Il signor Piazza
Premessa
Questi racconti di Mario Tornello, che vanno, tematicamente, dall’avventuroso all’umanissimo quotidiano, dal fantastico tramato di elegia interiore (Kusna) al recupero memoriale alla cronaca amara di una disfatta borghese, trovano la loro linea connettiva nella felicità di un narrare straniero al compiacimento asettico: lo scrittore, indubbiamente non disposto a sacrificare la immediatezza del flusso evocativo alla preziosità “costruita” di una sperimentazione filologica – la prosa è scarnificata, qua e là, fino al limite del rischio – è sempre coinvolto, anche nei dettagli apparentemente marginali, in una varietà di motivazioni graduate sul metro di una sensibilità acuta, ma discorsiva e cordiale.
Sicché il tipo di rapporto con il narrato, per quanto possa diventare più corposo in certe pagine, prende le distanze dagli scontati paradigmi del realismo e più ancora dal soliloquio intimista. E ciò non vuol dire però che non si avverta, nei momenti in cui si delinea, di là dell’indistinto analogico, il volto della terra d’origine, una sottile sommossa reverie, incardinata alle certezze sentimentali e sottratta alle nebulose del solipsismo: è il caso della confessione autobiografica dedicata al “paese dell’anima”, dove l’autore torna spesso a ritrovare le sue “radici ancora vitali”. E altrove, dietro il carro del vecchio contadino Filippo e il vigneto ed il fiume, dietro il dramma americano dell’anarchico scultore di santi, dietro le vicende che non saranno storia e in quella ovattata malinconia che è poi il clima esistenziale di Tornello, s’impone ancora quell’ostinato impareggiabile amore.
Ed è la garanzia del consenso affettivo che solleva la voluta medietà delle soluzioni stilistiche-formali ben oltre le secche di una campionatura popolaresca, pur ricca di umori arcaici, e di una opposta aristocrazia del linguaggio, più o meno essenziale: il narratore siciliano (pittore, com’è noto, di buona razza) non avrebbe sottoscritto né lo “strapaese” maccariano, né, a maggior ragione, il movimento intitolato da Massimo Bontempelli ai fermenti elitari di “stracittà”.
Perché la sua forza, in fondo, è nel vigore incorrotto della sua verità; che riscatta dall’anonimato i fantasmi dell’invenzione e concede loro predicati referenti e non ambigui, riconducibili ai paramenti della propria invisibile esperienza.
Ma è da dire che questa fedeltà agli archetipi individuali, muovendo sul duplice binario della tipologia del personaggio e della concretezza dell’accadimento (proposta come tale persino nel racconto del nano volante), si riscontra anche nella legittimità del rapporto espressivo, una lingua semplice e anch’essa “vera”, non condizionata da alcun azzardo strutturale o da alchimie morfologiche, lontana nondimeno dall’approssimazione e dalla sciatteria. E’ la responsabilità di un artista che ormai da anni si cimenta, anche sulla piattaforma della poesia, con la tremenda servitù alla parola, per Michelangelo assai più crudele del marmo, ma che sente, come preliminare e tutto il resto, il bisogno di comunicare. Sottopena di ridurre, altrimenti, questo segno portante della emancipazione morale e civile dell’uomo al flatus vocis di rosselliniana memoria. Un dato sicuro per accertare che la fatica di Mario Tornello è tutt’altro che vana.
Roma, 1987
Renato Civello
Il Signor Piazza
La mattinata caldissima di quell’agosto torrido aveva prostrato l’intera città. Gli abitanti, in quei giorni di “scirocco”, preferiscono l’ombra casalinga ed evitano quasi del tutto di uscire di casa.
L’afa torrida ad alto tasso di umidità di quei giorni intorpidisce i sensi, toglie ogni volontà, ritarda i riflessi, porta a trascinarsi per casa seminudi e disfatti.
Così si vivono a Palermo le poche giornate infernali da 40° all’ombra. Si rinuncia persino a provvedere alla spesa quotidiana per gli alimenti; si trova più conveniente consumare quanto rimane di commestibile in casa.
La piazza del noto mercato della “Vuccirìa” posta in posizione più bassa rispetto alla caotica Via Roma cui si accede per una ripida scalinata è surriscaldata in quei giorni dall’ardore che assorbono e rimandano i vecchi palazzi che vi si affacciano.
