Rhapsody in blue

Rhapsody in blue

La fragorosa ovazione si era spenta sul bis concesso dall’orchestra. Le note del solista Alan Clarke avevano esaltato un concerto di alto livello.
L’esecuzione della “Rhapsody in blue” aveva concluso la serata inaugurale della nuova Stagione Sinfonica premiando ogni aspettativa. Il pubblico, luci sfolgoranti, lasciava la sala nel brusio di commenti lusinghieri.
Alan, riposto il suo clarinetto nella custodia si avviò a ritirare il soprabito che non indossò; se lo pose sulle spalle e s’avviò al “foyer” del teatro dopo aver scambiato i soliti convenevoli di compiacimento e qualche critica amarognola con alcuni colleghi.
Pochi spettatori indugiavano ancora sotto la pensilina d’ingresso dove Elisa, sua moglie, l’attendeva insieme a due coppie di amici che gli manifestarono le loro felicitazioni per le sue ottime prestazioni solistiche. Ma il loro invito a concludere la serata al ristorante fu declinato da Alan che avvertiva una latente sensazione oppressiva. L’auto della coppia, parcheggiata nei pressi del teatro, venne raggiunta in silenzio, senza un commento sulla serata musicale. Elisa si pose al volante e l’auto s’avviò. Alan, presto, chiese un parere sulla sua prestazione musicale ed Elisa fu prodiga di compiacenza tranne che per quel tal brano in cui Alan, inspiegabilmente, aveva avuto un calo espressivo che era stato notato dai competenti. Ne convennero, ed un silenzio significativo s’interpose tra i due. Il pezzo musicale era di Debussy dove un assolto acrobatico, modulato nelle dodici cromie di una cadenza carezzevole faceva sì che la sua professionalità non bastasse a superarlo con la dovuta maestria che se ne esigeva. Alan, come parlando a se stesso se ne rammaricava. Piovigginava. Un certo brivido era nell’aria settembrina. La luminosità dei fari forava una trasparente cortina di pioggia. Fuori città, la periferia ed i campi coltivati apparivano nello scialbore di un luogo ordinato, ma abbandonato dall’uomo.
Un piccolo animale, forse un riccio, entrato nel cono di luce dei fari per attraversare la strada, impose ad Elisa una brusca frenata. Alan ebbe un sussulto e la sua mente fu attraversata da un fugace pensiero premonitore. La pioggia s’infittiva. Un lampo improvviso senza la coda di un tuono diffuse una luce di ghiaccio che, come sipario dischiuso di scatto, mostrò un paesaggio attonito, sospeso. Preannunciò lontani brontolii di cielo mentre un altro, più luminoso, anticipò un tuono che squarciò l’aria. Il vago odore d’inverno che s’avvertiva pose alla mente del musicista l’eventualità, giunti a casa, di accendere per la prima volta in quella stagione, il camino. Era quello uno dei momenti più distensivi delle serate invernali. La fiamma viva lo induceva alla riflessione.
La loro abitazione, un casale del ‘600 restaurato perfettamente, ubicato fuori dalle mura perimetrali di Borgo Siniscalchi, a circa cinquanta chilometri dalla città, era posta in ottima posizione collinare. Il piccolo agglomerato, ricco di storia medioevale, con il castello diruto del XIII secolo, si raggiungeva dopo una serie di tornanti in ripida ascesa. La magnifica veduta della valle smaltata di verde che da casa loro rifulgeva da ogni apertura, era il vanto. La radio dell’auto gracchiava per le scariche elettriche nell’aria mentre una voce dal timbro professionale informava di un forte incremento del fatturato nazionale e, di riflesso, un rilancio economico. Alan cambiò stazione e nell’abitacolo si diffusero voci straniere frammiste ai tipici sibili; infine soffermandosi su una musica “folk” fiorirono note festose tra i due silenziosi coniugi. Un lungo sbadiglio del musicista che inseguiva fantasmi memoriali diceva di stanchezza fisica e mentale cui non era estranea una forte tensione nervosa.
