Magnifica, adesso, una “mater dolorosa” racchiusa in un alone di afflizione.
Ti senti esplorare gli abissi dell’anima.
Ma, a spezzare, d’incanto, la greve atmosfera colma di stridii, singulti di mare e versi di gabbiani ti perviene, ora, allegro e festoso, l’armonico suono di una giostra di provincia dai cavallini rampanti, cavalcati da festosi bambini. Un’apparizione. Una immagine abbagliata da un “flash” fotografico. E’ la giostra della vita. Nel suo festevole trillio e nel testardo rincorrersi è il giro della vita. Il dì e la notte dell’uomo.
Verso di essa, adesso, s’accostano lentamente un vecchio uomo che conduce un bimbo per mano: due cardini che esprimono la misura del tempo. L’alba e il tramonto di ogni cosa.
Ad essi accorre, saltellando, un pagliaccio da circo nelle sue vesti impossibili che, mimando il passo di alcuni animali s’accompagna con la voce imitandone il verso. E’ la nobile figura del teatrante dai tratti alterati dalla maschera mutevole della vita in cui ti riconosci.
Fantasia e dolore le sue caratteristiche. Ma in tale scenario s’inserisce, elevandosi, un mistico brusio di donne da cui germoglia un canto celestiale. D’improvviso si spegne. Un teso silenzio accresce l’oscurità della mente. La notte scende buia. Pesa sull’anima. La materia di cui sono fatti i sogni si sfalda lentamente.
Qui arrivano gli angeli a rammentarci il passato con voce sommessa.
Qui si ascoltano i nostri pensieri sospesi. E, pur d’improvviso, il cielo aggrondato ch’era s’apre ad un pallido chiarore come presagio augurale.
Il pagliaccio saltellante ora mi si avvicina, ilare, fino a compenetrarmi trasfigurandomi. Un segreto desiderio sembra realizzarsi e vedo esibirmi in tale palcoscenico per una folla immaginaria che mi gratifica di un caldo applauso.
Gli ultimi bagliori di una fragile luce m’illuminano i passi malfermi e..........
E’ questa una storia senza un principio, né una fine.
E’soltanto un lungo brano di vita rivissuto sotto i portici di un cielo baciato dalla memoria.
Così, come per sfuggire ad un’ansia che mi ha pervaso imperiosa sulle ali di tali divagazioni mentali, mi appresto a scendere, in corsa, da quella giostra festosa con un battito nervoso di ciglia ed un sospiro.
Ritorno tra i miei oggetti cari dello studio: pennelli, colori, libri, tele disseminate ovunque, appunti, schizzi e note musicali nell’aria che come linfa mi nutrono. L’afrore delle resine ed il vitale disordine mi riaccolgono nel sito naturale come naufrago del mare della fantasia.
Nel silenzio che si posa come polvere risento il mio respiro.
Pigramente mi alzo.
Apro le imposte per vedere se fuori vi sia ancora il mondo.

Roma, 1997


“Miss Sharp”

La stagionata signora inglese che nel nostro quartiere dei Quattro Canti era conosciuta da tutti come “miss Sharp” era stata internata, sin dall’inizio delle ostilità con l’Inghilterra, in un campo di concentramento nei pressi di Enna.
Il nostro trio di vagabondi, con impertinenza adolescenziale, aveva tentato un approccio personale con quella figura anomala tra quelle vie popolari del nostro quartiere ottenendo soltanto mezzi sorrisi di riscontro.
Di età compresa tra i cinquanta ed i sessanta, di altezza superiore alla media femminile, esibiva un portamento personale di rango aristocratico, chiuso in una impenetrabile alterigia. Corpo eretto, esile al limite del rischio, si aggirava nel rione tra la Via Celso, la Cattedrale ed il Mercato del Capo in compagnia di un cane volpino aggraziato, bianco come palla di neve, ma decisamente aggressivo con chi indugiasse con lei; che con movenze lievi incedeva dimenando un bastoncino nero lucido dall’impugnatura d’argento, portato più come attributo al suo abbigliamento “demodè” che per necessità fisica.
Di lei si vociferava che avesse abbandonato il marito in Inghilterra, un Colonnello dell’Esercito, per essersi invaghita, durante una vacanza in Sicilia, di un nobile spiantato palermitano che, dopo pochi anni di convivenza, l’avesse piantata per un altro amore. Si vociferava tanto d’altro, tra cui, che fosse una spia e, comunque, una signora di religione protestante.
C’era qualcosa d’arcano in quella figura che percorreva quelle strette vie come in un palazzo reale. Si affermava, financo, che fosse una principessa imparentata con i reali d’Inghilterra.
Curata nella persona, “maquillage” un po’ pesante, indossava abiti lunghi scuri. Al collo scoperto, un nastrino di velluto bleu, marrone o verde scuro dal quale oscillava una minuscola cornice d’argento che inquadrava il viso altero di un uomo dai baffi all’insù. Preziose spille di corallo o d’ambra arredavano, infine, un busto esangue.
Da lei traspariva con chiarezza il suo attaccamento ad una moda superata che non voleva rimuovere. Indossava, sempre, cappellini con veletta nera.
Il bombardamento aereo del 9 Maggio 1943 su Palermo fu il più distruttivo tra i tanti del periodo bellico. Provocò centinaia di vittime tra la gente che, sfollata nei dintorni della città, vi ritornava ogni giorno feriale, al lavoro.
Era nata, tra la gente che risiedeva ancora in città, una certa assuefazione ai bombardamenti anglo-americani che avvenivano, di solito, nelle ore pomeridiane. La città, infatti, nel pomeriggio era spopolata e chi vi permaneva accettava con fatalismo la “routine” demolitrice.
Quel mattino del 9 Maggio i palermitani furono colti di sorpresa da quel micidiale bombardamento perché anticipato intorno alle dieci e trenta. Ne restano ancora oggi gli squarci dolorosi sulla città, in specie sul centro storico.
Quel bombardamento devastante abbattè buona parte del palazzo nobiliare in cui era ubicato l’immenso appartamento di “miss Sharp”, al secondo piano, che si affacciava con tre balconi sul Corso Vittorio Emanuele avendo l’ingresso nella laterale Via Armando Casalini.
Per accedervi, su per un settecentesco scalone occorreva attraversare un ampio atrio condominiale costellato di splendidi banani.
Gli eventi bellici avevano segnato duramente la popolazione il cui quotidiano impegno era costituito dalla ricerca spasmodica di cibo, qualunque esso fosse, che ammansisse i latrati dei ventri.
Si era, tutti, in cronica deficienza alimentare.
Noi del trio facevamo parte di quella gente che per attaccamento viscerale al luogo natio o per vari altri motivi aveva scelto di restare in città. Vagavamo, perduti tra le macerie della nostra zona con un solo ossessivo impegno: la ricerca ed il recupero di legname al fine di barattarlo con quello spilorcio di don Totò, il rosticciere cui necessitava per friggere i suoi alimenti.
Una mattina ch’eravamo intenti a sradicare una grossa trave, scorgemmo, casualmente, un varco, in parte ostruito, attraverso il quale credemmo di ravvisare l’esatta ubicazione dell’appartamento di “miss Sharp”. Presi da morbosa curiosità e con l’incoscienza dell’età lavorammo una intera giornata, tra pericoli di crolli, a divellere quanto si opponesse al nostro ingresso.
Giurammo di mantenere il segreto. L’indomani, con molta circospezione, puntellando muri pericolanti con sostegni quanto mai precari riuscimmo nell’intento. Penetrammo carponi e fummo accolti da un buio pesto, soffuso di un silenzio di tomba, quale, in realtà, ci apparve la prima stanza.
Trascorremmo molti minuti di ansia, mista a paura, finché i nostri occhi furono assuefatti alla scarsissima luce. Sembravamo nuotare nel buio ancestrale dell’uomo.
Penetrati nella stanza calpestammo subito una gran quantità di libri sparsi tra il mobilio abbattuto. Fummo certi di quel domicilio ed iniziammo ad aggirarci tremuli ed ansiosi, gravati da un’oppressione infinita. Le altre stanze erano appena rischiarate da sottili lame di luce solare proveniente dalle imposte danneggiate dei balconi che davano sul Corso, finché nella stanza in fondo le nostre esclamazioni di giubilo, miste a sorpresa, rivelarono le rispettive scoperte che per noi ragazzi furono di grande interesse.
Eravamo coscienti di profanare un luogo sacro che non ci apparteneva, dove le vicissitudini umane, sotto ogni forma, sembravano ancora aleggiare; notammo presto, sotto un sudario di polvere, numerose raccolte di minimi oggetti, disposte su scaffali, mobili, mensole, sistemate in bell’ordine come per una mostra didattica. Quella stanza la chiamammo subito “delle collezioni” che stipavano ogni suo spazio.
La polvere, di un bianco gessoso, ricopriva ogni cosa che su quelle tenere debolezze dell’ordinatrice assumeva un che di infinitamente triste.
Di lei apprezzammo il maniacale senso dell’ordine. Una descrizione men che esatta potrebbe dare un’idea approssimata delle infinite raccolte che vi trovammo: dalle più stravaganti alle più interessanti, dalle maliziose alle tenerissime. Una quantità infinita di bottoni per donna era ordinata in quattro cassetti, cuciti a dei fogli di cartone e con una classificazione in inglese. E così per penne stilografiche, distintivi italiani e stranieri, monete a chili, anche d’argento, comprese le antiche; spille d’epoca, alcune davvero preziose, anni dieci, se non dell’800, fotografie in dagherrotipia suddivise per tema: “paesaggi italiani” e “stranieri”, “figure di contadini”, “bambini” ed anche “nudi” quanto mai pudichi, maschili e femminili. Ed, ancora, mini bottiglie di essenze profumate, calendari di barbiere e tanto d’altro.
Ma restammo stizziti del fatto di non trovare collezioni di francobolli dei quali eravamo amatori. In un’altra stanza, in un grande armadio, rilevammo un bauletto, di per sé prezioso, contenente, in un imballaggio perfetto, uno zoo di vetro, ricco di animali di tutte le specie.
Fu ciò che apprezzammo di più.
Tutto quanto, lo ritenemmo erba del paradiso che ci affrettammo, furtivi, a mietere. Colmammo, infatti, dei recipienti occasionali e, al tramonto, trasferimmo tutto in luogo sicuro dove ce lo spartimmo, svendendolo poi o barattandolo con prodotti commestibili. Lo stomaco aveva le sue esigenze e così contribuivamo alle economie delle rispettive famiglie.
Nei giorni seguenti tornammo a razzolare in quelle opprimenti stanze ovattate di polvere che rivestiva anche noi. In pochi giorni quel luogo sembrò appartenerci per quanto tempo vi trascorrevamo, paghi di quelle scoperte e consapevoli di un segreto. Fu il nostro covo dove ci muovevamo a nostro agio pur sotto lo sguardo severo dei personaggi ritratti sulle tele alle pareti.
Non fummo, però, mai sfiorati dall’idea malsana di trafugare mobilio o altro di valore. Non eravamo interessati o credevamo di riscattarci di quelle nostre infantili sottrazioni.
Ma, come succede in simili casi, qualcuno notò i nostri ingressi circospetti. Si sparse la voce e nel giro di tre giorni fu asportato quant’era rimasto integro di quell’appartamento. Un vero e proprio saccheggio. Furono divelti, persino, i fili della corrente elettrica, compresi gl’interruttori. I pregevoli mobili, i quadri di notevoli dimensioni furono fatti scivolare, incordati, su scivoli improvvisati di assi di legno per essere, poi, caricati a spalla e portati via. La semplice apposizione di una mano su un pezzo di arredamento otteneva il tacito consenso collettivo al possesso.
Noi che assistevamo a quello scempio, paghi della nostra disinvolta morale, restavamo spettatori dell’altrui bramosia che deprecavamo.
Una delle tante scene di quella ruberia che mi è rimasta particolarmente impressa è costituita dalla figura di una donna di aspetto volitivo, nostra conoscente che trovammo una mattina in piedi, a braccia conserte, all’interno del monumentale letto matrimoniale in ottone (un vero capolavoro) da dove erano stati asportati reti e materassi. La donna, con sguardo malfido, coglieva ogni espressione, ogni gesto dei saccheggiatori che le roteavano.
In un silenzio di contenuta aggressività attendeva a piè fermo il ritorno del marito e del figlio perché completassero la razzia iniziata.
Così, al limite del surreale, dovuto in gran parte alla polvere sollevata dai passi frenetici di quanti erano interessati alla ruberia, la scena rendeva, approssimata, ciò che la fantasia dantesca aveva descritto per il girone dei ladri.
Fuori, all’aperto, sulle macerie che raggiungevano il secondo ed anche il terzo piano abitativo, assistemmo ad un’altra scena che ci rese soddisfatti della sua conclusione. Vedemmo punita la bramosia umana finalizzata al furto. Due uomini, a noi sconosciuti, intenti a trafugare un grande specchio dalla cornice settecentesca del salotto, presi da frenesia ladresca ed anche per l’impervia zona che sormontavamo, se lo videro sfuggire di mano e rovinare in pochi spezzoni che rifletterono un cielo azzurro ed i volti di quanti gli si appressarono.
I due fuggirono da quel luogo martoriato tra gli scongiuri più coloriti e non si fecero più vedere.
In tre giorni ebbe termine quell’indegno spettacolo. Ogni cosa era stata asportata ed al nostro trio di imberbi vagabondi non rimase che tornare a vagare tra le macerie della chiesa cinquecentesca di Piazza Gran Cancelliere e le rovine di altri palazzi alla ricerca spasmodica di quel legname che ci avesse consentito, a sera, di barattarlo con una cartata di “panelle” e “raschiature” (un impasto salato e fritto di ceci) contribuendo, così, alla nostra indipendenza alimentare.
Con lo sbarco delle forze armate anglo-americane in Sicilia, “miss Sharp” fu posta in libertà in precarie condizioni fisiche. Accompagnata da due ufficiali inglesi al suo domicilio palermitano non resse allo strazio di quella visione. Crollò, colta da infarto, morendo due giorni dopo.
Ancora oggi quella Via Armando Casalini, oggi Via Montevergini, mostra con il suo palazzo squarciato le visceri e l’anima di “miss Sharp”.