L’intera area della piccola piazza e delle viuzze che da essa si dipartono è in massima parte ricoperta, a pochi metri d’altezza da terra, da teloni variopinti distesi e protesi gli uni verso gli altri in un multicolore intreccio scacchistico al di sopra della svariatissima mercanzia. L’intersecarsi giocoso di teli, visto in assonometria dalla terrazza della trattoria Shanghai, offre una rara immagine di composizione astratta dove la casualità cromatica che ne deriva evoca tante sofferte conquiste dell’arte figurativa d’avanguardia.
Gli impietosi raggi solari, filtrando modificati sulla mercanzia e sui visi dei passanti creano un’atmosfera rarefatta, quasi irreale, dove le figure di chi vi si aggira sembrano trasfigurate da meccanismi ignoti.
La grande varietà di merce, dall’alimentare al merletto prezioso, dalle calzature ai balocchi, dai mezzi agnelli rosa ai gustosi bocconi dorati delle friggitorie, il gran neniare dei venditori a magnificare la propria merce in assoli orientali, è tutto un inno all’opulenza, al colore, all’attività fervente. Un formicaio in piena attività può dare l’esatta immagine di quel grande mercato. L’eleganza primitiva d’esposizione di ogni qualità di pesce, alcune delle quali di oltre un quintale di peso, sottoposte a vere piogge manuali d’acqua insieme ad ogni tipo di frutta ed ortaggi in bella mostra, accresce il conforto della vista. L’esposizione piramidale delle olive, poi, è di alta acrobazia.
Dalla dominazione araba dell’XI secolo, codesto luogo ha conservato intatta la sua caratteristica orientale da essere perfino indicato nei “depliant” turistici come grande attrattiva.
Nelle primissime ore di uno di questi pomeriggi afosi e debilitanti, un silenzio quasi tombale rendeva il mercato, sacrario di vita pulsante, quanto mai spettrale e surreale e, cosa inimmaginabile, s’udiva persino il cadenzare dei passi di chi si attardava a percorrere quei lunghi corridoi dal tetto telato.
Ciò che sbalordisce in quei giorni maledetti di calura i rari avventori è il fatto che le lastre di basalto della pavimentazione di quelle vie, in prossimità delle rivendite ittiche, si prosciugano dell’acqua che vi ristagna in permanenza. Di solito, invece, gli avventori sono costretti ad eseguire strani, involontari balletti per evitarne le pozze.
Da codesta iattura climatica che prosciuga persino quelle basole è nato, da tempo immemorabile, un detto cittadino che indica in quel raro evento una possibile risoluzione debitoria.
Dalla piazzetta di quel mercato, dove nel secolo XIX sprizzò la scintilla di moti insurrezionali mortificati dalla repressione borbonica, una tra le cinque vie che si dipartono va diritta al mare. Esso compare a chi la percorra, improvviso tra il variegato intersecarsi di alberi maestri, sartie, vele, bolene e tanto altro da grossi battelli da pesca in un pesante effluvio di salsedine, misto a quello più penetrante di calafataggio su vecchie imbarcazioni. Un luogo quanto mai vivo dove tra il frastuono assordante del traffico automobilistico che lo sfiora si ritrova ancora isolato il canto carezzevole nenioso dei venditori ambulanti. E lì, tra un peschereccio rutilante di colori e l’altro, spicca sempre un vecchio battello a vela, basso, largo nella sua essenzialità per il particolare tipo di lavoro cui è destinato. Trasporta infatti sabbia per l’edilizia presa dai bassi fondali della costa e riversata sul molo e financo sui marciapiedi prospicienti a formare enormi coni da scaricatori seminudi e silenziosi in un alternarsi di passaggi su assi di legno posti tra il battello ed il molo.
In una di queste giornate in cui la città è quasi ferma e senza storia per le condizioni climatiche, in un paesaggio abbandonato dall’uomo, avanza una figura imponente; compare nella pizzetta del mercato con un passo forte, cadenzato. Sul suo viso s’inseguono brandelli d’ombra dalle diverse tonalità. E’ un uomo sui quarant’anni, di bello aspetto, dalla carnagione molto chiara, rosea, dai capelli di un biondo dorato; un vero normanno che conserva i tratti somatici dei suoi progenitori invasori.
Risponde con un cenno del capo al saluto dei negozianti rintanati per la calura. Porta con sé una piccola valigia e si dirige verso una drogheria posta sull’asse stradale per rifornirsi di tabacco per pipa. Il locale semibuio è confortevole, ma è fortemente pregno di un misto di odori di essenze, droghe coloniali, tabacchi e legumi secchi. E’ un negozio abbastanza ampio con proprietari vecchissimi che sorvegliano sonnolenti, ma ha una caratteristica che lo distingue da ogni altro in città: un coccodrillo enorme, imbalsamato, sospeso a mezz’aria sul capo degli acquirenti.