Il buio, al di là dei fari, era totale. L’auto percorreva i tornanti in ripida ascesa. Superato il punto più elevato la strada s’immetteva, in vista del borgo, in una discesa per niente ripida che affrontata da Elisa con la solita disinvoltura fece sì che alla curva, dopo una tardiva frenata su uno strato di fanghiglia, l’auto volasse di sbieco al di sotto del tornante in un punto privo di alcuna protezione. Piombata in basso con cupo fragore si capovolse due volte restando in bilico su uno sperone di roccia. Pochi i rottami sparsi d’intorno. Tutto tornò nel silenzio più assoluto dopo quell’impatto metallico.
Il cielo d’inchiostro nero, impenetrabile, la pioggia dirotta e gli alberi della boscaglia erano stati i soli testimoni. Due ruote dell’auto, cigolando, annasparono nell’aria mentre il motore finiva di friggere dopo che si era spento. Il buio ed un silenzio senza tempo ovattavano il respiro della notte dopo che le lame dei fari impazziti avevano sciabolato le cime degli alberi sottostanti la scarpata. La pioggia scrosciante era l’unico elemento animato. Lampi accecanti, intermittenti, squarciavano il buio funesto seguiti da tuoni squassanti. Sollevavano, a tratti, il lenzuolo della notte. Un senso irrazionale, frammisto di materia e spirito impregnava la scena: il turbinio di un destino avverso aleggiava sull’accadimento. Nell’impalpabilità della notte un’aura maligna aveva calato inesorabili colpi di maglio su due persone, forse, al crepuscolo della loro intesa spirituale.
Per Alan fu impossibile calcolare quanto tempo fosse rimasto svenuto. Si sforzò di tornare alla realtà emergendo piano dal vortice che lo aveva attratto in uno stato atemporale. Supino aprì gli occhi sulla tavola buia del cielo corrusco cui indirizzò nebulosi messaggi. La fitta pioggia aveva contribuito a destarlo dal profondo torpore. Frastornato, dolorante alla zona occipitale e dal bacino in giù, iniziò, con una voce che gli parve estranea, ad invocare piano la moglie Elisa.
Molto lentamente credette di emergere da uno stato afisico al recupero delle sue facoltà mentre avvertiva per tutto il corpo uno strano formicolio. Si tastò in più parti doloranti per accertarsi di eventuali fratture. Durante tali indagini scoprì di avere il piede destro incastrato in una morsa invisibile, al di sotto dell’auto. L’ammasso ferroso sullo sperone di roccia, rimasto in precario equilibrio su quel terreno accidentato, sovrastava il disgraziato che ne intravedeva, tra gli squarci del lampi, il profilo.
Chiamò più forte, ammutolendo di colpo, per cogliere nel mistero di quel buio la voce di Elisa o d’altri nei pressi. Nulla, però, sembrava toccato da quelle accorate invocazioni. Cercò di porre ordine all’oceano tempestoso della sua mente. Si pose seduto, nel suo frac zuppo attaccato alla pelle e sotto una pioggia, ora intermittente, si accorse di pregare ad alta voce e di intercalare, senza connessione, brani di poesie infantili australiane. Le sue onde memoriali erano state stravolte dalla violenza dell’accaduto. La pioggia alternava rovesci ad interruzioni improvvise. L’uomo, ghermito al piede, si dibatteva come dittero in una ragnatela malefica. Imprecava. Dalla strada sovrastante l’acqua torrenziale ch’era venuta giù aveva cancellato del tutto i segni della frenata dell’auto sulla fanghiglia. Altra ne aveva appianato il leggero cedimento del fondo stradale.