I giorni dell’ira

Don Matteo aveva deciso.
L’indomani, all’alba, sarebbe andato via anche lui con il bimbo per raggiungere i compaesani che si erano trasferiti in massa con i loro mezzi al campo profughi, oltre confine.
Trascorsi, infatti, due giorni da quell’esodo si era convinto dell’inutilità della sua permanenza con il bimbo in quel luogo morto.
Si sentiva gravato della responsabilità assuntasi due anni prima quando il fanciullo gli era stato affidato da un vecchio compaesano morente.
Kastryn, piccolo borgo di montagna, dove le abitazioni, accostate le une alle altre sembravano un gregge infreddolito, isolato tra dirupi innevati e colmo di gaiezza estiva, vantava la classica pace dei campi. Il bosco limitrofo, quasi un amplesso sulle case, rivestendosi ad ogni stagione di variegate cromie impreziosiva il sito. Il territorio, ricco di specie endemiche, di insediamenti umani di antiche civiltà pulsava in serenità tra lavori nei campi dissodati e cura del bestiame. Rocce argillose ed arenarie caratterizzavano il paesaggio.
In quell’alba in cui don Matteo si apprestava alla partenza, il borgo appariva, in gran parte, devastato insieme alla sommità del campanile per le numerose granate che vi si erano abbattute per una guerra fratricida tra poveri.
Quel mattino, sul borgo aleggiava un lezzo nauseante di carogne mentre il prete colmava di indumenti di lana, coperte e scarse cibarie uno zaino militare. Dopodiché la sua intima pulsione sacerdotale lo portava in chiesa, attraversata la sacrestia, dove, raggiunto l’altare maggiore, estraeva dal tabernacolo la pisside con il suo contenuto sacro che, insieme al calice ed ai paramenti sacri, ripose nelle tasche posteriori dello zaino.
Al loro apparire sul sagrato per la partenza, due cani famelici si accostarono riluttanti, come a cercare un contato umano.
Il sacerdote, affranto per la visione desolante del borgo, spalancò con gesto deciso l’uscio della Chiesa dell’Immacolata in segno di fratellanza con lo scopo preciso di offrire rifugio a chi ne avesse cercato. Dopodiché, in abiti civili, con Cecchino di cinque anni, mano nella mano, iniziarono a scendere la breve scalinata della Chiesa parrocchiale che, d’inverno, si rivestiva di gelo.
In quell’alba livida, un’eco sinistra rimandava tra le facciate di quelle umili case l’aritmia dei loro passi. Un silenzio irreale li sovrastava. Dovettero superare le macerie di diverse abitazioni per raggiungere la piazzetta centrale del paese dove ogni riferimento architettonico era stato cancellato.
Proseguirono tra altre difficoltà di percorso, in discesa, e, raggiunte le ultime case, ne uscirono diretti al ruscello che, in parte aggirava l’abitato.
Per il necessario guado, don Matteo, cinquantenne dal fisico possente, sollevato il bimbo attraversò il torrente sulle grosse basole poste trasversali da mani antiche. Pervenuti alla riva opposta s’avviarono per un arido pianoro maculato qua e là da varie isole di neve che lo merlettavano. Le cime innevate dei dintorni armonizzavano un gelido paesaggio.
Il bimbo, barcollante per l’asperità del terreno, iniziò, com’era d’attendersi, a lamentarsi ed a porre vari interrogativi sul motivo di quell’uscita mattutina. Chiese sulla meta del percorso e, soprattutto, sui lupi famelici che tanti sonni gli avevano turbato.
L’uomo, com’era solito, ricorse agli effetti speranzosi di risposte fantasiose e a quant’altro servisse a distogliere quella creatura dalla fatica e dall’incubo di quei luoghi a lui sconosciuti.
Il cannoneggiamento dei giorni precedenti, in quella zona, aveva interessato i crinali dei due versanti montani opposti, al di sotto dei quali si stendeva, nella sua vastità, il percorso dei due sfollati in cammino.
Un giorno senza sole, bagnato da una luce di mestizia climatica, toglieva ogni volumetria alle cose. Un silenzio pesante gravava sul luogo. Rari uccelli solcavano quel cielo.
Una sensazione di sconforto avvolgeva nelle sue spire i pensieri del prete. Il bimbo tornò a frignare e nulla più, adesso, lo distraeva.
Il percorso si era fatto, per buon tratto, impervio.
Don Matteo, dopo un ulteriore tentativo di rabbonire il bimbo, si fermò e sollevatolo, se lo pose a cavalcioni sullo zaino. La novità di quella comoda postura sortì nel bimbo il suo rallegramento. Ora, le due figure, compresse in una, costituivano un unico, eventuale, bersaglio.
L’andatura del prete, fattasi più spedita, contribuì ad una diversa agilità di percorso.
D’improvviso, dei colpi distanziati di mortaio produssero sul versante opposto agli spari, sinistre colonne di fumo grigiastro che, innalzandosi pigre apparivano, nel mesto cielo, quali funebri fiori.
Erano chiare, pertanto, le rispettive posizioni degli schieramenti avversari. Il bimbo, intanto, cullato dall’andatura regolare del sacerdote si era addormentato e ciò tranquillizzò l’uomo che non smetteva di canticchiare canzoncine infantili.
Quei due esseri erano entrati tra le spire del loro destino.
Riprendeva a nevicare. Un candido velo calava come sipario arabescato su quell’arido palcoscenico; damascava l’infinito altopiano creando una suggestione particolare.
Don Matteo, novello San Cristoforo, aveva la mente percorsa da mille interrogativi di coscienza. Sarebbe, infatti, voluto rimanere al suo posto di missione nella Casa di Dio ad accogliere i dispersi ed offrire loro asili e conforto. Ne era costernato, ma confermava, infine, la propria decisione di affrontare quel calvario al fine di proteggere quell’anima infantile. Vagliava il suo comportamento, combattuto tra la missione evangelica e la responsabilità assuntasi, due anni prima, nei confronti del piccolo. Sovrastato da tali pensieri innervati tra di loro, l’uomo giunse in vista di un bosco dove, affaticato, vi sostò per riposare.
L’essere nativo di quei luoghi non creava in lui problemi di orientamento e ciò induceva il suo istinto montanaro a percorrere quella distanza dal campo profughi in una direzione, pressoché, rettilinea, con l’accortezza di evitare strade tortuose e molto in vista. Verso sera, individuato un precario rifugio, tra due grandi massi e dopo un frugalissimo pasto, stesa la coperta, accolse tra le braccia il piccolo Cecchino che, dopo una conversazione dai molti quesiti si addormentò in apparenza, sereno, al solito canto nenioso e modulato di don Matteo.
Era quello uno tra i momenti più gratificanti per lui da quando gli era stato affidato.
Al nuovo mattino, un timido sole scardinò le pesanti palpebre del prete gravate da insana fatica. Come per tutti i suoi giorni di sacerdozio, don Matteo si adoperò per celebrare Messa e lo fece su un umile altare. Un silenzio immaginifico aleggiava sul luogo. Cecchino, assonnato e disteso osservava in silenzio. Quella funzione sacra esercitava, ogni volta in lui, un fascino misterioso.
Rimessisi in cammino ed allontanatisi di molto tornarono ad echeggiare quegli scambi di mortaio tra gli opposti declivi. L’ansietà del prete era manifesta, ma non lo distraeva dalla sua meta. Si affidava alla Provvidenza divina.
Due cavalli immobili nel paesaggio, certamente smarriti, brucavano, lontani, una rada erba. Merletti di neve infioravano le asperità di quel luogo desolato, finché in quel mortale dialogo, ch’era ripreso, non s’inserirono secchi colpi di petulanti mitraglie.
E, di lì a poco, due granate, per chiari errori di calcolo balistico, vennero a scoppiare non molto lontano da loro. Ciò mise in apprensione don Matteo che, tra l’altro, dovette rendere fantasiose spiegazioni al bimbo.
Il confine di Stato era ancora molto lontano, ma percorso l’intero altopiano, sarebbero stati in vista dell’accampamento da raggiungere in pianura.
Ora Cecchino, pur dalla sua privilegiata postura sulle forti spalle di suo padre tornava a frignare adducendo i più disparati motivi ed esigenze fisiche. In realtà, desiderava togliersi da quella costrizione fisica per caracollare libero come un puledro. Don Matteo, interrotti i salmi recitati mentalmente, scese il bimbo che si diede ad una corsa, mista di saltelli, come un grillo.
Erano trascorsi tre giorni dalla partenza e don Matteo accusava evidenti segni di stanchezza. La irrequietezza del bimbo, quel giorno, lo aveva costretto a diverse soste più prolungate che, tra l’altro, avevano posto fine ai resti di cibo. L’acqua residua era destinata a Cecchino. Il percorso, ora, s’intervallava di ripidi pendii.
Al mattino dell’indomani, come da rituale di uffizio, don Matteo, apprestato il suo misero altare, compiva il suo sacrificio religioso, interrotto, in parte, dal lagnoso risveglio di Cecchino che chiedeva di mangiare. Il sacerdote, immerso nel mistero del suo rito liturgico, non prestava ascolto alle sue richieste che, presto, si trasformarono in pianto dirotto.
Nella celebrazione religiosa soffusa di misticismo, il prete, nella contiguità della funzione, giunto all’Eucaristia, prese la sua ostia per comunicarsi, rivolse con fervore il suo pensiero al Creatore, affidandoglisi. In quell’istante, come da suggerimento divino, la sua mente fu illuminata da un’idea. Un’idea che in altra situazione avrebbe costituito sacrilegio adottare, ma che in quel particolare momento costituiva un giustificabile motivo: avrebbe offerto al piccolo affamato il Corpo di Cristo.
Così, con dolcezza paterna, invitò il bimbo a cibarsi delle particole contenute nella pisside. Era un tentativo, forse vano, di sedare la sua pressante richiesta di cibo. Il bimbo, smarrito, ma rincuorato da quel sorriso paterno ne cominciò a prendere con timidezza. Non le trovò di suo gradimento. Masticava e rivolgeva occhiate perplesse ed interrogative, finché, spinto dall’esigenza fisica, tornò a prenderne fino a riempirsi la bocca. Pur trovandole insipide si acquietava lentamente confinando i singhiozzi, mentre l’uomo, rinfrancato dall’esito, recitava, sottovoce in latino: “Prendete e saziatevi, questo è il mio corpo”. Infine, attratto a sé il piccolo, lo baciò in fronte. Un sorso d’acqua suggellò quel pasto particolare.
Rimessisi in piedi, don Matteo iniziò a riporre nello zaino quanto era servito per la notte ed i paramenti sacri. I due, mano nella mano, canticchiando, ripresero la traversata lasciandosi alle spalle quel luogo da incubo.
Due uccelli neri, dalle grandi ali li sorvolarono da presso allontanandosi in giù verso la vallata.
Iniziati pochi passi, diretti verso il declivio da dove avrebbero goduto della visione del campo oltre confine della vallata, echeggiarono, secche nell’aria, due fucilate in rapida successione.
Il sacerdote, colpito alle spalle, cadde in ginocchio trattenendo la mano del bimbo. Vi rimase qualche secondo, ad occhi sbarrati, finché non crollò in avanti insieme al suo cielo.
Cecchino, indenne e smarrito, che non collegava gli estremi di quell’evento mortale, chinatosi sul corpo del sacerdote, iniziò ad invocarlo sottovoce. Rimasti vani tali richiami innalzò allora un lamento crescente che sconfinò in un pianto accorato. Scosso dai singulti, cominciò a scuotere quel corpo esanime sulla neve. Sconoscendo il mistero della morte, abbinava l’immobilità del padre ad un improvviso abbandono.
Come comparsi dal nulla e materializzatisi d’incanto, apparvero due uomini in tuta mimetica, distanziati da altri tre. Si avvicinavano silenziosi e circospetti come felini in agguato attraversando una macchia di sterpaglie.
Una voce dal timbro forte, adusala comando, indirizzata al bimbo, non ebbe riscontro. Cecchino, immerso nella sua tragedia, non udiva. La voce perentoria del militare tornò a ripetersi ottenendo nient’altro che accorati singulti e frasi smozzicate.
Il bambino, rigiratosi a scuotere quel corpo privo di vita, con caparbietà infantile, non volle rispondere alle domande dei militari, né voltarsi versi quei carnefici.
Un colpo di pistola mirato al capo abbattè Cecchino sul corpo di suo padre.

Roma, 1999


I gatti di don Benedetto

Il “Capo”, a Palermo, è un quartiere che occupa un’area vastissima compresa tra l’ex Cassaro e Porta Carini.
Anticamente costituiva il quarto occidentale della città, oggi caratterizzato da un fitto reticolo di vie e vicoli confluenti nelle due strade principali del quartiere.
La vita del “Capo” è lunga e assai ricca di riferimenti storici che hanno contribuito alla storia patria della città.
Si formò durante la dominazione araba dell’XI secolo e costeggiava il fiume Papireto, oggi inesistente, che tagliava la città in due parti distinte.
Ricco di chiese firmate da illustri architetti di varie epoche ha sempre accolto gente, per lo più, di basso ceto. E’, pertanto, una delle zone più popolari della parte antica.
Il suo vasto mercato alimentare è gemello dell’altro, più rinomato, la “Vuccirìa” e, come esso, dispiegandosi su due assi viari che s’intersecano sfoggia ricchezza e bontà di prodotti, esposti, all’aperto, nella più accesa fantasia.
Come l’altro è meta di turismo e servizi giornalistici stranieri per la sua rinomanza internazionale.
Una delle tante vie che vi convergono è la via Celso, così chiamata, si afferma, per l’esistenza, pare dimostrata, di un grandioso gelso, nel secolo XVII°, al suo congiungersi con la centrale via Maqueda, ad un passo dagli arcinoti Quattro Canti.
In tale via, prima e durante l’ultimo conflitto mondiale viveva in un angusto spazio a pianterreno, adibito ad abitazione e bottega, don Benedetto, un ciabattino filosofo, noto in tutta la zona che, puntualmente, alle otto del mattino, sorbito il suo caffè e posto il suo banchetto dinanzi il proprio uscio, iniziava il suo misero ed utile lavoro di rivitalizzazione di vecchie calzature esauste che non chiedevano altro che di essere buttate, ma che egli con una perizia unica ne procrastinava la data.
Nel quartiere, Mastro Benedetto, cui competeva tale titolo per acclamazione popolare, era considerato persona saggia da ascoltare, la cui “verve” dialogistica era tanto apprezzata da disoccupati e scansafatiche.
Il fatto, poi, che avesse soggiornato in gioventù per circa dieci anni negli Stati Uniti aveva accresciuto quell’aura di uomo navigato che avendo visto tanto ed acquisito esperienze (a sentir lui) gli avevano arricchito una personalità non comune ch’era piacevole ascoltare tra una risolatura ed un intervento invisibile su una tomaia.
Poteva, tra l’altro, sciorinare un canto intero dell’Inferno dantesco come di liriche del Carducci o del suo preferito Pascoli. Non gli mancavano, infine, opinioni chiare sulla politica del suo tempo e a causa dei suoi accese critiche alle istituzioni statali, in quegli anni ’30, aveva soggiornato per ben due volte al Carcere cittadino dell’Ucciardone.
Mostrava, inoltre, una vera competenza in materia di calcio. I suoi concetti tecnici e le sue strategie affascinavano l’attento uditorio che, certamente, gli avrebbe affidato la conduzione della sua squadra del cuore: il Palermo, che tranne una breve permanenza in serie A, si era radicata in B. Di esso sciorinava, financo, le formazioni degli anni trascorsi, sostenuto da una gagliarda memoria, insieme a particolari episodi ormai affidati alla storia sportiva.
“Mastru Binirittu”, com’era chiamato per elezione corale era persona molto nota al Capo, tra artigiani del legno e piccoli bottegai. La sua figura di petulante filosofo di vita che non lesinava massime di grandi figure del passato era ricercata, oltre che per la professionalità artigiana, per la sua chiara umanità.
Il conflitto mondiale che precipitò l’Italia del ’40 in un periodo di stenti e privazioni spinse quel quartiere nella più profonda miseria anche umana degradandolo del tutto.
I bombardamenti aerei anglo-americani, a tappeto sulla città, avevano aperto squarci dolorosi, tuttora visibili, da provocarne l’evacuazione pressoché totale dei suoi abitanti verso la periferia e paesi del circondario urbano.
Ruberie e tant’altro di ignobile intristirono quella zona palermitana da declassarla a luogo di meretricio ed asilo di sbandati.
“Mastru Binirittu”, con l’incalzare di quei bombardamenti distruttivi aveva iniziato, con sua moglie Erminia, a condurre una vita assai grama, sul filo dell’indigenza più nera. Erano giunti giorni tristissimi in cui le loro bocche non trovavano cosa masticare. Quella misera clientela era scomparsa del tutto, sfollata fuori città e sua moglie, a causa di tali privazioni aveva riacquistato, a caro prezzo, una linea fisica invidiabile. Per attaccamento morboso al suolo natio non avevano voluto abbandonare la città pur sconvolta ormai dagli eventi bellici, sopportandone con fatalismo ogni evento.
Di don Benedetto occorre porre in evidenza un’altra sua caratteristica peculiare che gli conferiva un alone di autentico maestro di cucina per la sua competenza culinaria che, in tempi grassi, aveva dimostrato. Diversi erano i piatti in cui si era esibito con parenti e amici, ma quello che lo inscriveva nell’alone di autentico “gourmier” era il suo “coniglio alla cacciatora”. Chi lo aveva gustato ne serbava un ricordo incancellabile, perché vi si riscontravano fusi nei sapori, gusti orientali e sapienza antica. E di tale maestria, in tempi felici, se n’era trattata tanta in casa sua, di domenica e nelle feste comandate, da stimolare anche le papille dei vicini di casa.
E’ ben noto che il corso del conflitto mondiale volgesse al peggio in breve tempo, in tutti i sensi, con le conseguenze del caso. Le ristrettezze economiche presero il sopravvento e la popolazione ne subì l’angosciante peso. La scomparsa dei clienti, poi, fu, per don Benedetto, fatale. Ogni giorno nasceva il problema di cosa mettere sotto i denti. Fu la miseria più totale.
Malgrado tutto egli era risoluto a non abbandonare la sua abitazione e sfollare lontano.
Una mattina di quei giorni dolorosi in cui il suo languore allo stomaco fu più prepotente si sorprese ad indirizzare uno sguardo interessato al suo Piricù, un macilento gatto soriano che in una visione distorta come da specchio concavo, fu da lui visto come coniglio olezzante in casseruola. Repressa, a stento, quell’idea assassina attese che sua moglie uscisse di casa alla ricerca di qualcosa da masticare, dopodiché i suoi sguardi famelici sul felino concretizzarono una vera aggressione.
Con la morte nel cuore, dopo averlo spellato e squartato e posto a macerare in un bagno di aceto, attese il ritorno della moglie alla quale, con un giro di parole velate, espose con le lacrime agli occhi il suo misfatto.
Piansero insieme calde lacrime finché la fame non li ebbe ricondotti alla realtà quotidiana. Quella misera abitazione era tornata così ad olezzare come ai vecchi tempi, al punto da incuriosire i pochi vicini. Certi effluvi dimenticati erano rinati. Piricù, ben gustato, pur con mestizia, era servito a placare, dopo tanto tempo, i latrati dello stomaco per due giorni.
Quel pasto particolare ebbe un seguito per la interessata caccia notturna, tra le macerie, di don Benedetto che trovò in essa un sostentamento alla loro fame stralunante. Ma gli effluvi di quell’abitazione incuriosì il vicinato dal quale nacquero felicitazioni non disgiunte dalla curiosità su quelli che ritenevano conigli. I Casagrande borbottando di regalie parentali non convinsero del tutto: Sarino, loro dirimpettaio che incarnava per antonomasia l’affamato, perspicace più degli altri, associando quelle fragranze alla sparizione sistematica dei felini della zona, scoprì presto gli atti sacrificali di “don Binirittu” provocando una chiara repulsione che, però, aprì un uguale caccia al felino.
Ma, caso strano, soltanto i Casagrande, per la restante loro breve vita spentasi sotto le macerie, rimasero soprannominati “manciaatti” (mangiagatti).