L’uomo procede in direzione del porto, tiene basso sugli occhi un cappello di feltro nero e dalle labbra gli pende una pipa ricurva.
E’ molto conosciuto nel quartiere della “Vuccirìa” dove viene chiamato “il professore” per la sua particolare attività professionale. Crea infatti statue religiose in gesso, cartapesta, legno ed altro. Si è dedicato sin dall’infanzia a questa attività con il padre ed il nonno paterno e dalla loro bottega sono uscite ieratiche figure di santi benedicenti e Cristi martoriati. A Natale, poi, in un trionfo di colori, un gran numero di Bambin Gesù con San Giuseppe e la Madonna e tanti pastori hanno fatto da un secolo la gioia di adulti e bambini.
Ma una città come Palermo, lanciata al consumo edonistico sfrenato, manda in crisi un’attività artigianale a conduzione familiare e non offre più lavoro a chi è rimasto religiosamente attaccato alla propria iniziativa e fantasia.
I religiosi, da tempo, non fanno più ordinazioni alla ditta Piazza perché serviti perfettamente, senza alcun disturbo, da distinti rappresentanti che sfoderano lussuosi albums colorati su carta patinata, definiti nei minimi particolari riproducenti ogni santo esaltato nella dottrina cattolica.
Il signor Piazza dunque percorre lo stretto andito tra le mercanzie e con passo deciso si dirige al porto, ma non quello di piccolo cabotaggio descritto, bensì all’altro ben più importante e pulsante cui confina. Lì grosse navi straniere sbarcano ogni giorno grandi quantitativi di ogni sorta di materiale ed ingoiano tanto d’altro, ma in particolare tonnellate infinite di agrumi.
Il viso dell’uomo, madido di sudore, non è sereno, è come assente, perduto dietro riflessioni in altalena. La sua figura che avanza ricorda quella di “Pepe le Moko” che, lasciata la Casbah sicura, scende al porto per un richiamo d’amore. Continua a ricevere saluti da chi lo intravede dall’interno dei negozi cui risponde meccanicamente. Sa che sta per perdere tutto quel suo mondo fantastico e familiare, colorato e frenetico; la decisione presa con fermezza e dolore intende mantenerla.
Riceve un ultimo saluto da una prostituta che casualmente s’affaccia in cerca d’aria ed egli vi identifica il saluto definitivo della sua città.
La “Cala”, il piccolo porto assolato che gli appare alla fine della stretta via è immersa in una luce violentissima che lo ferisce agli occhi. Ha lasciato ormai il quartiere e si dirige al grande porto. Sa che il molo sette non è distante, prosegue deciso costeggiando vecchi palazzi su cui l’affronto ricevuto durante l’ultimo conflitto mondiale è ancora chiaro. Rari passanti attraversano il corso a due carreggiate su cui si allontana il signor Piazza. Tutto intorno sa di polvere e aridità. Poche a quell’ora e con quella calura le auto che sfrecciano veloci per la rarità climatica. Una fontanella secca richiama l’occasione mancata per una bevuta; un autobus semivuoto passa veloce sollevando una nuvola di polvere.
Il porto non è distante, ma attraversarne il largo spiazzo è da eroi. Il sole brucia veramente ed il riverbero della pavimentazione è accecante.
L’Augustea ancorata al molo sette, surriscaldata nel suo corpo ferroso è veramente imponente. Ha il colore predominante della ruggine per la sua vetustà e viaggia da anni quasi esclusivamente sul percorso Italia-Stati Uniti. Al suo comando è un corpulento siciliano che risiede a Palermo.
Il signor Piazza la distingue da lontano in un silenzio irreale; le si avvicina indeciso se salire a bordo o meno, non avendo notato alcuna persona nei paraggi. Alcuni carri ferroviari chiusi stanziano sul molo; pochi operai, a distanza, sdraiati per terra parlano a bassa voce sotto una tettoia in cemento. Fumano ed oziano. Altri sonnecchiano sotto i carri ferroviari. Si fa animo, certo di quanto sa; sale la scala di accesso che gli sembra infinita e si ritrova sulla tolda. Nessuno si accorge di lui. La contr’ora ha un suo rito. Stagna un silenzio greve, rotto soltanto da lontani rigurgiti metallici del vicino cantiere navale. L’azzurro del cielo non è attraversato dai soliti gabbiani. Prova a chiamare diverse volte finché da una porticina laterale qualcuno dall’interno gli chiede il motivo della sua presenza.