Elisa, sbalzata dal posto di guida, era piombata a circa dieci metri dall’auto rimanendo inserita, quale amorfa concrezione arborea, in un cespuglio selvatico. Era morta sul colpo. I richiami angosciati di Alan restavano vani. Indolenzito in più parti non potè far altro che rasserenarsi ad attendere l’alba che avrebbe disvelato tutto e sarebbero giunti i soccorsi. Questo sperava con convinzione. Ma da lì a pochi minuti gli giunse, distinto, il confortante ansare di un’auto proveniente da fondo valle. Saliva al borgo. Riflettè sul fatto che mai avesse dato importanza al rombo di un’auto. Rinfrancato, iniziò a sgolarsi in invocazioni, ma l’auto transitò illuminando le cime degli alberi del pendio per allontanarsi nel buio. Amareggiato, farneticando, si lasciò andare anche mentalmente. Restò supino ad interrogare la lavagna del cielo che avrebbe desiderato almeno stellata. L’assenza dell’astro dei poeti incupiva il luogo e, nel silenzio oppressivo, Alan, percepì, per prima volta in quella situazione, l’unico segno connesso all’attività umana: il rintocco delle ore al campanile della chiesa.
Giungeva nitido per la breve distanza ed aveva segnato l’una e trenta.
Si sentiva oppresso da una coltre senza peso. La pioggia ora sottile, intervallata da rovesci, percuoteva l’uomo in marsina che l’accoglieva inerte e rabbrividito. Un nauseante puzzo di benzina era nell’aria. L’ammasso ferroso dell’auto, come mostro della fantasia infantile, ostentava ai sinistri bagliori il suo viscido ventre. Le dimensioni reali del tempo erano state sovvertite. Una notte d’incubo trascorse sulle disgrazie di quell’artista assiderato. La sua mente ottenebrata per l’accavallarsi di memorie in tumulto si manteneva sul filo della tracimazione, al limite della coscienza. L’assopimento temporaneo in cui s’inabissava non era altro che una relativa perdita di coscienza. Finché al lucore di un’alba distesa non alzò il sudario di quella notte.
Alan Clarke, musicista australiano, naturalizzato italiano, giaceva quasi inglobato nella fanghiglia tra arbusti e rottami. Un fremito di membra contratte preannunciò il suo risveglio; si guardò intorno smarrito come Adamo al suo destarsi, artigliato d’angoscia per lo spettacolo che, piano, gli si delineava. Un frullio d’uccello gli consegnò la realtà. Il tempo non si era fermato. Si sollevò a sedere per riordinare le idee che si annunciarono più chiare mentre un suo pensiero angosciato volava ad Elisa che nell’incerto albore non era visibile. La chiamò, senza risposta. Frugò con lo sguardo sotto l’auto e si avvide del suo piede attanagliato. Capì dell’impossibilità d’estrarlo. Nel rimestio delle sue idee Alan era, però, convinto che durante la notte avesse avuto un labile riscontro alle sue invocazioni. Ricordava o credeva di aver udito l’inconfondibile voce di sua moglie, ma valutava anche la distorsione di ogni logica connettiva. Tempo e dimensioni memoriali si erano sovvertiti. La realtà era soltanto quella che constatava.
L’orologio della chiesa gl’inviò i battiti delle cinque e trenta. Tornò a chiamare senza convinzione, ma la voce roca, animalesca che ne sortì lo fece desistere. Fu invaso da un senso di avvilimento che lo tuffò nell’ineluttabilità di un destino segnato. Meditava quando, intorno alle sette, proveniente da Borgo Siniscalchi sentì avvicinarsi un’auto. Con disappunto, perché riflettè sul fatto che essa transitando sulla carreggiata lato montagna non gli avrebbe permesso di essere udito. Doveva, necessariamente, sperare in una proveniente da fondo valle. Ma considerò pure che per l’aria frizzante del mattino e per l’autunno incipiente le auto avrebbero viaggiato con i vetri dei finestrini alzati. Rifletteva per non abbrutirsi nello scoramento finché, sconfinando in una lunga sequenza di immagini, ora nitide, ora velate gli tornarono in mente brani di vita infantile: la perdita del padre, lui tredicenne, i suoi fratelli maggiori, la sua incommensurabile libertà nell’infinito paesaggio costellato di eucalipti, tra le fragranze di quella natura vergine ed il contatto, anche sfiorato, con gli aborigeni. Rivisse mentalmente con un certo incanto quel tempo ormai consegnato. La giornata si preannunciava luminosa. In veduta assonometrica dalla strada, la visione d’insieme del sinistro era davvero raccapricciante.