Gran “soirèe”

La gente agghindata di stoffe pregiate sciamava nell’ampio salone d’ingresso del Teatro dell’Opera.
La passerella esibizionista vorticava su se stessa nello sfolgorio più acceso. Aleggiava un’aria densa di raffinate profumazioni.
Visi sconosciuti, ma soliti, caratteristici di tali impegni mondani roteavano come foglie autunnali; visi severi, ameni, d’ogni genere, si cercavano con occhi voraci per catturarsi.
Tra tanta boscaglia umana, folgorato da un lampo di luce inventata, l’intravidi nel vezzo della sua chioma scossa da malcelata malizia.
Incenerito dalla sorpresa la ravvisai più per il suo gesto muliebre del capo che per la fisionomia che mi era impedita di distinguere.
Qualcosa mi si arrampicò dentro.
I nostri sabati, da tempo, non s’incontravano più; sgusciavano come anguille di fiume. Uno stormo di pensieri, affastellati come pira sacrificale, tornava a mordermi l’anima con l’antico dolore che credevo sopito.
Quella testa s’ergeva, tra tutte, come isola corallina che custodisse il suo scrigno segreto nell’insignificanza di quel sottobosco umano.
Dondolava. Assentiva. Era partecipe di un dialogo a me estraneo; sussultava nella risata più solare o s’impietriva nell’ascolto.
Sembrava mostrare un’attenzione astratta verso chi le parlava con deferenza opponendomi quella capigliatura venerata che tanto avevo blandito. Credevo di suggerne, con memoria antica, i fremiti dei suoi assenzi e dinieghi, a me arcinoti.
In quell’atrio sfolgorante fui colto, così, da un calo improvviso di quel sonoro umano per il salto memoriale di un tempo consegnato che credevo una pagina non più sfogliabile.
Come in un film muto, in dissolvenze incrociate, cominciarono a scorrermi nelle sequenze di una pellicola consunta, color ambra, le immagini di brani del nostro vivere, tra singulti e gioie che ci avevano inondato l’anima.
Le altre teste della folla, dai movimenti a scatto, quali marionette del teatro quotidiano, cercavano la conferma del proprio “io c’ero”.
Nell’aria greve di quella pletora loquace vorticavano, ancora, le note tormentate di uno Chopin irraggiungibile.
In me sbocciavano le viole di un’amara nostalgia.
Ma un richiamo perverso della mente, attraendomi in una spirale voluttuosa mi spinse, d’istinto, nei suoi pressi come a ricercare quella sua fragranza che s’era incastonata in me.
Mi mossi a fatica nella sua direzione nell’attimo in cui il suo capo, roteando su se stesso, s’incorniciava nella mia direttrice.
Quella chioma di puledra altera corredava tratti somatici a me sconosciuti. Mi aveva beffato.
Non posso affermare di non averla riconosciuta.
Non era lei.

Marzo 2001


Il “Vulcania” degli emigranti

Don Masino Maggiore giunse al porto di Palermo in stato di agitazione.
La sua vecchia “Balilla” aveva fatto le bizze sin dalla partenza da Bagheria, finché, tra Ficarazzi e Ficarazzelli, alla congiuntura dei due agglomerati urbani, si era fermata del tutto con il radiatore in ebollizione. Ciò comportò il ritardo con il quale giunse allo scalo.
Lì, dopo aver chiesto ad un finanziere il molo d’ormeggio del “Vulacnia” vi si diresse a piedi, ansante.
Il maestoso piroscafo di ventiquattromila tonnellate s’ergeva in tutta la sua possanza riducendo a minime le dimensioni delle altre navi alla fonda.
Tanta gente stava su quel molo già da diverse ore: viveva con i propri cari in partenza i momenti dolorosi di un distacco, forse definitivo. Le raccomandazioni, le più disparate, s’incrociavano tra carezze e sguardi languidi. Il brusio di quella calca festosa e triste rendeva palpitante l’idea del “porto delle illusioni” dove iniziavano viatici dolorosi e carriere brillanti, speranze coltivate con il sole in tasca e promesse cosparse di sale e miele. Da lì si alzavano le insegne delle nuove stagioni di vita.
In disparte, sul molo, i bagagli di quei miseri, su cui mani malferme avevano tracciato indirizzi anche con il gesso, stavano affastellati, accomunati da un’eguale povertà segnata dai cordini a croce su di essi. Quali nidi protettivi, contenevano, oltre all’essenziale in fatto d’indumenti, anche brandelli di sapori che mai più, forse, sarebbero stati risentiti.
Si sapeva di emigranti che portavano con loro origano, capperi, piccole bottiglie di olio di oliva, mandorle verdi appena fruttate e, financo, sale da cucina, pur sapendo delle drastiche regole americane che vietavano cibarie di qualunque genere e che, pertanto, sarebbero state sequestrate all’arrivo a Ellis Island. L’incognita del mondo nuovo li induceva ad alimentare la lusinga di un distacco culinario graduale e meno traumatico, almeno, per i primi giorni di permanenza.
I facchini portuali avevano cominciato a trasferirli, per una scala secondaria nel bagagliaio della nave.
Erano trascorse le cinque pomeridiane di una calda giornata di Maggio del 1936.
La nave di milletrecento passeggeri di terza classe e di cinquecento tra prima e seconda, scaldava i motori da diverse ore, quando, preceduto da un sibilo tra i fumaioli, s’alzò un rauco e possente fischio di sirena, pur se brevissimo.
Don Masino, ormai nell’area portuale d’imbarco, posteggiata la sua capricciosa “Balilla”, s’avviò, a passo svelto, verso il piroscafo reggendo in mano un fagotto a quadri bianchi e rossi. E chi si fosse messo sulla sua scia sarebbe stato preso nelle spire di un effluvio di cibaria pregiata racchiusa in un porta vivande di alluminio che, come scrigno, conteneva un fragrante timballo di pasta al forno, degno della migliore gastronomia siciliana. Sua moglie Cristina, apprezzata sacerdotessa del pianeta culinario aveva preparato quella goduria che, se la si fosse scoperta, avrebbe profumato l’intero scalo.
Don Masino giunse trafelato e con le mani unte di grasso per i suoi interventi sul motore dell’auto.
A distanza, aveva notato che sul molo d’imbarco, sotto la nave, sostava una tale folla da ventilargli l’impossibilità di salutare suo nipote Filippo e la sposa, freschi di nozze. E che, forse, non avrebbe più rivisti. Cercò, dunque, d’individuare, tra la folla, volti a lui noti cui chiedere notizie. Ma invano.
Non gli restò che osservare quella gente che, fondendo effusioni e mestizia, condensava tanta caratteristica italiana.
Masino Maggiore si appressò con riluttanza a quella calca da cui si elevava un forte brusio, pur conoscendo i propri limiti in fatto di folla.
Fu colto, infatti, dallo sgomento che si conosceva, per cui se ne ritrasse restando ai bordi. Sentiva, in tal modo, che non avrebbe potuto consegnare quell’omaggio. Se ne addolorava, restando, collo in su, a scrutare in tutte le direzioni.
Rifletteva. Gli sarebbe bastato trovarsi dinanzi un volto conosciuto a cui chiedere notizie degli sposi. Cosa che avvenne subito nella persona del Segretario Comunale, il ragioniere Calì, che affermò di averli intravisti, ma… con quella folla!
Sconsolato fu sul punto di arrendersi. Una rabbia repressa gli si stampò sul viso. Farfugliò frasi d’ira e guardò altrove dove notò una scala d’imbarco dismessa sulla quale montò subito roteando il capo a destra e a manca. Da quel punto di osservazione credette di essere favorito.
Ma non valse a nulla. Notò, invece, per il suo innato senso di curiosità, le caratteristiche comportamentali di una massa umana in simile occasione: gli abbracci significativi per un distacco, forse, infinito, le risate forzate e le lacrime accorate che rivelavano un intimo dolore contenuto a stento. I partenti, poi, si distinguevano per la figura che assumevano: dritti, quasi immobili, abbracciati da due familiari, con la mente vaga sul mare inquieto dell’insondabile.
Tanti erano i bimbi sollevati in cielo per un ultimo saluto.
L’osservazione di quei comportamenti umani stimolò la sensibilità di don Masino che si sentì avvolgere da un fascino maligno. E, tra mille riflessioni, ebbe la mente insinuata da un’idea perversa: la vicenda umana del “Fu Mattia Pascal” che gli sovvenne imperiosa mentre considerava la propria capacità di annullarsi tra quella gente in partenza.
Sentiva prepotente il desiderio di consegnarsi all’anonimia annullando, di un sol colpo, la propria vita di stimato funzionario del Comune.
Quell’atmosfera di distacco gli squarciava dentro l’ordinato giardino del vivere quotidiano, ma n’era tormentato.
Un gran respiro lo riportò alla realtà.
Tutto, in quel momento, contribuiva a rendere tesa quella separazione, anche per l’eccitazione che produsse un altro poderoso e rauco fischio di sirena unito ad una voce chioccia di altoparlante che invitava i passeggeri, distinti per classe, ad accedere all’imbarco attraverso le rispettive scale. A quel punto s’alzò un vocìo, superato da alcuni urli angoscianti.
Gli abbracci si moltiplicarono, i bimbi tornarono a stamparsi in cielo per un ultimo bacio e, così, la massa emigrante, staccandosi dai familiari ed amici, s’avviò, in silenzio, per le due scale di quel mostro metallico.
Il filo del sogno americano cominciava a dipanarsi proprio da quel momento. Saliti tutti e le scale distaccate, si diffuse un silenzio doloroso, irreale, spezzato soltanto da isolati richiami di chi, tra la folla, non riusciva a reprimere la sofferenza del distacco.
Masino puntò lo sguardo su ogni viso affacciato a bordo nave alla ricerca spasmodica di quelli dei nipoti, finché, quei suoi sforzi non vennero premiati. S’affannò, allora, di salire su un montante di quella scala per urlare i loro nomi a perdifiato.
Erano proprio loro, gli sposi, che si accorsero della sua figura inerpicata su quella scala e che si sbracciava con gesti roteanti per attrarne l’attenzione.
Masino se ne rallegrò e sollevato sul proprio capo quel fagotto a scacchi lo mostrò loro con aria contrita. Il gesto fu capito e ricambiato con altri di ineluttabilità.
Un senso di sconforto pervase l’uomo quando ad un altro vibrante fischio di sirena corrispose un impercettibile distacco del piroscafo dalla banchina. Gli urli dei saluti tornarono ad incrociarsi insieme allo sventolio di candidi fazzoletti, simile ad improvvisa elevazione di uno stormo di colombi. Che durò sino allo stagliarsi della nave all’imbocco del porto allorché si svigorì come spuma sull’arenile.
La gente cominciò a sciamare lentamente in rivoli verso l’uscita dello scalo marittimo tra mestizia e qualche risata.
Don Masino Maggiore, in evidente stato depressivo, salutati alcuni parenti intravisti pochi minuti prima, volle rimanere da solo evitando d’immettersi in quella massa opprimente.
A passo lento, raggiunta la sua malconcia “Balilla” vi si sedette al volante. Posò il fagotto sul sedile accanto e rimase in riflessione. Ma presto, nell’abitacolo, si diffusero gli effluvi di quel pasto. L’uomo allontanò da sé la vaga prospettiva di un pasto fuori orario, ma l’olezzo di quella goduria cominciò a circuirlo ammaliandolo.
Un colloquio muto s’instaurò tra i due.
Fuori, un tramonto di fuoco tingeva Monte Pellegrino. Pochi gabbiani volteggiavano in lente volute su quel tratto di mare. La gente era scomparsa del tutto. Si erano accesi i lampioni.
Don Masino, geometra al Comune di Bagheria, dopo una prolungata meditazione sui valori della vita, sul destino dell’uomo e, financo, sul miraggio impossibile di una sua sparizione, sollecitato da quella fragranza, avvertì un languore insinuante allo stomaco. Stava per mettere in moto l’auto quando capì ch’era li per cedere a quella provocazione, per cui, slegato il fardello lentamente, se lo pose sulle ginocchia. Svitato il coperchio fu investito da un effluvio a lui ben noto. Si guardò d’intorno e constatò di essere rimasto solo, lì, sotto la luce fioca del lampione. Prese una delle forchette che gli si accompagnavano e l’affondò con forza nel timballo.
Quell’espressione amara che gli si era stampata in viso per il mancato recapito fu presto mitigata da un’altra di magnificenza allorché iniziò a magiare.
Degustava in santa pace, assaporando ogni boccone in piena beatitudine quando gli sovvenne che quella sera, al Cinema Nazionale del paese davano il film “Non ti scordar di me” con Beniamino Gigli.
E si affrettò a finire.