Il Comandante è assente, tornerà in serata. Il signor Piazza è indeciso se tornare anch’egli in serata o raccomandarsi per rimanere a bordo. Prevale la seconda soluzione e viene accompagnato nella piccola sala di riunione dove rimane fino all’imbrunire a guardare il porto, a fumare e con la valigia a portata di mano. Gli è stata affidata da don Salvatore Aquino e dovrà essere consegnata alla persona che l’accoglierà nella terra promessa.
Il cielo sul porto comincia a tingersi di un cangiante arancione quando il comandante lo sistema per la notte assegnandogli una cuccetta dove passerà una notte insonne e agitata.
All’alba dell’indomani, destato da sordi rumori provenienti dalla stiva, stenta ad orientarsi per raggiungere il ponte di comando e rivedere il comandante.
A quell’ora vengono riprese le operazioni di carico di grandi quantitativi di agrumi che vengono trasferiti dai vagoni fermi sul molo alla stiva refrigerata che ne inghiottirà a tonnellate per tutta la mattinata. E’ un lavoro lento ma metodico e costante, tra fischi, richiami e brontolii di macchinari in un’aria presto surriscaldata e pesante.
“Il professore” rimane ad osservare rapito dalla professionalità degli uomini preposti a quel lavoro. Fuma, passeggia, ma rimane nei paraggi della stiva refrigerata.
A tarda sera apprende della imminente partenza dato che il carico è stato ultimato.
Non se ne accorgerà neppure quando all’alba la nave si staccherà dal molo. Ha vegliato tutta la notte compresso dai suoi pensieri, finché un sonno profondo ed agitato non lo ha vinto.
L’Augustea naviga in mare aperto quando il signor Piazza va in cerca del comandante. Si accorge che la Sicilia è del tutto scomparsa. Trova il comandante Puleo con due marinai ed un sottocapo nella sala comando tranquilli a chiacchierare. Il mare infinito si mostra in tutta la sua grandiosità. Gli viene offerto un caffè e si parla di cose scontate mentre il comandante sembra guardingo nei suoi confronti, ma è costretto a ricordargli le condizioni stabilite per il viaggio un mese prima al bar Adua di Via Roma, ma il professore, come a toglierlo d’imbarazzo, si pone a disposizione per quanto gli sarà assegnato di fare durante il viaggio.
Trascorrono così giorni e giorni di navigazione in un mare infinito che sgomenta il cittadino Piazza. La monotonia di un lungo viaggio viene spezzata soltanto dalla lettura di vecchi libri del comandante, da lunghe partite a carte e dall’ascolto della radio. Le operazioni marinare non hanno più segreti per Angelo Piazza che si è integrato da perfetto marinaio. I gabbiani in riposo sui pennoni o vorticanti sulla nave lo trattengono per delle ore in osservazione. La notte però è sempre difficile da superare per i pensieri che l’assalgono.
Pochi porti sono toccati e durante le soste sia brevi che prolungate il professore, come d’accordo, è tenuto nei punti più reconditi della nave tra scomodità di ogni genere, scarsità d’aria ed impossibilità di fumare. La vita di bordo così scorre lentamente nelle sue cadenze quotidiane senza imprevisti che ne turbino l’andamento. Soltanto alla fine di quell’agosto la partenza da un porto viene ritardata da un guasto meccanico. Il viaggio ormai dura da più di venti giorni. Settembre è inoltrato ed il mare agitato si presenta in tutta la sua potenza. E’ un diversivo eccitante che allontana la tensione.
In una di queste sere già abbastanza fresche viene informato del prossimo arrivo entro le prime ore del mattino seguente. Scorge infatti con il binocolo un lontanissimo chiarore. E’ la costa degli Stati Uniti. La grande baia di Hudson si avvicina.
La notte è trascorsa in bianco. La troppa tensione accumulata in quei giorni e le riflessioni che si agitano nella mente del professore lo hanno esaurito. Ha abbandonato la sua terra e la sua donna, ma non si pente; vuole perseguire il suo sogno covato sin da ragazzo. L’alba lo coglie in pieno sonno, ma è subito pronto a far la sua parte di marinaio nelle manovre d’attracco. Sente adesso una carica vibrante ed in cuor suo freme d’avventurarsi in codesta terra promessa.
Un velo consistente di nebbia toglie ogni visuale, ma risparmia, come visione onirica, la popolarissima statua della libertà. Maestosa ed immensa come immagine metafisica sembra proprio sistemata lì per accogliere chi arrivi in quel paese con le sue speranze.