Alan, fradicio d’acqua, assalito da crampi alle gambe, assumeva le più strane posizioni alla ricerca di un pur momentaneo linimento. Si tastò il polpaccio intorpidito avvertendone la tumidezza per l’ecchimosi prodottasi nel rovinio e per i reiterati tentativi di strapparsi a quella morsa. Il vecchio reuma all’omero era ricomparso con prepotenza. Ora un tiepido sole, superato il costone roccioso e fugate le tenere foschie di quell’arcaico luogo, lo raggiungeva filtrando tra gli aceri immobili. La boscaglia aggrappata alle pendici del colle liberava col primo sole aromi e vaghi effluvi. Qualche rumore indistinto gli giungeva dal borgo. Accolse quel tepore come dono pietoso della natura mentre avvertiva su di sé uno stato febbrile. Si sentì appena rinfrancato. Accigliato e contratto scrutava d’intorno nella vana speranza d’individuare Elisa. Meditava, intanto, sul mancato transito di auto nei due sensi di marcia. Le sue antenne sensoriali erano tese allo spasimo. Si riguardò il frac ridotto in miserevoli condizioni e si commiserò. Di Elisa che non vedeva ne accettò l’idea della sua morte. Seduto, ad occhi chiusi, sostenendosi sulle braccia divaricate, in direzione della strada, volgeva il suo viso al sole come a suggerne nutrimento fisico e mentale, quasi a ricaricarsi delle proprie energie. In quella posizione, in un improvviso moto di stizza, realizzò che lo scarso transito di auto era dovuto alla festività domenicale. Ma da lì a poco, pensava, sarebbe certamente salita al borgo qualche auto di turisti occasionali.
Borgo Siniscalchi, il cui nome evocava le immagini di un passato di un certo rango nobiliare, vantava un centro storico tra i più interessanti della regione, dove si erano consumati secoli di alterne vicende civili e politiche. Era, perciò, meta domenicale anche di visitatori stranieri. Contava un migliaio di abitanti, molti dei quali vi si erano trasferiti alla ricerca di un rifugio per lo spirito e al riparo delle tensioni cittadine. Ridente, invitante, le sue abitazioni, restaurate, avevano accolto alcune menti elette della capitale. Dal suo belvedere, come terrazza sospesa, un mare d’erba esultava nella valle smagliante e, nelle giornate baciate dal sole, esso era paragonabile ad una verde coltre sulla quale un estroso gioielliere avesse sparso in allegro disordine i suoi smeraldi. Così apparivano i nove paesi disseminati nella pianura.
Alan ed Elisa (anch’ella musicista di violoncello) conducevano vita ritirata in una tra le più belle case riattate del borgo, godendo della simpatia di tutti. Fino a tarda sera, nei suoi pressi, era possibile ascoltare i loro studi musicali. Ma non era stata allietata da bimbi e nei programmi futuri c’era un’adozione. Borgo Siniscalchi, citato nelle Guide Turistiche regionali, era una località che vantava quel grande interesse che aveva attratto nell’800 tanti artisti italiani e stranieri che lo avevano esaltato nei loro dipinti. Al Museo del Louvre n’è esposto uno di E. Herbert. Altri artisti, famosi un tempo ed oggi dimenticati come Monteuy, Richter, Nerly, Edward, Gregori, Wellmann vi soggiornarono a lungo affascinati dal luogo e dalle sue donne che ritrassero.