Febbraio 2002


N.B. “non spedire”

E’ vero. L’autunno dei nostri luoghi della memoria sembra giungere a passi chiodati. Ed ogni profilo, intenerito dalle ombre del crepuscolo, viene a delinearsi in una mobilità corruttrice.
Il silenzio ovattato che proviene dagli abissi del tempo stanca tutti. Gli appunti di memoria celati nei forzieri della mente sono illusioni che ci aiutano a vivere; occorre, dunque, fuggire dalla favola della vita con il fardello delle ombre dei nostri dubbi. Tutto si vestirà di novembre mentre l’altra parte del cielo accenderà nei tardi pomeriggi i nostri capelli.
La storia che abbiamo vissuto senza goderla ha reciso i nostri passi: ed io che vorrei rubare nelle tue viscere sensazioni d’anima resto a sognare di destarmi nell’alba cerulea per vedere al davanzale fiori insanguinati.
Sono queste, pagine che non potranno più essere voltate: resteranno tra muschi vellutati, incise come lapidi lungo il sentiero della nostra esistenza. Ghiaccerà, così, l’inferno delle nostre passioni calando come sipario sul nostro panorama umano.
Ed adesso che sentiamo morirci addosso questo autunno che spegne le nostre euforie contiamo soltanto su una carezza d’ala d’angelo che potrà consumare le nostre malinconie… Le stagioni della vita ci inseguono, tracciano i profili delle nostre idee e come ombre di nuvole ci segnano di distratte carezze.
L’ultima rosa del giardino è appassita. Il cortile senza ombre ci restituisce le malinconie di un tempo e chi possiede il sole delle idee potrà bussare forte alla mente degli altri. Gli odori genuini, i rumori artigianali che sembrano abbattere il tempo delle distanze e dei ricordi sembrano germogliare tra le spalle della notte.
Un orrido sublime si spalanca ai nostri piedi come cratere senza magma.
E’ lì che svuoteranno le nostre menti e vi deporremo anche i nostri abbandoni. Dal lago inquieto del nostro inconscio basterà non farsi trafugare il futuro per accendere alle speranze della vita.
Gli accesi colori degli anni trascorsi in armonia, le tristezze, i pianti accorati s’alzeranno con monito ai propositi futuri per sfiorare paradisi sommersi.
Dai giardini dell’anima scompariranno le ombre senza colore dove la vita rischia di sfiorire e le statue della ruggine al naso ci somiglieranno di più.
I ricordi polverosi, accatastati nei soffitti della mente canteranno gli inni del dolore. Basterà allontanarsi in silenzio da tale luogo dell’anima per non assistere allo scempio del ricordo.

Marzo 2002


Un uomo da raccontare

La miseria del professore Tabbet, dopo il 1938, divenne, presto, infinita. Ma non s’intenda di quella morale, della quale n’era esente per umanità e cultura, bensì di quella materiale, classica, del barbone avvinazzato.
Il dipanarsi della sua vita tranquilla, levigata tra l’insegnamento e la passione per il cinema si era, d’improvviso, spezzato scorrendo sul filo di una dolorosa tracimazione che lo portò ad erodere i pochi risparmi accantonati con lungimiranza; e che lo spinse, inesorabilmente, all’emarginazione da una società a cui aveva dedicato la sua cultura.
Le sue vicende esistenziali erano state stravolte dagli eventi politici. L’Italia aveva concordato il “Patto d’acciaio” con la Germania nazista e per scimmiottarne i provvedimenti antirazziali provvide a sancirne uguali.
Samuele Tabbet segnato da ascendenze ebraiche era stato destituito dal suo incarico d’insegnante di ruolo di lettere e filosofia nei licei e tenuto d’occhio dall’O.V.R.A., la polizia politica.
Tale iattura lo aveva attratto inesorabilmente nello sconforto più profondo sia per l’improvviso taglio al suo sostegno economico e sia perché, staccandosi dall’insegnamento si era sentito mutilato nella sua essenza di vita. Cose che lo scaraventarono in una china di precarietà dalla quale non potè più emergere.
Svenduto il suo piccolo appartamento di Via della Scrofa, in centro città, dove viveva da scapolo solitario, dopo la morte della madre, e perduti quelli che riteneva suoi amici cadde in uno stato depressivo acuto cui furono consequenziali i tentacoli dell’etilismo.
In un degrado costante di materia e spirito si rifugiò in un agglomerato di diseredati alla Magliana, un quartiere periferico di Roma, su una sponda del Tevere, con uno zaino militare ed una valigia colmi di indumenti personali e libri dai quali non si sarebbe mai separato, subentrando, per poche lire, nella casupola di un altro sventurato che aveva trovato di meglio nei pressi.
Si anonimò tra quei disperati e sembrò esserne stato inghiottito.
Non venne mai cercato da alcuno, nemmeno durante l’occupazione tedesca della città.
Rinvigorito da quell’occasione abitativa, che lo trasse letteralmente dalla strada, trascorse il primo mese a riattare, come meglio potè, quello che eufemisticamente poteva definirsi un’abitazione, con il materiale più eterogeneo raccattato nelle discariche pubbliche che cominciò a frequentare alla ricerca di elementi adatti a conferirle un aspetto, appena dignitoso. Sentì germogliarsi un senso di adattamento che sconosceva, dovuto, forse, alla sua mentalità analitica e selettiva.
Mattoni forati, lamiere ondulate, travi, pannelli d’ogni sorte ed una finestra sgangherata servirono allo sviluppo delle sue idee edificatrici cui furono associate anche quelle decorative. Tutto servì a riproporre quello che chiamò con ironia “cottage”.
Lo squallore del manufatto permaneva ugualmente in quell’accozzaglia rabberciata, ma, infine, evidenziò l’impronta della personalità del suo realizzatore.
Il ritrovamento casuale di alcuni grossi barattoli di tempera celeste cielo, nelle sue saltuarie ricerche in quei monumenti all’abbandono che sono le discariche, valse a tinteggiarlo interamente di quel tenero colore da renderlo di un nitore che sembrò specchiare l’anima di Tabbet, anche se diede l’idea di un sepolcro imbiancato.
Definita la ristrutturazione della quale ne fu orgoglioso, curò, perfino, l’ingresso con una passatoia in rosso, distendendo inoltre, sull’impiantito interno, due grandi, sbiaditi tappeti d’improbabile provenienza caucasica.
Infine realizzò una staccionata in legno che, dipinta di bianco, delimitò, in quel terreno demaniale, i suoi confini abusivi che come in “flash” memoriale riportava a reminiscenze cinematografiche del tipo “Le avventure di Tom Sayer” ed altre di ambientazione medio borghese americana. Provvide, infine, a delimitare uno spazio attiguo di un’ottantina di metri quadri per un orticello comprensivo di un pollaio con tre galline ed un petulante galletto che contribuirono ad arginare parte della sua indigenza.
Quella stamberga rinacque a nuova luce che la ingentilì, anche perché esaltata da velleità decorative che contribuirono, con la svettante canna fumaria sul tetto, a distinguerla tra le altre miserabili che richiamavano alla mente certa scenografia di “Miracolo a Milano” di De Sica.
Quel nugolo di tane umane condensava l’essenza di un’emarginazione sociale cui sia stato apposto il marchio indelebile dell’abbandono a se stessi.
Anche l’interno di quel tugurio ch’egli, talvolta, presentava con funerea ironia come il “passaggio per l’Ade” mostrava velleità d’arredo avendo ridato nuova vita a del mobilio sgangherato.
In tale prova d’ordine che diede a se stesso, certamente, c’era una chiara, sommersa esternazione di riscatto dal cono d’ombra in cui era stato proiettato dalla sorte avversa.
E per combattere l’umidità di quel luogo malsano dove il Tevere crea un’ansa infossata gli nacque un’idea che considerò brillante. Fu, così, spronato all’azione.
Cercò un contatto, in città, con un suo lontano parente del quale conosceva le sue origini di vecchi gestori ed esercenti cinematografici e della sua passione infinita per l’ottava arte che si materializzava in una grande collezione di manifesti cinematografici e foto di scena cartonate, nonché di altro materiale di quel campo. Sapeva, pure, ch’essa era considerata dai cultori una delle più complete e specifiche d’Italia.
Si sarebbe potuto organizzare un vero Museo del Cinema.
Attratto da un’idea che gli ruminava dentro da qualche giorno decise di recarsi a trovarlo.
Si sbarbò accuratamente, si ripulì come potè, e, a gran fatica, attraversando a piedi mezza città giunse in Via Goito, al pianterreno di un palazzo d’epoca umbertina, nei pressi della Stazione Termini dove il parente esercitava l’attività di noleggiatore di films. Il quale, fulminato dall’apparizione del professore tardò a riconoscerne le sembianze e la spiritualità che gli sapeva. Fu, quanto mai, toccato dalle sue vicende e dal suo degrado fisico. Comprese subito la situazione e fu prodigo nelle richieste del parente, pur considerandole strane per l’utilizzo che fu avanzato. Lo condusse, dunque, nel magazzino adiacente dove gli fece dono di un cospicuo numero di manifesti dei quali conservava due o tre copie; poi con fraterna imposizione gli fece accettare anche un po’ di denaro.
Samuele, pervaso di una felicità fanciullesca che non nascose, caricò tutto quel materiale nella carrozzina da bimbo con la quale si era presentato. Ringraziato il parente con un caldo abbraccio si riconsegnò alla sua anonimia.
Quei manifesti, molti dei quali delle dimensioni di 100 x 150 cm., datati tra gli anni trenta e quaranta, erano, in massima parte, di films americani, italiani e di pochi francesi e tedeschi. Che, insieme a tante foto di scena cartonate 35 x 50 cm. lo appagarono di un sogno custodito.
Concretizzavano la bonomia del lontano parente.
Una volta a casa, esausto per quell’impegno fisico che non gli consentì neppure di mangiare qualcosa, si sdraiò addormentandosi.
Nel tardo pomeriggio sollecitato da una frenesia d’amante provvide ad un’accurata selezione di quel materiale per scartare quelli di films meno noti che non avevano lasciato traccia, al fine d’incollarsi al rovescio su quelle pareti e perfino sul soffitto. Gli sarebbe serviti per creare un primo strato cartaceo dovunque, su cui avrebbe incollato quelli preferiti nell’ottica visiva più diretta, specialmente, del suo giaciglio.
Così, dopo un’accurata scelta e due giorni per distendere il primo strato di manifesti, che lasciò disseccare per altri due, iniziò, in una mattina di sole, a posizionare quelli scelti che gli riattivavano antiche emozioni.
Iniziò dal soffitto, in precario equilibrio, a sistemare due del suo idolo, Clark Gable: “San Francisco” e “Accadde una notte”. Pensava così di farsi augurare il buongiorno da lui di cui conosceva tante vicende artistiche ed umane.
Motivo di quell’originale impiego era quello, come detto, di arginare la persistente umidità di quel luogo malsano, ma anche quello antico di potersi crogiolare con la fantasia tra quelle fittizie realtà.
Continuò per diversi giorni, e con fatica, ad incollare quei cartelloni dai quali iniziarono a levitare presenze e scene virtuali che sembravano echeggiare precisi momenti di vita del professore. Personaggi che nella sua mente non più agile, come sogni indefiniti, accrescevano la sua solitudine. Ma tant’era. Aveva realizzato un suo desiderio.
Accanto ai primi due incollò “Resurrezione” con Frederich March cui associò quello di “Ombre rosse” di John Ford con quel fascinoso John Wayne; al suo lato sinistro distese “Angelo azzurro” con la peccaminosa Marlene Dietrich. Accanto a lei campeggiò “La corona di ferro” con quei due disgraziati protagonisti accomunati nella vita reale dal medesimo destino: Osvaldo Valenti e Luisa Ferida che erano stati due dei suoi attori preferiti.
Quel misero luogo divenne presto un sacrario dell’immaginifico che valenti pittori cartellonisti come Martinati, Capitani, Ballester, Geleng ed altri avevano contribuito ad esaltare: rutilanti manifesti che resero più accogliente quel sito anche se vi aleggiò un’aura frastornante.
E, così, Samuele Tabbet, tra le vertigini delle visioni distorte dei fumi dell’alcol, amava ritrovarsi, la sera, nella solitudine più distruttiva, tra l’eburnee braccia di Jean Harlow o abbarbicato alle strabilianti gambe di Marlene, pur sotto lo sguardo susseguioso di un Gary Cooper o di un Tyrone Power.
Quell’originale esposizione di manifesti difettò, però, della presenza di una grande “star” dello schermo alla cui recitazione, pur ritenuta leziosa, Tabbet era stato sensibile. Si rammaricava di non avere Greta Garbo che considerava “l’unica, la divina” e così per il grande Charlie Chaplin che definiva “il grande maestro”.
“Ore nove lezione di chimica”, protagonista la dolce Alida Valli, fu disteso sul retro della porta d’ingresso, mentre nel ristretto spazio sopra la finestra risaltò quello di “Sotto due bandiere” con Ronald Colman che tanta fantasia gli aveva acceso in gioventù.
Qualcuno di tali manifesti fu, ovviamente, tranciato, in parte, da sovrapposizioni necessarie, ma fu salvata la fisionomia dei protagonisti.
Tutta la parete di fronte all’ingresso fu riservata, unicamente, alle foto di scena dove primeggiavano i divi italiani dell’epoca dei “telefoni bianchi”: Vittorio De Sica, Irasema Dilian, Fosco Giachetti, Enrico Viarisio, Umberto Melnati e tanti altri notissimi che restarono fissati nei loro tipici atteggiamenti.
Una stamberga trasformata in un’esposizione permanente di tal genere non era immaginabile in quel favo di misere esistenze.
Divenne il reliquario della memoria del professore da dove s’innalzava un inno d’amore.
E, spesso, la sera, il suo abitante, sbracato in braccio a Bacco suggeva da quelle immagini perfino i rumori fuori campo che si accavallavano, come schegge vaganti, alle voci dei doppiatori, di molti dei quali ne riconosceva la voce: Lauro Gazzolo, Gino Cervi ed Emilio Cigoli erano i suoi preferiti: dolci armonie, abbordaggi pirateschi, tifoni della Malesia, languidi timbri di donne fatali e sparatorie, fusi nella mente ottenebrata di Tabbet richiamavano films visti in gioventù, da studente, allorché sceglieva, per passione di cinema e per evitare una brutta interrogazione in greco o matematica, di chiudersi in un Cinema alle dieci del mattino.
Un posto bene in vista venne riservato a quello del “Porto delle nebbie” che considerava “il film dell’anima” con quell’irraggiungibile Jean Gabin cui si accoppiava l’infinitamente dolce Michele Morgan.
Il professore teneva in gran considerazione la regia di ogni film.
In esso riconosceva la conduzione colta, la svagata, la brillante come essenza del film stesso. Aveva stima di tanti registi che amò sin da ragazzo, come Pabst, Carnè, Vidor ed altri, ma il suo preferito restava Frank Capra, l’italo-americano, bisacquinese, cantore di tante storie poetiche sull’uomo medio borghese americano, dense di significati morali che destavano lo spettatore dal torpore quotidiano per guardarsi dentro alla scoperta dei veri valori della vita.
Questo era Samuele Tabbet, professore di Lettere e Filosofia nei Licei d’Italia, la cui figura, mai armonizzata da una presenza femminile, preferiva circondarsi, anche fuori orario scolastico, dei suoi allievi, tanto da far suscitare false dicerie sulla sua virilità.
Un uomo di cultura e di grande umanità che, come antico pedagogo greco, aveva elargito a tanti discenti lezioni di cultura. Estromesso da una società razziale alla quale aveva contribuito per la sua elevazione. A cui era rimasto, soltanto, Tuffy, un bastardino, pezzato nero, ch’era l’esatta sembianza di quello famoso del marchio della “Voce del padrone”. E, con esso, soltanto la memoria, quand’era sobrio, nella quale si rifugiava macerandosi.
Ad essa si era aggrappato come tralcio di vite fino alla sua misera fine avvenuta, ai primi freddi del ’50, nel rogo del suo… “cottage”.
Un uomo, certamente, da raccontare.