La vastità del porto di New York pur nel chiarore brumoso del mattino è evidente. Tutto pulsa di fervida attività mentre la luce del mattino stenta a rivelarsi.
L’abbraccio al capitano suggellò la sua gratitudine e la fine di un viaggio estenuante. Il pensiero di porre piede sulla terraferma pur con gli imprevisti del caso lo rinfrancò alquanto. Il capitano gli ripetè la sua disponibilità affidandolo ad un marinaio perché lo accompagnasse all’uscita 16 dove avrebbe incontrato una persona.
Ma viva è la meraviglia dei due quando, fatti pochi passi dalla nave, sono avvicinati da una figura corpulenta che accostatasi furtivamente chiede loro chi fosse mister Piazza.
Il professore colto alla sprovvista fa un cenno di sì con il capo; sapeva di essere atteso, ma non dinanzi la nave. Poche battute dello sconosciuto in un approssimativo italiano bastarono a convincere i due uomini delle sue buone intenzioni essendosi rivelato inviato di don Joe De Lisi. Al marinaio non restò dunque che salutare e tornarsene sulla nave.
L’auto sulla quale montò il professore s’avviò lentamente verso un’uscita diversa dalla “16”, dove il grasso uomo che era al volante salutò con effusione i due poliziotti di servizio, i quali si limitarono ad uno sguardo distratto alla persona del professore.
Adesso l’auto procede a media andatura forse per permettere una comoda visione del nuovo che si offre agli occhi del nostro uomo che fuma un grosso sigaro avana offertogli dall’autista.
La giornata è abbastanza fresca e ventilata con un sole magnifico. Il professore con la piccola valigia tra le gambe è in ammirazione dinanzi a ciò che gli si mostra. Apprende dal grassone che dopo aver incontrato don Joe avrebbe anche rivisto i suoi parenti lontani che sono stati già avvisati. Ciò vale per il signor Piazza a rivolgere un ringraziamento mentale a don Salvatore Aquino che da Palermo aveva provveduto anche a questo. Gli venne però naturale pensare anche ad uno scopo sommerso, ma non volle soffermarvisi, preferì incantarsi di ciò che gli scorreva sotto gli occhi.
Le enormi sottovie, le sopraelevate in arabeschi stradali, gli spazi sterminati, ma soprattutto i grattacieli, molti dei quali in cemento e vetro adombrantisi l’un l’altro sono quanto mai sorprendenti per il loro verticalismo un po’ opprimente. Il senso di vastità è ciò che colpisce il professore che beatamente fumando il grosso sigaro gode di questa immagine che aveva coltivato come primo impatto con la vita americana. Le insegne pubblicitarie, poi, sono del più petulante richiamo. La gente che colma i marciapiedi non gli dà però l’idea del passeggio come a Palermo nel chiaro ozio orientale; è indaffarata e assente, presa da intime riflessioni e sembra guardare soltanto dinanzi a sé senza vedere. La metropoli, riflette il signor Piazza, evidentemente non ha spazi per tali distrazioni. Ne è perplesso. I tanti luoghi di svago e di ristoro lo affascinano, forse perché un robusto appetito si è fatto sentire e lo stomaco reclama la sua parte.
L’auto scivolava silenziosa in un traffico ordinato. Attraverso uno dei punti nevralgici della città, il signor Piazza preso da stupore, riconosce, come da un sogno, il famoso bivio stradale di Broadway. La sua scoperta viene confermata dal grasso autista e dall’infinito numero di locali di svago ammiccanti. Cinema e teatri, bars, ristoranti di ogni nazionalità e i più disparati locali sono quanto mai invitanti.
Ciò che però gli dà l’esatta immagine americana è il ponte di Brooklyn quando gli appare improvviso nella sua maestosità ed eleganza. Lo percorrono e il professore crede di immedesimarsi in un film americano. Alla fine, la baia di Hudson li accoglie in un abbraccio totale. Un senso totalmente diverso della città si imprime nella sua mente.
Superato di poco il ponte, il grasso Casimiro, fermata la grande Buick accostandosi al marciapiede, invitò il signor Piazza in un bar dove furono accolti con simpatia per l’amicizia con il gestore di origine italiana.
La valigia fu tenuta tra le gambe del professore durante la consumazione della robusta colazione. Il locale di chiara impronta italiana esibiva, quasi ostentandole, chiare immagini italiane compresa una gigantografia a colori della squadra di calcio del Napoli. Il caffè che sorbirono fu quasi di suo gusto.