I rintocchi del campanile continuavano a diffondersi nel silenzio mattutino. Si percepiva un risveglio silvestre. Numerosi uccelli festosi cinguettavano d’intorno frullando. Qualcuno, di grossa taglia, planando senza battito d’ali disegnava eleganti spirali simile ad aquilone che s’avviti nel vento. Ne invidiò la libertà farfugliando qualcosa al loro indirizzo. Ad un tratto un fruscio di foglie morte scosse l’uomo in meditazione che, giratosi di scatto, notò dietro a sé, più in basso, un cane pezzato immobile, a non più di cinque metri di distanza. Si fissarono sorpresi stabilendo un dialogo muto di occhi per spezzarsi d’incanto allorché l’animale volgendosi di scatto all’indietro, era sparito. Il musicista colse l’occasione per tornare ad innalzare le sue disperate invocazioni, sperando, in cuor suo, che, se il cane fosse stato da caccia avrebbe comportato la presenza nei pressi del suo padrone. Invano. Fu in quel momento che i suoi occhi si posarono con curiosità ed angoscia su un ammasso amorfo nel quale ravvisò Elisa quale pupazzo disarticolato di vecchia bottega. La morte l’aveva colta nel terrore più manifesto, ad occhi sbarrati e diretti su di lui. Il suo corpo minuto involtato in quel ch’era stato un magnifico abito da sera si era accorpato a fanghiglia e a detriti vari. Rannicchiata su se stessa, a spalle scoperte, guancia a terra, sembrava cercare riparo al gelo notturno.
Alan Clarke, annientato dalla scoperta, scivolò piano all’indietro senza un lamento. Restò in quella posizione, immobile, ad occhi aperti sull’azzurro festoso del cielo, scosso da un tremito convulso proveniente dalle insondate profondità dell’anima. L’orologio al campanile cadenzava le sue ore. Erano le otto. Uno strabiliante arcobaleno, di un tenue cromatismo, comparso a cavallo di quei monti sembrò portare un mesto sorriso di speranza. La giornata luminosa prometteva gli ultimi tepori di stagione. Il cielo terso di un languido celeste era un dipinto senza nuvole. Tutto era immerso in una quiete irreale e nulla interveniva a modificare lo stato di angoscia di Alan. La caviglia del disgraziato, enfiatasi oltremodo, adesso, era aggredita da un lanciante dolore. La spasmodica attesa teneva Alan in una tensione fisica al limite della ragione. Ogni suo organo sensorio, come braccio extracorporeo, sondava aria, terra e quant’altro avrebbe potuto originare la sua salvezza. A tratti, come in un respiro, gli pervenivano indecifrabili risonanze del paese finché, da lontano, come prolungamento di eco riflessa ecco pervenirgli, nitido, l’ansare di un’auto proveniente dalla valle; saliva in terza marcia, passava in quarta nella breve discesa che si concludeva all’altezza del sinistro e ripassava ancora in terza per allontanarsi in direzione del paese. Dell’auto, Alan ne intravide la parte alta della fiancata destra. Urlò, si sfiatò invano. Nella sua mente le idee sembravano formiche laboriose distratte all’improvviso. Scuotendo il capo si segnò di un amaro sorriso, considerando che da quell’auto di passaggio nessuno avrebbe mai potuto udire per l’alto volume della sua radio. Restò a capo chino.
Il sole, ormai, scaldava l’uomo che decise di togliersi la marsina incollata come seconda pelle per riceverne un più caldo abbraccio. Fu a quel punto che per la torsione compiuta notò alla sua sinistra e ben lontana la custodia del suo prezioso strumento accozzata a detriti di vario genere che ben indicavano l’intensità della pioggia notturna. La osservò colmo di pena. Ma un’idea penetrata di colpo nei cunicoli della sua mente gliel’attraversò fulminea. Doveva in ogni modo recuperare quella custodia. Si adoperò, dunque, e un lungo ramo secco fu il mezzo per riaverla, con estrema fatica, tra le mani. Quanti sogni e consensi erano racchiusi in quell’esiguo spazio. Fu colto da profonda emozione. In una lampo mentale ripercorse la tanta musica prodotta e rivide i grandi teatri che l’avevano applaudita. Come album memoriale sfogliato dalla brezza del tempo trascorso, ad occhi lucidi, ritrovò episodi più o meno eclatanti della sua carriera e tanto d’altro. Vide tanto di sé fino all’incontro con una snella figura smunta dallo sguardo incantato: Elisa, al suo quarto anno di Conservatorio. Un amore sereno, il loro, dedicato interamente, soffuso di alti sentimenti, pervaso dal sacro fuoco artistico che dividevano come pane, tra dissertazioni ed aspirazioni. Ne fu intenerito. L’aprì tremulo per scoprire quanta fanghiglia vi fosse penetrata.