Marzo 2002


Il fiume di stelle

Siamo in pochi al mondo a conoscere le vere ragioni che originarono, in tempi lontani, quella che noi, poeticamente, chiamiamo “Via Lattea”.
In realtà, quelle masse stellari che notiamo nello spazio cosmico delle serene notti estive, in sinuosa processione, non sono ciò che, comunemente, vengono definite materia celeste, stelle o altro similare.
La loro composizione è di tutt’altra natura e qui, anche in sintesi, sarà bene rivelarne l’effettiva conformazione fisica.
Si afferma, infatti, su ponderosi tomi di astronomia, fortuitamente scampati all’oblio, che milioni di anni luce fa, ossia quando tutto il Creato non aveva l’attuale equilibrio e struttura, su Kyros, piccolo pianeta dello spazio celeste, ai primi albori di una torrida giornata, i suoi abitanti si destassero non per loro normalità fisica, bensì, per un diffuso senso d’insufficienza respiratoria associata, in molti casi, a quella cardiaca.
Nel breve volgere degli eventi, i suoi abitanti furono colti da grande panico anche per la tragica visione che si associava al fenomeno. Il loro cielo, infatti, non riusciva ad intingersi nel consueto azzurro del mattino mentre dava manifesti segni di afflosciamento sulle città e sulla natura tutta. Appariva, cioè, come telo appena forato da un malefico chiodo.
Nel trambusto generale che ne era seguito, anche tra gli animali che avevano già dato chiari segni d’insofferenza, ognuno reagì come natura gli dettava: chi si poneva a disposizione delle autorità offrendo le proprie capacità professionali e chi, invece, si rinchiudeva in sé stesso affidandosi alla mistica religiosa poiché in quell’evento tragico ravvisava i chiari segni premonitori della fine del mondo.
Altri, ancora, perdendo il lume della ragione si davano allo sbando per le vie delle città. Vi fu qualche suicidio.
L’allarme fu generale e lo sgomento, impadronendosi di tanti, indicò che se non si fosse provveduto con tempestività, quel cielo dai chiari segni premonitori sarebbe, presto, divenuto il sudario di tutti.
Una luce fredda, tangenziale, unitamente ad un’alba che stentava a sollevare il velo dell’aurora, sembrava proprio presagire l’ineluttabile per il piccolo pianeta.
Le notizie, vere o false, rincorrendosi, s’ingigantivano deformandosi accrescendo ulteriormente lo scompiglio. Inoltre, la luce che non riusciva a forare il lenzuolo del cielo conferiva vieppiù un’atmosfera oppressiva tale da ottundere ogni sana riflessione su come contrastare il fenomeno. Il senso della catastrofe incombeva.
Gli scienziati di Kyros, pur se all’avanguardia in studi cosmici, si dichiararono interdetti dinanzi a simile manifestazione, ma furono concordi nel dichiarare imminente il pericolo di contaminazione da radiazioni cosmiche.
La tensione era al massimo e nessuno tra gli studiosi aveva mai considerato l’eventualità, anche lontana, di tale sciagura.
La gente, intanto, vuoi per effettiva causa, vuoi per autosuggestione avvertiva una crescente insufficienza respiratoria. I ricoveri ospedalieri furono infiniti.
In verità, all’insorgere di tale iattura atmosferica era stata avviata, in modo esemplare, la macchina dell’organizzazione d’emergenza come per le altre rare volte cui se n’era fatto ricorso. Fu, dunque, convocato d’urgenza il “Consiglio dei Saggi” il quale, superato appena un giorno di frenetici consulti con i “Maestri del Cosmo”, organizzò un “Comitato di salvezza” che in seduta notturna approvò, dopo accese discussioni, lo sviluppo di un ardito progetto anche se definito di difficile attuazione.
Fu, così, avviata una colossale macchina di ingegnosi cantieri per realizzarlo. Era stato approvato con urgenza ed era basato su un’apparente semplicità che non nascondeva però pericoli di esecuzione.
Tale progetto consisteva nel realizzare, a tempo di record, quattro ciclopiche opere architettoniche costituite da obelischi dalla vaga sembianza umana, di altezza molto superiore alla mitica Torre di Babele che opportunamente congegnate da meccanismi a noi ignoti si sarebbero autonomamente innalzate ai quattro punti cardinali del piccolo Kyros autorigenerandosi attraverso complessi meccanismi di un sistema la cui formula segreta non ci è pervenuta. Si sa, soltanto, che in un breve volgere di tempo ognuno dei quattro simulacri, soprannominati presto “i giganti” si elevò misteriosamente dalla massa gelatinosa in cui era stata trasformata l’acqua del lago che, per ognuno di essi, era stato prescelto.
Lo scopo mirava a far sì che la contemporanea crescita di quelle amorfe figure raggiungesse un’altezza tale da sollevare insieme il lenzuolo del cielo che inquinato dagli abitanti per un’aberrante sete di profitti tendeva a devitalizzarsi.
Tutto ciò avveniva milioni di anni-luce fa quando la natura, affidata all’uomo in assoluta verginità, immemore di quello incommensurabile dono ne calpestava i valori. Il rischio che tale calamità possa verificarsi qui da noi non è assolutamente improbabile al giorno d’oggi.
Quel colossale piano, pur tra un diffuso scetticismo popolare, ebbe lo sviluppo previsto che concretizzatosi secondo i piani riportò lentamente alla sua naturale posizione il cielo che aveva dato quei segni premonitori.
La vita sociale pian piano si ridestò; tutti si rinfrancarono tornando alle consuete occupazioni. Scienziati, ingegneri, politici e maestranze tutte ricevettero le più alte lodi e vennero dichiarati “benemeriti”. Molta gente, però, restò scossa nella mente per la triste esperienza vissuta.
Naturalmente quei “giganti” furono visibili da ogni punto cardinale di Kyros perché esso, diversamente da tanti altri corpi celesti, rientrava nella categoria dei “pianeti piatti”, diverso, cioè, da tanti altri di diversa conformazione fisica.
Kyros così subì quella trasfigurazione panoramica che ne svilì per sempre la sua configurazione.
Quello fu l’amaro prezzo pagato.
L’aria, comunque, tornò ad ossigenarsi e la luce del sole, filtrando normalmente sugli uomini e sulle cose, tornò ad irrorarlo delle sue virtù rigenerative. L’opacità dell’aria diradò e di quella triste esperienza non rimase che il ricordo di uno smarrimento esistenziale.
Ma quegli abitanti di Kyros non seppero mai che nello spazio di pochi anni luce, corrispondenti ad alcuni nostri secoli, una di quelle abnormi figure, quella, cioè, posta ad ovest del pianeta cominciò a manifestare evidenti segni di cedimento per una riscontrata friabilità del fondo lacustre su cui era stata innalzata.
A distanza di tanto tempo, dunque, veniva a riproporsi, in parte, l’antica minaccia di catastrofe che gli antichi kyrosani avevano subito.
Al fine di scongiurare il pericolo ventilato, memori del passato, tornarono ad affidarsi al “Consiglio dei Saggi” che su indicazione degli “Scienziati del Cosmo”, dopo animate discussioni, decretò un affrettato abbandono di Kyros fidando nella caritatevole accoglienza di altri pianeti.
Fu una decisione sofferta, macerata in contrasti di opinioni e in un regime di chiara indecisione. Ma pur così fu dato l’ordine di evacuazione.
L’esodo doveva avvenire nel più breve tempo possibile sfruttando la loro grande peculiarità di elevarsi in volo così com’erano soliti fare durante le grandi ricorrenze o per curare buoni rapporti di vicinato. In quelle occasioni allestivano con grande maestria dei mezzi di trasporto fantasiosi ricavati dalle nuvole attratte a terra, in groppa alle quali si allontanavano in allegria dal piccolo pianeta.
Tale loro comprovata abilità rassicurava gli scienziati, per cui fu dato il via ad una colossale organizzazione. Tutti gli uomini valenti furono impiegati nei vari settori dove vennero loro affidati compiti e responsabilità. Si avvicinava, fortunatamente la stagione dei venti cosmici che portava soffici strati di nuvole sopra Kyros per cui la loro attrazione fu facilitata.
Un grande fervore prese tutti, consapevoli di contribuire alla propria salvezza.
Di tale sistema di attrazione non ci è pervenuta notizia certa; resta il fatto che tanti di quei cirri servirono alla bisogna. Ovviamente i kyrosani furono meno inclini a curare il lato estetico di quei mezzi aerei che, comunque, poterono accogliere gran numero di persone. Una vera lotta fu ingaggiata con il tempo.
In poco più di due settimane di massacrante lavoro, con il contribuito di tutti, fu allestito un gran numero di mezzi d’imbarco sui quali, nel breve volgere di due giorni fu fatta accedere, ordinatamente, l’intera popolazione, grandi quantità di cibo in pasticche e liofilizzato e molte coppie di animali commestibili.
Si sa, pure, che un certo numero di vecchi kyrosani rifiutò con fermezza di abbandonare il pianeta per affidarsi ad un’avventura senza un finale certo. Vi furono, dunque, scene strazianti tra i partenti. In quei vecchi c’era, senz’altro, scetticismo per quell’impresa ed anche un mero fatalismo.
Così, nella gloria di un mattino brezzoso, le macchine eteree dalle forme più strane come grandi uccelli, velieri, carri ed altra configurazione contenenti un’umanità sventurata, tolti gli ormeggi, si sollevarono lentamente dando inizio ad un volo planato illuminato tangenzialmente da una dolente luce solare che filtrava a stento.
Aveva inizio, come nella dissolvenza di un sogno malefico, quell’esodo. Recenti studi internazionali di astronomia hanno ricostruito anche se in forma leggendaria, attraverso antichi tomi pervenutici, quell’evento unico nella storia dell’uomo e qui occorre spiegare le fasi angoscianti dell’esodo e a che cosa andò incontro nella millenaria peregrinazione. Perché tale divenne il loro volo attraverso gli spazi siderali dopo tanti approdi tentati e respinti presso i pianeti vicini.
I motivi addotti furono tanti, fantasiosi ed improbabili.
I pianeti con i quali erano stati intessuti rapporti di buon vicinato tradivano i legami di fratellanza.
L’immenso corteo di quei fantasmagorici mezzi iniziò, allora, a vagare senza più meta affidandosi a quella sorte ch’era scritta nel libro delle divinazioni, lasciandosi dietro una concatenazione di lamentosi richiami. Furono raggiunti, anche, pianeti disabitati, ma non furono ritenuti idonei dagli scienziati per evidenti strati, ad altezza d’uomo, di anidride carbonica.
Quella dolorosa peregrinazione compendiava, forse, il riscatto ancestrale dell’uomo e a nostra memoria basterebbe essere consapevoli di tale sventura. Ma l’uomo resta immemore, a proprio svantaggio, a quantificare sempre più i propri profitti da una natura da sfruttare.
Si trovarono, pertanto, stretti nella morsa di un destino avverso.
Non rimase loro che continuare a vagare senza speranza.
Ecco perché nelle serene notti estive distinguiamo nettamente quel fiume di stelle sinuoso che illuminato tangenzialmente dal sole, appare a noi, nel buio cosmico, come una galassia di corpi celesti immaginifici che noi poeticamente chiamiamo “Via Lattea”.
E’, certamente, una visione celestiale che scioglie la fantasia inducendola alla riflessione.
E’ un corteo di angeli imploranti che cerca, ancora, un approdo fisico e spirituale.
E chi, oggi, volesse udire distintamente le loro angosciate invocazioni che a noi terrestri pervengono svisate in una sorta di nenia ultraterrena basterà che in una languida notte d’estate abbia la fortuna di trovarsi sulle cime più alte del Massiccio tibetano. Lì, come affermano alcuni grandi scalatori, in una elevazione spirituale, quasi distaccati dalla materia terrestre, sarà possibile cogliere gli strazianti richiami che la grande distanza spaziale esalta in qualcosa di misterioso musicale, mai udito da orecchio umano.
Ma perché lo si possa avvertire occorrerà concentrarsi in un partecipe raccoglimento spirituale sorretto dalla stessa sensibilità d’animo dei poeti.

2002


Un amore infinito

Le lezioni del professore Vassily Stephanenko erano particolarmente affollate.
Ogni ordine di posti della grande aula ad anfiteatro dell’Università di Leningrado era conteso sin dall’apertura alle lezioni. Financo le scale di accesso ai posti a sedere erano occupate.
Molti studenti restavano in piedi.
Stephanenko teneva la cattedra di Letteratura italiana ed impersonava la classica figura del Maestro erudito e colto che non ha limiti di conoscenza per una materia.
Gli studenti di quel Corso cui si aggregavano altri di facoltà diverse sorbivano ogni sua parola, ogni detto per la chiarezza e linearità delle sue argomentazioni da cui traspariva un immenso culto per l’Italia.
La competenza riguardante quella sua seconda patria sorprendeva soprattutto per la dovizia di particolari che rendevano palesi le immagini di personaggi sia del Medioevo che del Rinascimento o dell’ 800 italiano; ogni descrizione infiorata dalle sue vive espressioni discopriva il suo immenso amore per il patrimonio artistico e letterario italiano.
Poteva descrivere con la sua voce suadente un artista dell’ 300 fiorentino o il campanile di Giotto, la Cappella Sistina, il Colosseo, il Palazzo dei Dogi come il Duomo di Monreale, la Cupola del Brunelleschi o la Fontana di Trevi, il Cenacolo di Leonardo come gli affreschi di Giotto nei minimi dettagli ed in essi si ravvisava il palpito aulico della venerazione mentre in chi ascoltava in religioso silenzio germogliava il miraggio di una appassionata visione.
Vassily Stephanenko aveva curato i suoi studi di italianistica sin dall’adolescenza acquisendo, oltre ad una cultura specifica una profonda conoscenza delle minuzie caratteriali degli italiani.
Financo del cibo di quella seconda patria ne conosceva le caratteristiche gastronomiche tanto da sembrare averne gustato le delizie.
Conosceva tutti i Caffè letterari d’Italia dove le menti più fertili e rivoluzionarie avevano dato vita a capovolgimenti politici e dove si erano espresse quelle innovatrici delle più alte personalità della letteratura.
Le sue ricostruzioni letterarie di molti ambienti affascinavano.
Ascoltare, dunque, quel piccolo uomo dall’aspetto malaticcio che si esprimeva in tono carezzevole era formativo per lo spirito mentre aleggiava per l’aula un’atmosfera sospesa, colma di interesse.
Ogni fine lezione era salutata da uno scrosciante applauso.
A Stephanenko, sin dagli anni ‘ 30 era stato ritirato il passaporto internazionale per motivi politici, si disse. La sua venerazione per una terra straniera non era gradita.
Vassily Stephanenko, il professore che descriveva l’Italia con la liturgia della parola non la visitò mai.