***
A Palermo l’autunno non sembrava decidersi ad arrivare. Nessun brivido sferzava l’aria che ancora tiepida in un clima vagamente orientale invitava alla passeggiata al centro della città nell’accogliente Viale della Libertà dove, tra palazzotti in stile Liberty, i platani secolari mantenevano foglie ancora verdi.
Grappoli di giovani vagabondi dalle carni dorate per l’abbronzatura estiva si spostavano trascinandosi tra scurrilità e galanterie all’indirizzo di giovani donne.
Il mare di Mondello, una delle spiagge più reclamizzate tra le altre della città, di un verde smeraldo ineguagliabile, sembrava farsi ammirare dagli ultimi turisti nordici intenti a crogiolarsi al caldo sole. L’atmosfera vacanziera era quasi intatta. Il monte Pellegrino a perenne sentinella della città si ergeva maestoso sul porto, memore della definizione di Goethe nel suo “Viaggio in Italia”.
Palermo, città viva, industriosa, dotata di infinita fantasia, che ha saputo scrollarsi di dosso tante invasioni straniere, è, però, una città emblematica per la costrizione impostale da poche persone che manovrano dal buio un potere violento consolidato nel tempo da connivenze ad ogni livello, anche politico. Vive i suoi giorni amari in uno stillicidio di violenze e ricatti, costretta al compromesso di adeguare il proprio vivere civile alla pesante imposizione.
Codesto potere occulto, spesso palese, si è sempre mimetizzato a misura di ogni indirizzo politico emergente e su questi cardini girano le sue ruote dentate fagocitando nelle spire di una forza disumana ogni attività onesta che cerchi una sua identificazione.
Nel quartiere da dove era sparito Angelo Piazza, le giornate continuavano a cadenzare lo stesso ritmo compresi gli scippi a sprovveduti turisti e cittadini. Vi fu anche un omicidio nelle viuzze di quella Casbah che servì a punire un giovane leone che cercava di ergersi troppo.
Passò del tempo perché venisse notata la sparizione del professore, poiché essa poteva verificarsi per periodi più o meno lunghi. Era infatti spesso invitato da amici anarchici, fuori città, tra i monti, in fattorie agricole. Il senso liberatorio innato, di autentico anarchico idealista, puro nello spirito, socievole, pronto di cuore, ne aveva configurato un vero personaggio nella assortita fauna del quartiere della Vuccirìa.
Teresa, sua convivente, dal ricordo fresco dell’attività esercitata presso certe case accoglienti uomini di ogni estrazione era la persona che ben si assortiva a lui, figura atipica di quel quartiere. Gran giocatore di scacchi, buongustaio, buon bevitore, era soprattutto un magnifico poeta dialettale che trovandosi in vena avrebbe recitato le sue poesie per una intera serata strappando applausi sinceri. Era stimatissimo. I suoi brindisi in rima sono rimasti nella storia del quartiere. La sua imponenza (superava infatti il metro e ottanta, novanta chili di peso) il meraviglioso biondo dei capelli leonini, la carnagione chiara, ma soprattutto la disponibilità e l’indole sociale avevano contribuito a magnificarne la figura.
La sua “putìa”, termine di origine spagnola che indica la bottega, era punto di ritrovo di amici dove si dibatteva a sera di tutto, dalla crisi politica italiana e straniera alla psicologia femminile, dalle ricette di cucina alle disgrazie e fortune di amici comuni. La sua dottrina anarchica in ogni caso veniva facilmente a galla nelle accese discussioni di ordine morale e politico come toccasana di crisi governative.
Teresa assisteva quasi ogni sera fino a quando, vinta dal sonno, augurata la buona notte si ritirava nelle due stanze soprastanti la bottega.
Persino la polizia metteva piede in quel luogo così accattivante per accettare un caffè mentre invitava il professore a non muoversi di casa quando in città erano segnalate personalità politiche d’alto livello.
Ateo convinto, Angelino Piazza era la personificazione del controsenso religioso per la sua attività artigianale che sosteneva essere un lavoro come un altro. La sua “Pietà” di Michelangelo condensava i suoi sentimenti religiosi volutamente immemori.
Teresa lo cercò a lungo quando sparì. Si disperò tanto quando ricevette dopo lungo tempo l’unica lettera. Venne così a conoscenza delle sue decisioni segrete e della sua vigliaccheria quando in quel giorno della sparizione l’aveva informata di uscire per comprare del tabacco per la pipa. Era sprofondata nella tristezza più cupa.