Quello spettacolo miserevole lo disperò per l’idea di perdere il suo prezioso clarinetto, ma da tale costernazione gli si elevò una forza d’animo tale che lo spinse ad attivarsi per una, pur dubbia, azione di recupero. Si lacerò la camicia e con essa, come madre amorosa che accudisca la sua creatura, rimosse, per quanto potè, la mota che lo aveva svilito. Così, in un atteggiamento quasi liturgico, lo purificò e nel giro di un’ora, circa, durante la quale erano transitate due auto alle quali aveva urlato inutilmente, riuscì a porre il suo strumento in condizione di emettere suoni accettabili. Ne provò la sonorità fino a renderla soddisfacente. Iniziò, dunque, a suonare note alte e prolungate, prive di nesso musicale e poi accenni di mazurke e marcette militari nell’ipotesi lontana di attirare curiosi nei pressi. In quelle condizioni psicologiche, distrutto nell’anima, gli occhi inumiditi da un pianto represso, continuò a soffiare in quello strumento sfasato note popolari senza qualità che si rincorrevano nell’aria, ebbre. La sua mente, compressa da mille pensieri che si accapigliavano e si elidevano in un brusio d’alveare, errava in uno spazio mentale metafisico. Intanto, proveniente da sfondo valle, ecco avvicinarsi moto rumorosa il cui tubo di scappamento consunto imprimeva uno strepitio assordante. La riconobbe. Era quella di Alfredo il postino che cantando a squarciagola transitò con una mano sul manubrio e l’altra in tasca. Un senso di vivo sconforto s’impadronì del musicista al suo allontanarsi. Aveva suonato note alte, ma dovette ammettere l’inefficienza della sua singolare idea. Continuò senza convinzione finché, adagiato lo strumento sulle gambe tormentate dai crampi considerò con amarezza la singolare fine che, forse, l’attendeva.
Le ore al campanile sgocciolavano inesorabili. Tra i tanti “flash” memoriali sconnessi che gli pervenivano, uno gli portò un labile sollievo. Iniziava, quel giorno per lui maledetto, il Campionato di calcio e la sua Juventus consolidava ottime prospettive per i recenti acquisti di due attaccanti. Ma ogni riflessione lo riconduceva, infine, alla sua drammatica situazione. Tanto da farsi prendere da una sommessa lamentazione da prefica. A torso nudo e con il papillon di traverso esprimeva, in quel luogo così avulso, un esempio di contraddizione reale. Il nome di Elisa tornò alle labbra; ne percepiva l’improvvisa privazione. Elisa, spenta, sembrava fissarlo ed ascoltarlo. L’artista, sottovoce, in un soliloquio che sapeva di confessione catartica, liberatoria, iniziò a disvelare piano se stesso accusandosi delle proprie meschinerie, delle ire incontrollate, della sua alterigia, degli sgomenti ed inquietudini e quant’altro gli scorticasse l’anima. Liberò, in crescendo, un vociare scomposto. Discoprì con voce roca ogni suo anfratto spirituale svuotando l’anima come ad un inesistente confessore. Distrutto dal fluire alto delle sue rivelazioni, ammutolì d’improvviso, lo sguardo vitreo. Era scosso da brividi. La sua solitudine era infinita. La sua anima percossa. Elisa raggrinzita, amalgamata a quel cespuglio, aveva certamente ascoltato ed ancora una volta, materna, aveva accolto le sue irate ragioni. La morsa al piede manteneva la sua aggressività. Il gonfiore per causa infettiva, s’era accresciuto. Mezzodì era suonato con un allegro scampanio. Qualche voce indefinita gli giungeva nitida. Un vago sentore pomeridiano avanzava. Il cinguettio degli uccelli che gli posavano vicini era la sola nota viva. Tutto era immobile. Soltanto un alito resinoso nobilitava il luogo.