2005


Un cherubino a Parigi

Dalla notissima Place Pigalle di Parigi sale una via tortuosa; è Rue Lepic che conduce a Montmartre, il quartiere degli artisti dove la musica, la letteratura e la pittura coabitano.
La Place du Tertre è il punto focale di artisti da strapazzo in cerca di gloria radicati con i loro dipinti e cavalletti tra gli stentati alberi della piazzetta.
Il “Au Pichet du Tertre” è uno dei ritrovi di questa gente squattrinata in cerca di calore umano e, d’inverno, di quello fisico dove dinanzi ad un bicchiere d’assenzio pare scompaia il disagio esistenziale che assale chi lotti per sopravvivere sulle orme sbiadite di quei pittori che lì posero le basi dell’Impressionismo.
Il fumoso locale è letteralmente tappezzato di dipinti di artisti che hanno saldato così un lungo conto in sospeso con il proprietario del locale. E sono tante quelle opere che ad occhi in su, è possibile ammirarne altrettante sospese al soffitto, rivolte verso il basso, trattenute da opportuni sostegni.
Tanti artisti come Manet, Seurat, Monet, Toulouse Lautrec, Van Gogh e Gauguin, Matisse e il loro epigono Utrillo vissero il loro brano di vita in tale quartiere attratti dal suo fascino particolare dove le numerose Gallerie d’Arte odorano di vernici e resine delle opere esposte.
La breve Rue Norvins offre una visione ormai classica, infiorata com’è, a distanza, dalle imponenti bianche cupole del Sacré Coeur. Non c’è pittore che non ne sia rimasto ammaliato e non l’abbia ritratta.
Rue Rustique le è parallela e accoglie nelle sue mansarde quegli squattrinati artisti che vivono la loro Boheme tra esaltazione e sconforto, tra idealismo esasperato e vicissitudine umana. I suoi lampioni, a sera, diffondono una luce che giungendo fioca in alto spande alle finestre di quegli studi una luminescenza d’alba.
Le vecchie librerie antiquarie internate negli stretti vicoli espongono delizie grafiche: incisioni e volumi che, pur a prezzo sostenuto, hanno un vivace mercato e cultori d’ogni paese vi trascorrono intere ore alla ricerca sistematica della rarità non notata da altri.
“Le Lapin Agile”, “Le Moulin de la Gallette” e “Le Moulin Rouge”, vicini l’un l’altro, sono i luoghi che hanno consegnato alla narrativa dell’arte vizi e virtù, baldoria effervescente e storie umane esasperate vissute tra interminabili discussioni sui valori dell’Arte.
Quella animata vita artistica è scomparsa quasi del tutto, se n’è sovrapposta un’altra dai valori meno radicati e perciò superficiali. N’è subentrata altra con la prospettiva unica della resa economica in vista dell’afflusso turistico.
Non c’è più un Modigliani con le sue donne e la sua poetessa russa Anna Akhmatova ritratta in nudi memorabili; non tracanna più assenzio e non assume stupefacenti alla ricerca elegiaca della poesia interiore, ne c’è più De Chirico che per la sua presunzione esasperante le prendeva da Picasso irritabile.
Ben altri tempi e personalità si sono sovrapposti con un diverso marchio.
Gli anni cinquanta a Montmartre, tranne che per Bernard Buffet, non sono rimasti nella storia dell’Arte. Non hanno segnato un periodo di fertilità figurativa, cosicché quel quartiere oggi sembra spento.
Gli artisti si sono dispersi tra i vecchi edifici di Montparnasse dai muri su cui campeggiano ancora pubblicità e scritte ottocentesche, tra il Boulevard Saint Michel ed il Boulevard Raspail, tra il “Cafè de la Cupole” ed il “Procope” dove Sartre e Simone de Bouvoir, nonché Prévert e la Greco attorniati dagli intellettuali del tempo posero le basi del movimento letterario dell’Esistenzialismo.
Il “Cafè Procope” dove alla fine del XVIII secolo nacque il gelato per genialità del palermitano Procopio dei Coltelli è ancora un ritrovo di intellettuali di ogni paese e centro culturale. Lì e al “La Cupole” come alla “Rotonde” Modigliani ed altri, negli anni ’20, lesinavano di ritrarre qualche avventore annoiato.
Su tali orme vagheggiò, ai primi anni ’50, un giovane artista siciliano, Placido Marino attratto da tanto nome che, però, volle stabilirsi sulla collina dei Martiri per il fascino particolare e la tanta storia che vi era trascorsa da Georges Michel a Corot, da Gericault a Louis Daguerre il pioniere della fotografia, da Berlioz a Chopin, da Franz Liszt a Eugene Sue, autore del popolarissimo “I misteri di Parigi” fino a Susanne Valadon, madre dell’epigono artista Maurice Utrillo.
Placido Marino, ottenuta in affitto una mansarda sui tetti di Rue Rustique vi alloggiò con le idee non tanto chiare. Ebbe, pertanto, bisogno di riequilibrare i suoi pensieri mentre scopriva il quartiere e la sua gente.
Trascorse più di un mese da solo a confrontare idealmente le proprie concezioni pittoriche con quelle esposte nelle Gallerie. Cercò pure un volto compiacente tra i tanti anonimi a conforto del suo iniziale scoramento.
La tasca gli cantava per le regalie di parenti e amici che avevano creduto in lui e così quel periodo di ambientamento, data la primavera avanzata, gli servì per osservare con attenzione l’umanità che vi risiedeva e, allo stesso tempo, vagliare le occasioni di affermazione che si sarebbero potute prospettare.
Fu così che una sera al “Au Pichet du Tertre” si specchiò negli occhi di Angela Parajso, una bella ragazza portoghese dai capelli corvini e viso ambrato.
Poche parole valsero a leggersi l’anima scoprendo lentamente che si erano cercati senza saperlo: lei, raffinata, in una figura esile, di eleganza naturale, orgogliosa come rosa sullo stelo, con un innato senso di protezione; lui, alto, scattante, pervaso da un’ansia palpitante di cavallo di razza mitigata da un’apparenza rassicurante che celava una fragilità nervosa.
Bastò una sera fitta di rispettive rivelazioni e gli animi furono scorticati in una confessione catartica.
Si attrassero come chiodi alla calamita e furono, poi, giorni volti alla scoperta di se stessi pervasi dalla stessa frenesia del vivere. Poste insieme le scarse finanze, unirono anche i loro destini, lui volto alla ricerca del suo fazzoletto di notorietà e lei, votata a mostrarsi, a bussare alle Case di Moda di Montparnasse per sfilare in passerella.
A Place du Tertre il turista svagato si soffermava curioso tra i cavalletti dei pittori e la rara opera venduta permetteva all’autore un pasto caldo ed un bicchiere di quell’anice sciolta in poca acqua che, ravvivando lo spirito, stimolava la creatività: così si credeva.
Nella mansarda dei due innamorati, d’inverno, il gelo era sovrano, cosicché qualche volta capitò loro di coricarsi vestiti tra le due coperte che possedevano. Il fornellino elettrico acceso contribuiva a mantenere un minimo di tepore in quel nido e spesso si addormentavano abbracciati per darsi reciproco calore mentre i lampioni da giù spandevano nella misera stanza un alone che giungeva loro come l’aurora primordiale che avvolse la terra ai suoi albori. Eppure, d’estate, da quel letto, al buio, spesso s’intravedeva il sorriso di una luna compiacente a conforto della loro indigenza.
Placido, credendo fermamente nel proprio talento artistico continuava a proporre ai mercanti d’arte di Montmartre una pittura che esulando da quella vilmente commerciale aveva tutti i requisiti per affermarsi e fu in tale rovinio spirituale che assistette incredulo ad un evento inatteso: un suo corregionale, artista anch’egli in cerca di notorietà ebbe la casuale idea di dipingere un volto di bimbo, dolcissimo in verità, che gli spalancò d’improvviso le porte del mercato di Montmartre.
Le ordinazioni gli fioccarono al punto da venire imitato da altri con uguale fortuna. Placido se ne avvilì e, seppure sollecitato, non volle concorrere a firmare analoga pittura come “souvenir” parigino. Ne fu toccato, ma continuò a percorrere con tenacia il binario della sua ispirazione su cui aveva adagiato i suoi soggetti. Lo sconforto lo avvolgeva e fu sul punto di abbandonarsi alla tentazione di lasciare il campo pur conscio di dover affrontare il ludibrio di coloro che avevano creduto in lui. Resistette comunque e non volle svilire la sua pittura anche se pressato da una indigenza sempre più manifesta; proseguì con la sua voce artistica inascoltata.
Continuò a dipingere con il cuore i suoi paesaggi lontani, assolati, visti in un inno evocativo intriso di nostalgia per quella natura che lo aveva allevato della quale ne esaltava persino le dune di torrida sabbia in riva ad un mare maestoso infiorate di fichi nani dal frutto mielato e di ginestre fragranti che concorrevano nei giorni uggiosi a lenire una tristezza che si radicava sempre più.
Quella vita stentata tra ristrettezze economiche ed il rifiuto sistematico delle Gallerie li portò presto a frequentare all’alba e a mezzodì con altri artisti i Mercati Generali “Les Halles” dove raccattando resti di ortaggi realizzavano una calda minestra con la mente rivolta ai pranzi domenicali nel calore delle proprie famiglie.
Angela era attratta da quell’artista di cui, in certe espressioni dialettali, coglieva assonanze con la sua lingua d’origine, al punto di percepirne il senso e ciò la legava di più alla sua personalità scontrosa, pronta ad una amara autoironia. Percepiva nei confronti di Placido vibrazioni d’anima mai provate e, invaghendosene sempre più, sentiva germogliare dentro l’idea sommersa di dover provvedere alla sua protezione date le prime manifestazioni di una insofferenza fisica accresciuta da una macerazione d’anima.
Placido si accaniva a dipingere, talvolta, per giornate intere, in una euforia irrefrenabile; dai paesaggi evocati ai nudi di Angela passando d’improvviso a giornate cariche di un’angoscia introspettiva in cui ammutoliva pervaso da un’abulia in cui la mano non si accompagnava al pensiero creativo.
Accadde che nel trascorrere di pochi anni, tra sbalzi di umori ed intime macerazioni, il fisico di Placido tendesse all’esaurimento delle energie vitali insieme ad una certa opacità mentale.
Fu così che un mattino Angela ebbe chiara la sua missione terrena; appena desta da un sonno profondo costellato di sogni nebulosi premonitori di qualcosa che ritenne nefasto, avvertì su di sé, all’altezza delle scapole, due escrescenze cartilaginose dalla vaga sembianza di ali. Sorpresa e incuriosita si alzò di scatto volgendosi al frammento di specchio alla parete dove il suo viso s’illuminò di un radioso sorriso per ciò che scoprì e che le indicava chiaramente la sua promozione, tanto attesa, a cherubino.
Fu tale la felicità che, fremente, non resistette a svegliare Placido il quale, ancora tra le braccia di Morfeo, a sguardo spento, mostrò un vago interesse per l’eclatante novità fuori da ogni immaginazione.
Montmartre, evidentemente, venne scossa da quella notizia e sembrò rianimarsi dal suo torpore. Gli scettici, e furono tanti, incrociando Angela per le vie tendevano a toccare quelle ali già chiaramente manifeste, dopodiché, scuotendo il capo e dandole della mistificatrice si allontanavano mentre lei, orgogliosa ed altera, proseguiva quasi levitando per il quartiere.
Qualcuno arrivò a chiederle se non si fosse prestata per una trovata pubblicitaria; fu addirittura intervistata dal “Paris Macht” ma non volle definire i termini della sua missione terrena né l’origine di quelle ali; in sintesi riferì soltanto del gran dono ricevuto.
Il caso fu certamente eclatante; un angelo o pseudo tale, a Montmartre e nel mondo intero non si era mai visto né sognato. Quelle ali bianche, carezzevoli sulla sua persona evocando quelle di una maestosa aquila o quelle di certi dipinti rinascimentali fecero scalpore.
Altra stampa, anche straniera, s’interessò del caso che però ben presto, superata la novità dell’accadimento, fu dimenticato restando comunque nella “routine” di quel quartiere.
Angela s’inserì così come personaggio in perfetta sintonia con le stravaganze tipiche del luogo.
Placido, intanto, iniziava ad avvertire i sintomi di una grave sofferenza fisica che minandolo di giorno in giorno ne consumava l’energie vitali; con fermezza, però, continuava a rifiutare il ricovero in ospedale. Desiderò soltanto avere accanto il suo angelo custode, come era solito chiamarla, a conforto dei penosi giorni che gli si prospettavano.
Morì all’alba di un livido mattino d’autunno, dopo aver chiesto di baciare una mano del suo cherubino.
Nell’alone di luce dei lampioni di Rue Rustique avvenne il trapasso.
Al dolore di quella scomparsa sofferta in silenzio Angela Parajso associò la conclusione della sua missione terrena. Assorta in tale riflessione le sembrò d’improvviso di cogliere un frullare d’ali alla finestra; due colombi s’erano posati lievi sulla cordicella per il bucato rimanendo immobili rivolti verso l’interno di quel nido come a voler chiedere di trasportare quelle spoglie sulle loro ali.
In quella misera stanza si era così conclusa una vita d’artista svenduta ad un amaro destino.
Sette amici, un prete ed Angela l’accompagnarono all’ultima dimora nei pressi di quella degli animali.
Sotto un velo di pioggia, una breve cerimonia religiosa suggellò l’addio.
Alla fine, quelle persone, salutata Angela, tornarono ai loro affanni quotidiani.
Su quella misera tomba scavata nel prato restarono tre garofani ed Angela pietrificata chiusa come crisalide nelle sue ali.

Roma, 2006


Un dono grandissimo

Ricevuto l’avviso di ricevimento di un pacco proveniente da Roma, Irina si recò all’Ufficio postale del suo quartiere meditando sul mancato recapito al suo domicilio.
Alla domanda del funzionario preposto ai ritiri se avesse avuto i mezzi per ritirarlo, Irina fu, quasi, indispettita per quella richiesta che le sembrò quanto mai strana: “Quali mezzi, - pensò, - economici o di trasporto?” Presa da una certa esitazione seguì il funzionario nel retro del palazzo della Posta Centrale dove le venne mostrato un immenso pacco grande quanto un palazzo, imballato perfettamente con lunghe traverse di legno, avvolto da tonnellate di carta pesante, su cui era scritto a caratteri cubitali il destinatario.
Il mittente, n’era certa, non poteva essere che lui. Ne gioì, ma restò pervasa da un diffuso panico.
Chi lo avrebbe trasportato e come? Dove lo avrebbe posizionato? Assurdo pensare ad una sistemazione in casa…
Il funzionario, guardandosi le scarpe mentre puliva le sue lenti, mostrava evidenti segni d’impazienza; attese un po’, dopodiché, con tono di sufficienza nello sguardo, soggiunse: “E allora?”
Irina sembrò scuotersi da quell’impatto e timidamente, sottovoce, ma con aria decisa sospirò: “Lo farò trasportare, al più presto, al mio domicilio”.
Dovette perciò incaricare una ditta specializzata in trasporti voluminosi per farselo recapitare e sistemare, fortunatamente, nell’enorme spazio verde antistante il suo palazzo. Ottenuto un permesso speciale dal Comune fu precluso per quel giorno il transito di ogni veicolo lungo tutto il percorso fino all’abitazione di Irina che trepidante assistette al trasporto tra difficoltà di vario genere, superate, in verità, dalla perizia degli uomini della ditta di trasporto. L’enorme pacco giunse finalmente e fu posizionato in Gospitalny Val, nello spazio antistante quelle case popolari dove Irina abitava all’undicesimo piano.
Una volta effettuato il laborioso trasporto, quel centinaio di operai, procedette a scartarlo dalle tonnellate di carta, cordami ed altro materiale d’imballaggio e così venne fuori nel suo vetusto splendore qualcosa che tramortì lei, i suoi familiari e quanti altri avevano assistito dalle finestre a quell’operazione.
Vi era stato, intanto, un accorrere di migliaia di persone incuriosite. La notizia si era sparsa subito tra i moscoviti.
Verso il tramonto, l’intero pacco dono fu portato alla luce nella sua interezza tra meraviglia e commenti più disparati. Lo stesso sindaco di Mosca che aveva dato il permesso assisteva preso da grande curiosità.
L’intero spazio erboso era stato occupato sia dal dono che dalle persone richiamate da un tam-tam casalingo.
Irina, avvolta da grande emozione, affacciata con i suoi dall’alto del suo appartamento all’undicesimo piano, notò, improvvisamente, che al centro di quel monumento, nello spazio in cui i gladiatori avevano lottato per la vita ed i cristiani venivano sacrificati per la delizia dei cittadini romani una grande busta bianca.
Scesa di corsa le scale si precipitò a quel recupero. Riconosciuta l’ inconfondibile calligrafia di Mario, l’aprì, tremula, e vi trovo un piccolo suo biglietto da visita dove era scritto, sinteticamente: “Né questo Colosseo, né cento, né mille, né diecimila altri potrebbero contenere il mio amore per te”.