La “putìa”, non più animata dalla presenza di tanti amici che in pochi giorni sparirono, perdette quel fascino che la distingueva. Teresa, di origine settentrionale, rimase sola in una città che, malgrado ricordi abietti, amava. Continuò a sformare statuine di santi meditando su un eventuale ritorno alle campagne della sua Romagna. Ma ciò sarebbe stato subordinato alla vendita in blocco delle attrezzature e dello stivile comprese le statue. Soltanto così avrebbe potuto realizzare denaro in contanti e forse, chissà, sarebbe sparita anch’essa.
Con il trascorrere delle settimane, per la crisi evidente di quel settore, la giacenza delle statue fu totale. Si avvertì di più l’assenza della personalità del “professore” ed i fornitori delle materie prime cominciarono a reclamare i loro crediti.
Teresa, donna esile nell’aspetto, ma dalle energie sommerse, capì che abbandonandosi allo sconforto si sarebbe perduta del tutto. Si riscosse ed in un moto di ribellione interiore che la ricaricò trovò la soluzione temporanea a quella situazione. Battè tutto il quartiere alla ricerca di un eventuale acquirente e la sua caparbietà fu premiata. Riuscì a vendere tutto in blocco, sottocosto ovviamente, ad un losco figuro che si presentò una mattina dinanzi “l’Antica e premiata fabbrica di statue religiose del Cav. Angelo Piazza e figlio” con un carro che attrasse la curiosità dei vicini, tra i quali si creò un vero interesse al comparire delle statue. Tutte erette, alcune non ultimate nella colorazione definitiva, furono poste l’una accanto all’altra in un evidente disordine. Tersa ricevette la somma pattuita e con le lacrime agli occhi se ne salì al piano superiore per buttarsi sul letto e piangere disperatamente.
Il carro si allontanò sul selciato sconnesso mentre quelle figure traballanti richiamavano alla mente sopiti ricordi scolastici sulla rivoluzione francese.
***
Il primo impatto di Angelo Piazza con New York fu poco facile, anche se in realtà nel grande quartiere della “little Italy” ritrovò tanto della sua Italia e molto di siciliano. Insegne, inviti pubblici, cucina ed anche un certo sistema di vita italiana contribuirono a lenire lo shock del trapianto.
I lontani parenti presso i quali fu ospitato si interessarono subito di trovargli un lavoro ed una temporanea sistemazione d’alloggio presso uno di loro. Dopo pochi giorni dunque iniziò da clandestino a lavorare in una grande fabbrica di vestiti per uomo ad imballare confezioni per la spedizione. La “routine” quotidiana però, cui si sottopose, fatta di orari da rispettare e pochi rapporti umani, non era certo gratificante per una persona come lui abituata ad un lavoro creativo in assoluta libertà d’orari.
Un diaframma dunque scese dietro di lui a troncare il netto ogni rapporto con la vita siciliana. Il contrasto fu evidente e si manifestò. La sua indole, la concezione libertaria ereditata dal padre insieme al negozio cominciò a reclamare i suoi diritti nelle giornate trascorse a piegare vestiti in un anonimato tristissimo e sotto una snervante luce al neon.
Appena pochi mesi dopo, questo lavoro ripetitivo gli si rivelò nella sua gravità. Il temperamento d’artista che possedeva ed il suo senso creativo erano mortificati da quella routine di gesti. Era chiaro che desiderasse qualcosa che conciliasse il denaro con la creatività. I parenti, avvertendo il suo malessere, si mossero cautamente nella condizione della sua clandestinità.
Le persone cui potevano rivolgersi dovevano essere fidate. La sua insofferenza fu, però, palese per ogni occupazione pur se precaria che gli fu trovata naufragando allo stesso modo.
Dopo codeste esperienze che servirono in qualche modo ad aprigli gli occhi sulla realtà americana, il signor Piazza cominciò a muoversi da solo tanto da prendere alloggio presso una vedova irlandese, sostenuto dalla generosità dei parenti.
Dall’America o dagli States, come preferivano precisare i suoi abitanti, il signor Piazza si attendeva ciò che aveva sempre suscitato la sua fantasia di eterno ragazzo: il benessere, la fortuna, se non addirittura la ricchezza. Sapeva di gente emigrata povera dalla Sicilia che in America nel giro di un ventennio aveva realizzato una fortuna e che, ritornata in Sicilia, l’aveva ostentata con malcelato godimento. Così egli si chiedeva con insistenza dove stesse il segreto per salire quella scala del benessere. Pensò spesso di ricorrere a quel Joe De Lisi, chiaramente un boss di alto rango, già conosciuto quando gli aveva consegnato la valigia portata da Palermo per conto di don Salvatore Aquino. Ci pensò a lungo, finché una sera, al tavolo di una pizzeria dove spesso si recava a smaltire un poco di malinconia, ebbe il piacere di rivedere Casimiro, il grassone che lo aveva accolto al porto al suo arrivo.