Febbricitante, assalito da impulsi che a stento riusciva a controllare, desiderò fortemente bere. La gamba artigliata gl’imponeva una posizione fisica che lo sfiniva. Una risata convulsa lo colse ancora, curvo su se stesso. Ad essa seguì una crisi nervosa tramata di grida scomposte che, disperdendo il suo autocontrollo, ebbe il suo epilogo nell’addentatura del polso sinistro. Il dolore agì da balsamo ai suoi nervi tesi allo spasimo e funzionò da tranquillante. Ammutolì. Le ore si trascinavano lente in un pomeriggio rosato e nulla veniva a modificare quella drammatica situazione. Ma, a smentire ciò, per la strana eco del luogo, gli giunsero ovattati tocchi indecifrabili che subito si rivelarono lo scalpiccio di veloci passi sull’asfalto. Alan pensò subito ad un podista in allenamento e che, dunque, provenendo dal lato valle, sarebbe transitato sul margine della strada, proprio dal suo lato. Avutane chiara conferma, l’artista, con fare convulso iniziò con lo strumento ad emettere note alte, di nessun pregio, ma di sicura risonanza. Preso, però, da giustificato orgasmo accavallò note scomposte su note con risultato inutile.
L’atleta proveniva da fondo valle e, come previsto, s’inquadrò, seppur per pochi attimi, sul ciglio della strada, il viso rivolto in avanti. Ma non avrebbe potuto mai udire il richiamo musicale di Alan perché, concentrato nel suo sforzo fisico, ascoltava ben altra musica in cuffia, cadenzata al suo passo. L’uomo, come segnato da una sorte che gli si accaniva, fu sul punto di fracassare su uno spuntone di roccia il suo prezioso strumento, quando, stupito, riudì uguali passi cadenzati, ma in numero più accresciuto. Non si sbagliava, si trattava di altri podisti distaccati dal primo.
Inumidite le labbra, le mani tremule per la tensione, accostò lo strumento alla bocca, ma memore dell’esperienza precedente, trasse, come ieratico sacerdote, il lungo, struggente inizio della “Rhapsody in Blue” di Gershwin, suo cavallo di battaglia di tanti concerti. Quelle note appassionate, così anacronistiche in quel luogo silvestre, volteggiarono dolenti, cariche di mestizia infinita. Abbracciarono alberi, dirupi e l’aria fina di settembre; implorarono pietà ad un destino avverso. A quel richiamo musicale era, forse, affidata la sua salvezza. Sentiva che se gli fosse sfuggita quest’altra occasione sarebbe stato consegnato al fermo diniego della sorte. Si sarebbe lasciato andare, in ogni senso, annegando nel vortice dell’ineluttabile.
Gli atleti si avvicinavano. Erano in tre. S’inquadrarono presto in controluce sul margine della strada. Udirono perfettamente quel celebre assolo. Guardarono in basso, sotto la loro destra, e colsero, sgomenti, lo straziante spettacolo. Alan, viso rigato di lacrime non più represse, s’illuminò. Resosi ceto di essere stato individuato si volse verso la moglie cui indirizzò il resto di quell’incipit musicale a lei tanto caro. Le note stentate e stridule erano riuscite ad attrarre l’attenzione di quelle persone che ristettero alcuni attimi prima di rimettersi dallo sgomento. Alan continuò a suonare ad occhi chiusi in quell’anomala posizione. Quella melodia, tremula d’emozione, fu senz’altro il suo atto di contrizione dedicato in “requiem” a colei che, pur tra i flutti di una travagliata convivenza, aveva rappresentato il suo porto rasserenante.