2006


I due patrioti

Intorno al secolo XIIº la “Kalsa” di Palermo era un quartiere musulmano fervente di varia attività artigianale esercitata in piccole botteghe e sui marciapiedi.
Il commercio era la sua anima.
Dall’alba al tramonto pulsava di vita intensa tra gli effluvi delle specialità gastronomiche dei diversi cibi aromatizzati che aleggiavano sulla zona.
La “Kalsa” era una vera “casbah” per le varie etnie residenti dove l’estraneo che vi fosse circolato in visita o per commercio sarebbe stato sorvegliato da occhi invisibili.
Una delle attività principali del quartiere era quella connessa con il mare data la sua posizione.
“Balharm” era la dizione in gergo arabo dell’attuale Palermo.
In tale parte della città che accoglieva quella eterogenea umanità di evidenti radici orientali svettavano due moschee dalle cupole rosse e dagli alti minareti da dove il “muazzin” chiamava a raccolta i fratelli per le preghiere quotidiane. E non mancava il palazzo dell’Emiro a protezione di quella gente.
Palermo, a quell’epoca, vantava rappresentanze di diverse etnie che nel tempo vi si erano installate convivendo in relativa fratellanza per lungimiranza dei re normanni. E così Ruggero I, Federico II e Ruggero II per le loro idee d’avanguardia e di oculata amministrazione furono artefici della propria potenza al punto d’influire politicamente su gran parte dell’Europa.
Questo il teatro popolare della vicenda storica che in quel quartiere ebbe a protagonisti due giovani palermitani assurti con la loro vicenda personale al grado di patrioti.
Occorre, perciò, spostare l’asse narrativo al secolo XIXº, nel 1848 quando Palermo era occupata dalle truppe spagnole inviatevi da Ferdinando II Borbone di Spagna a sedare tumulti e sommosse originate dal basso tenore di vita della popolazione siciliana e da un altro fattore certamente incisivo: il colera che mieteva vittime quotidiane al punto di non avere il tempo di seppellirne i morti. Al riguardo correva la dubbia voce in Sicilia che tale calamità fosse stata originata da untori preposti a diffonderlo nelle maniere più diverse e per motivi non chiariti.
Tale credenza popolare contribuì a creare il panico che si diffuse a macchia d’olio per tutta l’isola, cosicché i due fattori originarono diverse sommosse soffocate, purtroppo, nel sangue con fucilazioni senza processo e condanne inappellabili.
Si era instaurato un clima di terrore tale da provocare nel maggio 1848, con il contributo del potere mafioso, una insofferenza tale da esplodere con rabbia incontenibile in un moto rivoluzionario che dilagò immediatamente in città e nelle altre maggiori dell’isola.
Si chiedeva con esso ai Borboni la Costituzione intesa a delineare diritti e doveri politici e civili in Sicilia.
La scintilla d’insofferenza a quel governo straniero era partita dalla piazzetta del Garraffello, cuore del grande mercato non soltanto ortofrutticolo della Vuccirìa che si espande come tentacoli di cefalopode in un dedalo di vie e vicoli ricchi di personaggi che sarebbero piaciuti a Leone Tolstoy.
La rivolta sanguinosa nata tra i banchi all’aperto di quel mercato tra il polpo bollito e mille altre prelibatezze gastronomiche avente come mira l’indipendenza e la Costituzione, a protezione del popolo, fu anch’essa repressa con violenza.
In tale clima di rivolta sono da incastonare le tante vicende umane partecipative della popolazione palermitana che si offrì alla causa della libertà.
Giovani di ogni rango sociale, dal nobiliare all’operaio, animati dallo stesso amor patrio si diedero in ogni modo alla lotta clandestina contro l’esercito invasore e tra essi due giovani, i fratelli Carmelo e Ninetto Orlando di venti e diciotto anni, veri figli della “Kalsa”, quel quartiere antico già descritto che si rivelò il più attivo in azioni di guerriglia urbana.
Una di esse ebbe larga eco in città per la sua violenza distruttiva che produsse cinque morti e sedici ferriti tra i militari. I due fratelli, artificieri di professione, avevano, infatti, installato all’alba di uno di quei giorni una carica esplosiva di notevole potenza presso una caserma degli occupanti dove, abbattuta una parete esterna, causò quelle morti.
Ma avvenne che i due, notati da una sentinella che iniziò a sparare, venissero inseguiti da altri militari per le strette vie di quella “Casbah” dov’erano nati. L’inseguimento affannoso tra quei vicoli fu relativamente breve tra varie fucilate poiché i fratelli, vistisi braccati, non trovarono di meglio che rifugiarsi nella chiesa della Gancia appena aperta a quell’ora mattutina.
La decisione dei due di introdursi era stata repentina allorché avevano sentito il fiato degli inseguitori seppur attardati dal contributo della gente del quartiere che, ora con un carro posto di traverso, ora con lanci di oggetti di ogni genere dai balconi, compresi vasi di fiori, li avevano distanziati.
Ma entrati trafelati in chiesa, Carmelo e Ninetto furono accolti da uno spettacolo raccapricciante che li fulminò: un gran numero di cadaveri era disteso sul pavimento. Era accaduto che il giorno prima tredici persone prelevate per rappresaglia, a casaccio, per le vie dai militari fossero state fucilate e le loro salme, trasportate su carri, deposte temporaneamente in quella chiesa in attesa della funzione religiosa.
Quello spettacolo, per quanto deprimente, ventilò nei due ragazzi, all’unisono, l’idea d’inserirsi tra quei cadaveri per confondere gli inseguitori in arrivo, ma memori del numero dei fucilati del giorno prima ripiegarono sulla propria fantasia che venne in soccorso additando loro un enorme mucchio di sedie sovrapposte in una cappella votiva alquanto buia dove, penetrati con difficoltà sul lato aderente ad una parete, vi rimasero in piedi in attesa degli eventi che si manifestarono subito con il fragoroso ingresso degli inseguitori i quali, controllando dappertutto con frenesia di segugi, sottovalutarono l’idea di cercarli tra quelle sedie. Sopraggiunto l’ufficiale comandante, questi diede l’ordine di controllare anche il campanile, ma ne venne dissuaso dal parroco, don Santino e dal sagrista per la pericolosità della vetusta scala di legno cadente non usata da più di un ventennio.
Come previsto i militari, conoscendo il numero dei fucilati del giorno prima, osservarono singolarmente quei cadaveri che sapevano essere tredici smuovendone addirittura qualcuno con i piedi contro le proteste del parroco che li informava, intanto, di non aver visto entrare alcuno in chiesa.
Quella vana ricerca durata una buona mezzora, in un crescendo rabbioso, alla fine li convinse, pur perplessi, ad abbandonare il luogo sacro per diretto invito del prete.
All’uscita dei militari il parroco che non aveva effettivamente visto né sentito entrare i due fratelli in chiesa fu sorpreso di sentirsi chiamare per nome da due voci sommesse e non profferì parola quando, pietrificato, assistette alla sortita da quell’angusto spazio dei due giovani parrocchiani che riconobbe.
Subito i due fuggiaschi, nonostante avessero ascoltato il prete sconsigliare l’ufficiale, avanzarono lo stesso l’idea di rifugiarsi sul campanile contro il parere di quel santo uomo dal quale sbocciò, di contro, il sentimento di fratellanza degli uomini pii fornendoli di due candele e due coperte di lana.
Iniziavano intanto ad arrivare i parenti delle vittime per assistere alla funzione religiosa durante la quale don Santino ebbe parole struggenti nella sua omelia liturgica. Alla fine, con l’impiego dei necrofori, si procedette al trasporto e sepoltura di quelle tredici vittime al cimitero cittadino dei Rotoli e per esse venne intitolata, anni dopo, alla memoria, una piazza della città.
Nel giro di circa due ore tutto era tornato sereno in chiesa.
La deficienza della scala, intanto, era stata constatata dai due giovani che l’avevano salita in apprensione alla luce di una candela notando, tra l’altro, la mancanza di qualche scalino.
Al primo tentativo d’ascensione, infatti, gli scricchioli non erano mancati, ma sollecitati dalla trepidazione del momento si fecero animo salendola con estrema cautela.
Ninetto si era dimostrato più deciso tra i lamenti di quella scala elicoidale; Carmelo più lento perché di ogni gradino ne saggiava la consistenza.
Giunti in alto, guardinghi e impolverati, una volta superata la botola di accesso, si trovarono alla luce del giorno con il capo foderato di ragnatele, ma ebbero anche chiaro che da quel momento sarebbe iniziata per loro una libertà virtuale.
Guardatisi intorno incantati da un orizzonte nuovo che appariva attraverso i quattro fornici del campanile, si sentirono irrorati da una dolce brezza marina che li fece respirare a pieni polmoni. Il mare spettacolare, a portata d’occhio, si presentava nella sua immensità mentre sulla loro sinistra la grande mole del Monte Pellegrino s’imponeva a guardia della città; al porto, oltre a diversi velieri mercantili, due navi borboniche stavano alla fonda. Ma soprattutto furono attratti dai caseggiati che contornando con un grande abbraccio la chiesa erano costellati da terrazze di varia ampiezza dove il bucato familiare era steso ad asciugare.
La città mai vista da quella posizione aveva un suo fascino particolare; i tetti rosso mattone su quelle basse costruzioni color ocra chiara si alternavano sovrapposti e sghembi in una asimmetria gradevole allo sguardo. Era quella l’antica “Casbah”, ancora vitale, con un profilo architettonico che, pur discontinuo, era possibile percorrere.
Notarono pure, attraverso i vetri degli appartamenti dirimpettai, una umanità al risveglio mattutino intenta alle prime occupazioni quotidiane. La distanza da essi non superava i sei metri.
Insieme a tutto ciò constatarono pure con sconcerto la gran quantità di guano di colombi sull’impiantito e sui bordi dei fornici del campanile.
Assorti in quelle osservazioni furono d’improvviso assordati dal suono della campana più piccola delle tre che annunciava un’altra Messa. Pochi minuti di allegro scampanio servirono a scuoterli e rincuorarli mentre il quartiere si apriva al nuovo giorno.
Spazzata una parte del pavimento e ammucchiato il guano sui bordi della botola stentarono ad allontanare i colombi più testardi che contendevano loro il sito usurpato.
Sotto, per le vie, iniziava la vita quotidiana con i suoi ritmi e presto le due famiglie dirimpettaie notarono attraverso i vetri, tra curiosità e sorpresa, la presenza dei due ragazzi sul campanile.
Dopo pochi gesti esplicativi s’instaurò tra le parti una complicità in cui i giovani, fidandosi, le informarono di essere ricercati.
La mimica e la gestualità tipiche meridionali contribuirono ad una conoscenza fattiva che si concretizzò in svariati lanci ai due di arance, mandarini e pezzi di pane, alcuni dei quali, per tiri maldestri, piombavano nella via sottostante. Nato un rapporto di fiducia, venne concordato di creare una rudimentale teleferica allo scopo di inviare in un paniere qualcosa di alimentare.
Con occhio vigile alla via fu allora lanciata una cordicella che agganciata ad uno spuntone di ferro del campanile ve ne furono fatte scorrere altre due nei sensi contrari, allo scopo d’inviare e ricevere gli alimenti.
Tale sistema di sostentamento durò tre giorni finché un’infida spia non ne ebbe riferito al Comando militare straniero che provvide immediatamente ad imprigionare le famiglie collaboratrici e ad insediare nei loro appartamenti alcuni militari che dai due balconi minacciavano di sparare se non si fossero arresi. Vani gli inviti, esplosero vari colpi sui giovani che riparandosi dietro quelle spesse mura avevano l’ardire di mostrarsi per attimi e rispondere con gesti osceni e lanci di qualche sasso ricavato da uno dei quei muri cadenti, dopodiché, distesi supini per terra restarono in attesa degli eventi e fu in quella posizione che Ninetto venne attratto dal battaglio della campana piccola trattenuto da un filo di ferro arrugginito. Sopraggiunta la notte lo sciolsero in silenzio dopo averlo foderato con una giacca procurandosi così un’unica arma contundente con la quale dormirono al margine della botola.
La notte successiva i due patrioti, stremati dalla tensione nervosa che non aveva permesso loro di riposare, percepirono, pur nell’abbraccio di un sonno vigile, il caratteristico scricchiolio della vetusta scala indicante con certezza la presenza di un assalitore scalzo il quale vistosi scoperto iniziò a sparare senza mira verso l’alto, ma bersagliato da violenti lanci di sassi dovette abbandonare l’impresa a precipizio ricoperto pure da una nuvola di quel guano.
Quell’ulteriore smacco produsse tale disappunto nell’ufficiale comandante da suscitargli l’idea di far demolire la scala allo scopo di prenderli per fame aspettando fuori da quel luogo sacro.
Sorgeva il sesto giorno di permanenza nel campanile e l’organizzazione segreta dei patrioti si adoperò a predisporre un piano di soccorso mediante un elementare sistema che prometteva bene.
La stessa sera i due affamati ascoltarono dalla via un canto informativo in dialetto comunicante che l’indomani notte sarebbe transitato e poi svoltato sulla via Alloro prospiciente la chiesa un carro molto carico di fieno dove i due sarebbero stati introdotti se avessero spezzato dall’interno della chiesa il marmo delle elemosine corrispondente all’esterno all’edicola votiva del prospetto.
Giunta la notte Carmelo e Ninetto, insonni, udirono nel silenzio provenire da lontano il caratteristico rumore di un carro che diede loro il segnale della discesa che avvenne mediante la corda della campana grande il cui batacchio era stato anch’esso foderato.
Giunti giù, s’indirizzarono, alla fioca luce di un altare appena illuminato, a tentoni sulla parete indicata e con un tempismo perfetto spezzarono la lapide che permise loro di sporgere singolarmente i corpi al fine di esserne estratti da due compagni che provvidero velocemente ad introdurli nel vasto carico di fieno dove restarono in piedi, di spalle, quasi a contatto dei due conducenti a cassetta.
La fase più importante di quell’avventurosa fuga era compiuta, per cui, complice il buio di quella via, i quattro, pur sapendo della sorveglianza militare nei dintorni, si allontanarono lentamente certi che sarebbero stati fermati.
Così avvenne. Il carro fu circondato e controllato anche con violenti affondi di sciabole tra il fieno, uno dei quali sfiorò Carmelo sul davanti delle cosce producendogli una ferita di striscio. L’oscurità impedì al gendarme di constatare il sangue sulla sua arma bianca.
Così, pur tra la perplessità degli sgherri per l’ora insolita di quel trasporto, il carro fu fatto passare portando in libertà i due patrioti.
E’ questa una vicenda umana che nella guerriglia urbana di quel tempo potrebbe essere accaduta.

Roma, 2006


La nave russa

La presenza della nave mercantile russa nel porto di Palermo produceva nel tratto di costa da Ficarazzi a Santo Stefano di Camastra un risveglio commerciale come di formicaio in fervente lavoro, perché rappresentava per i coltivatori della zona il rialzo dell’economia. Pertanto a Bagheria, grosso centro agricolo nei pressi di Palermo si avvertiva nell’aria la richiesta di limoni per quella nave dalle insegne sovietiche che ingoiava, per quindici giorni circa, ogni giorno, tonnellate e tonnellate di limoni in casse di legno leggero.
L’immagine di tale fermento era data visivamente dall’incrociarsi dei carri vuoti e colmi di casse che dal paese giungevano al porto di Palermo o ne tornavano.
La presenza, dunque, di quella nave russa era pane per tutto il paese, poiché il commercio di quell’agrume, riflettendosi positivamente sull’economia del paese, recava vantaggio a tante famiglie.
I proprietari dei fondi agricoli, concordato il prezzo di vendita con il grossista, ricevevano, l’indomani, sul proprio terreno diversi carichi di quelle “cascie” (casse) da colmare. Il carrettiere consegnatario lo si sarebbe rivisto dopo due, tre giorni, o anche più, al ritiro del prodotto imballato.
Per il raccolto cinque, sei contadini esperti venivano contattati e convocati per il giorno stabilito dal proprietario del “iardinu”, come veniva chiamato il terreno con quella coltura, i quali giungendo puntuali all’alba, dopo essersi segnati in viso con un rapido segno di croce e mormorato: “A nomine patri” iniziavano il lavoro di raccolta guidati dal loro occhio esperto.
I limoni raccolti, adagiati (è il caso di dire) nei panieri foderati di tela di juta erano poi riversati con cautela sul pavimento della “casuzza”, ricoperto di un telo.
La raccolta silenziosa, spesso inframmezzata da canti neniosi dei successi di Carlo Buti procedeva per diversi giorni, a seconda dell’estensione del terreno.
L’albero di tale agrume, di media altezza per una potatura che ne limita lo sviluppo, produce tre raccolti periodici all’anno, come in Israele, in Tunisia ed altrove, ma soltanto a Bagheria ed in quel tratto di costa se ne realizza un quarto per la maestria dei suoi coltivatori.
Per tale operazione si preferivano le ore mattutine, quelle subito dopo l’alba, poiché agevolavano la vista e si evitavano i raggi solari che ferivano l’occhio di chi lavorava a testa alta.
Nella “casuzza” il mucchio dei limoni si elevava sempre più invadendo letteralmente il pavimento.
Si era fatto, intanto, mezzogiorno e la zia Cristina, proprietaria del terreno ch’era già giunta da qualche ora si apprestava, com’era suo costume, ad imbandire una rudimentale tavola sulla quale esibiva una ricca insalata a base di cipolla calabrese tagliata sottile e strizzata in acqua salata, spicchi di arancia tagliati a pezzi e tonno sott’olio particolare, condita con olio d’oliva di frantoio che sapeva ancora della sua fragrante acerbità, sale e uno spruzzo di origano. Il pane fresco, cosparso di semi di sesamo, secondo il nostro costume orientale, infiorava la tavola come nella più tradizionale agape siciliana. Un generoso vino rosso, sui tredici gradi, suggellava l’antico rito del convivio, seduti in cerchio su improbabili sedili.
Un’ora così, coronata dal fumo di una sigaretta e si tornava al lavoro, ancora per un’ora mentre giungeva “u limiunaru” ossia l’esperto selezionatore che seduto per terra, ad occhio, iniziava a scegliere dalla collina di limoni accatastati quelli adatti per la spedizione i quali non dovevano essere maturi del tutto. Sarebbero, infatti, maturati durante il lungo viaggio fino ad Odessa.
Come giocoliere traeva con la mano sinistra, dal mucchio, tre limoni alla volta che depositava con cautela nelle casse che, man mano, gli si appressavano. Il suo assistente sigillava quei contenitori di legno con colpi ben assestati di martello.
In tale giornata particolare per me adolescente, ciò che mi riempiva di soddisfazione era l’incarico di recarmi ad un centinaio di metri per prelevare dell’acqua freschissima da una polla sorgente ubicata in un piccolo anfratto tufaceo alla cui base una pozza di quell’acqua cristallina concedeva la sua grazia ristoratrice.
Le giornate erano afose e dissetarsi con essa leniva l’arsura mentre ero affascinato da quel prelievo mediante l’antico sistema di una pala concava di fichidindia, lasciata sul posto, che serviva bene al travaso nel “bùmmulu” (l’antica brocca in terracotta con manici) dove l’acqua si conserva ad un apprezzabile grado di freschezza. Ma ho da ricordare, soprattutto, quella antica scritta di mano ignota su una parete di quella fonte che diceva: “Bevi e ringrazia Dio”.
Al mio ritorno alla “casuzza” notavo “u limiunaru”, intento alla sua scelta che, spesso, per fugare un suo dubbio sul diametro di un frutto traeva dal taschino del gilet un grosso anello di rame con il quale ne misurava il diametro; se l’anello non superava quella misura, il limone veniva scartato e associato a quelli di un altro mucchio destinato al cosiddetto “agro”, per un altro commercio relativo alla farmacia, profumeria ed essenze varie.
Trascorreva così una giornata di lavoro che doveva essere ripetuta ancora per qualche giorno a seconda della quantità del raccolto comportando per la zia una nuova offerta mangereccia senza averne obbligo, ma unicamente per vecchio costume. Poteva, allora, gustarsi un’altra colazione a base di caponata o baccalà “alla ghiotta” in salsa con olive e capperi.
Le doti culinarie di quella santa donna erano ben note in paese, per cui essere arruolati per lavorare nel suo fondo agricolo era motivo, oltre che di spontanea cordialità anche del ben gustare la sua cucina arcinota.

Roma, 2007


Quando a Palermo si cantava

Il canto ha sempre fatto parte della personalità dell’italiano. In ogni epoca egli si è distinto per questa espressione canora che sorge dal cuore. Purtroppo, tale gioia interiore si è spenta a metà degli anni ’40 con il definirsi dell’ultimo conflitto mondiale. Non che non vi fosse più musica da ascoltare o da cantare, ma è subentrato, forse, nell’anima degli italiani uno strano torpore musicale. Bisogna ammetterlo. Non si canta più a squarciagola, come da sempre, quando una massa di canzoni elargiva stati d’animo tali da stimolare sentimenti che toccavano le corde sensibili di ognuno. Erano aliti di spensieratezza in cui la casalinga, l’operaio, il muratore si accompagnavano con il canto, anche sottovoce, ed era vera compagnia che leniva la fatica del vivere.
Le adolescenti, in particolare, se non frequentavano più la scuola, tenevano in ordine la casa allietata dalle dolci, ingenue parole delle canzoni di moda del tempo. Ed io che trascorrevo lunghe ore al balcone, affascinato dalla visione di tanti artigiani al lavoro, godevo dei loro canti tenorili o meno in cui la grammatica ed il senso letterario andavano a farsi benedire, cosicché molte parole venivano travisate. Ogni canto, in genere, subiva vere metamorfosi tonali e grammaticali: “Madonna”, per esempio, diveniva “mia donna”, “cuore”, per lo più, “amore”. Gli strafalcioni, come avrebbe detto un mio professore di lettere erano infiniti.
Dal mio balcone fiorito dove mi sentivo nocchiero su un ponte di comando osservavo gli artigiani del tavolo, quelli della segheria, il pittore di cartelli pubblicitari, il sarto al lavoro sul suo balcone e il calzolaio don Benedetto. Da lì, con occhio vigile attendevo, tra l’altro, l’improvviso delinearsi in basso di una brunetta tutta pepe che furtivamente mi ricambiava lo sguardo con un sorriso luminoso.
La vita artigianale ferveva di attività invadendo, in gran parte, l’area viaria, per cui, al giungere, talvolta, di un carro o una carrozza a nolo occorreva spostare verso i muri degli edifici le opere in costruzione non senza un eloquente fastidio. L’artigiano riprendeva subito il suo lavoro tornando a cantare accompagnando spesso ogni movimento ondulatorio del braccio con due, tre parole di una canzone.
A seconda dell’età si cantava su diversi livelli tonali: sottovoce e su medie e alte tonalità. L’armonia musicale di ogni verso veniva, spesso, adattata alla gestualità del lavoro.
Il ciabattino che batteva ripetutamente il suo martello sulla suola di una scarpa da rivitalizzare adattava la sua melodia al battere cadenzato. Ugualmente avveniva durante la lucidatura di quei tavoli da pranzo dozzinali e nelle varie fasi.
Erano i tempi di “Parlami d’amore Mariù” portata al successo da Vittorio De Sica e di “Dammi un bacio e ti dico di si” dallo stesso De Sica ed Elsa Merlini, nota attrice di teatro leggero; “Solo tre parole”, “Gelosia” e più in là “Amami di più”, “Mille lire al mese” e tante altre, tutte di grande popolarità.
Molte abitazioni risuonavano della musica diffusa dal grammofono a tromba e dell’armonia vocale che le si accompagnava. La gioventù esternava con quelle melodie le proprie aspirazioni amorose ed i sogni inespressi. A tali canzoni le casalinghe d’altra generazione, vuoi durante la cottura dei cibi, vuoi durante la stiratura dei panni o durante il bucato esternavano le loro melodie che, evidentemente, si distaccavano da quelle del momento e così cantavano quella che iniziava: “Parevan due leoni alla foresta” o “Miniera” che affermava, tra l’altro: “manca soltanto quello dal volto bruno e per salvare lui non c’è nessuno” e così “Madame la marchise”, “Abatjour”, “Violino tzigano” ecc.
Quei canti s’incrociavano nell’area delle scale interne degli edifici e per le vie; era un sottile dispiego di ugole e fantasia, una sommersa gara canora.
Le stagionate signorine Velardita innalzavano canti romantici di un tempo, a noi ragazzi, sconosciuto, ormai trascorso; uno di essi diceva: “Fiocca, la neve fiocca” cantata puntualmente ad ogni inizio di pioggia e romanze strappacuore.
Una madre che cantava stirando con il ferro a carbone creava uno dei quadri familiari più teneri. Anche le ninne-nanne ai pargoletti esaltavano momenti di distesa serenità familiare.
La nostra zia Cristina, donna molto religiosa, cantava, invece, inni sacri, uno dei quali recitava: “Noi vogliam Dio ch’è nostro padre, noi vogliam Dio ch’è nostro Re” oppure “Ostia viva, sospiro del cuor”.
I gigli bianchi e le pomelie dei nostri balconi fioriti dicevano dell’amore per le piante di mia madre e dall’altro balcone doppio, posto sul retro della abitazione, mi si offriva un’altra visione corredata dal canto dei tappezzieri intenti al lavoro, mentre, alla mia destra, al di sopra di un alto muro, trionfava un maestoso limone, in certi periodi, ricco di zagara aulentissima. E’ lì in quel cortile, gli artigiani del salotto cadenzando il battere dei loro sottili martelli sincronizzavano il ritmo delle note musicali.
Chiaramente, dalla modulazione delle voci si evinceva parte di ogni personalità.
I miei fratelli, molto più anziani di me, cantavano canzoni di un tempo precedente al mio, alcune francesi, ancora vegete, perché esse vivevano intorno ai venti anni come “Vous que passe sans me voir” e così “Jai deus amour” lanciata da Josephine Baker.
Era anche il tempo del pianino, un piccolo pianoforte verticale su ruote condotto da un omino che azionando una manovella circolare, sul suo lato destro, liberava uno stuolo di dolci armonie simili ad un carillon. Nell’atmosfera sospesa di un meriggio domenicale, nella calura estiva, quelle note dolcissime giungevano al cuore. Una moneta da due o quattro soldi spesso veniva lanciata dai balconi nei pressi di lui che attendeva, ma se la moneta gliela si porgeva con il paniere legato ad una cordicella, questo significava la richiesta di una canzone stampata su un foglietto colorato.
In Italia si cantava e tanto. Cantava persino l’uccellino della radio nei brevi intervalli tra un programma e l’altro. Era facile in quel tempo vedere i ragazzi intenti a trarre motivi musicali soffiando su un pettine ricoperto di carta velina.
Era, forse, un tempo più tranquillo. Il ritmo della vita meno caotico. I valori esistenziali andavano di pari passo con una certa poesia del vivere e, forse, le canzoni avevano un frasario più disteso, più facile, accessibile a tutti, adatto anche ai contadini sui campi dove nel silenzio della campagna, ai latrati di un cane si univa il canto melodioso e frammentato di chi lavorava sotto gli olezzanti limoni. Un grido di piccolo rapace, un ronzio d’insetto, lo scorrere dell’acqua nel canale d’irrigazione, il rotolio di un carro lontano erano le note armoniche di una campagna al sole.
In città, anche per le strette vie giungeva, spesso, una piccola orchestra ambulante composta, in genere, da batteria, chitarra e violino oltre al cantante che rallegravano la via anche con piccole farse.
Diversamente noi giovani ci trattenevamo dinanzi alle rivendite di prodotti musicali, sul marciapiede antistante, per ascoltare, attraverso un altoparlante, tanta musica e lì nasceva tra noi una netta suddivisione preferenziale per due cantanti in auge: Alberto Rabagliati e Natalino Otto. Il primo lo si preferiva per il suo repertorio sentimentale, ricco d’atmosfera amorosa, l’altro per uno stile scanzonato ed accattivante. Ernesto Bonino, altro noto cantante, era anch’esso molto preferito per le sue cadenze ritmiche. Anche Carlo Buti aveva i suoi fanatici tifosi, per lo più in provincia.
A tratti, in quel tempo, ci perveniva l’eco della musica d’oltreoceano della quale eravamo entusiasti, ma dai titoli modificati: “Saint Louis blues”, un classico di Louis Armstrong ci giunse con lo sconcertante titolo in italiano: “Tristezze di san Luigi” e così per tanti altri. Quella musica negroide, com’era definita nel ventennio fascista, era proibita se non alterata nei titoli. Il jazz tutto era vietato, ma lo si ascoltava in clandestinità.
Un’altra suddivisione preferenziale esisteva tra gli appassionati di due grandi cantanti lirici di quel tempo: Beniamino Gigli e Tito Schipa, notissimi tenori anche in campo internazionale. Le loro romanze stavano veramente sulla bocca di tutti.
Il primo è ancora ricordato per la canzone “Non ti scordar di me” portata al successo internazionale; il secondo per “Vivere”, anch’essa di grande impatto popolare entrata in ogni casa. Ambedue i cantanti furono anche protagonisti in due films popolarissimi dal titolo omonimo delle due canzoni.
L’Italia canterina risuonava di tanta melodia ed ogni occasione era buona per noi giovani per viverla, ammalati com’eravamo d’armonia; quell’ascolto gratuito sul marciapiedi aveva il potere di creare un luogo d’incontro e spingerci, talvolta, ad improvvisi esami reciproci per individuare, in un baleno, sin dalle prime note all’ascolto, il cantante, gli autori e l’orchestra, nonché la Casa Editrice del disco per… una sigaretta in palio.
La guerra portò lo scompiglio e la disarmonia ovunque. Ci disperdemmo e qualcuno non si rivide più.
L’Italia era ammutolita tra le macerie delle città violentate e quelle della propria anima.
Si erano spenti quegli entusiasmi. Le gite con il giradischi a manovella si perdettero e così i balli domenicali in famiglia. Quegli altoparlanti tacquero se non per diffondere notizie di guerra sconvolgenti.
Un’altra pagina d’Italia era stata sfogliata ed affidata al tempo per molti ancora memori.

Roma, 2007

In copertina: Mario Tornello “Composizione”, ’80, acrilico.