Credette di benedirlo rivedendolo; gli apparve come un vecchio amico cui si apra il cuore. A lui rivelò il suo stato d’animo in uno sfogo senza ritegno; il suo aspetto fisico fece il resto. Lo sconforto, misto all’amarezza di una certa nostalgia che affiorava dai suoi discorsi produsse nel grassone quell’innato sentimento di protezione che alberga in ogni siciliano verso un corregionale fuori della Sicilia.
Tre giorni dopo il signor Piazza fu puntuale alle undici nella stessa birreria dove Casimiro già lo attendeva sorseggiando una birra e sfumando il suo sigaro avana.
Poco dopo la Buick nera con i due uomini si fermò dinanzi un palazzotto di mattoni rossi la cui insegna, impiegando tutta una fascia del prospetto, indicava di un’attività di importazioni ed esportazioni in tutto il mondo.
L’ufficio che rivide il professore denotava chiaramente il gusto del proprietario e gli portò alla mente certe scenografie di films americani degli anni trenta. Poltrone capitonnè in pelle marrone, tanti libri negli scaffali che davano l’idea di non essere stati mai toccati, belle porte in noce e qualche opera d’arte di dubbio gusto dicevano della personalità di mister De Lisi che manifestò la sua disponibilità con una cordiale accoglienza.
La conversazione toccò tanti punti esistenziali dei due uomini, compresi quelli nostalgici delle origini siciliane di don Joe, ma poi era scivolata sul dramma di un uomo solo nell’immensità di una metropoli come New York.
Mister De Lisi fu comprensivo alquanto e partecipò con il suo dire pacato, quasi sottovoce, alla condizioni di Angelo Piazza.
Il dialogo tra i due, presente Casimiro, interrotto di frequente da trilli di telefono e brevi conversazioni d’affari, s’impiantò sul piano cordiale che s’instaura tra siciliani che si sconoscono, ma che sono amici di amici comuni.
Il boss assicurò il suo interessamento con poche parole che sembravano distratte, ma valsero bene a rinfrancare il nostro uomo.
***
A Palermo, la condizione di Teresa era mutata.
Continuava a vivere nel piccolo appartamento di due stanze e servizi, al di sopra della bottega, trasformata in soggiorno.
L’antica insegna ottocentesca in metallo che per più di un secolo aveva indicato una particolare attività era stata rimossa.
Un’epoca era tramontata; le attrezzature erano state svendute, per cui era nato uno spazio confortevole. I muri dipinti di un tenero celeste crearono un luogo rinato a nuova luce. Ma tutto ciò non era valso a rincuorare Teresa che, spesa gran parte del denaro ottenuto, era sprofondata in una crisi depressiva. Non aveva parenti in città, ma soltanto qualche amica che lemosinò una visita e un soccorso tangibile.
Di questa realtà venne informato don Salvatore Aquino che, in tono con il personaggio che rivestiva nel quartiere, volle interessarsene di persona, manifestando nei confronti della donna oltre che un tiepido senso di protezione un particolare interesse.
Frequentando infatti anch’egli sporadicamente la “putìa” di Angelino, aveva avuto modo di notare in Teresa ciò che guardandosi soltanto con gli occhi non si vede. Aveva quasi atteso, prevedendolo, lo stato d’indigenza in cui si sarebbe trovata la donna ed era così intervenuto da perfetto tempista.
La sommersa sensibilità di Teresa unita ad un spiccato senso pratico erano stati notati da don Salvatore insieme alla sua fragilità fisica dalla quale però traspariva un che di erotico sottile. Ciò stimolò nel piccolo Cesare della Vuccirìa un interesse che fu subito chiaro. Conquistò con i suoi occhi gelidi ed imperiosi, con la sua voce suadente e ferma, il cuore della piccola donna esprimendo insieme quella forza compressa e razionale tesa a vantaggio proprio e dei suoi affiliati.
Il biondo Angelo, al suo confronto, appariva agli occhi di Teresa un idealista inveterato, un cordialone fragile che le aveva però colmato il cuore.
Teresa accettò la corte assidua dell’“uomo rispettabile” poiché la china dell’indigenza cui era avviata inesorabilmente era giunta a ventilarle un ritorno all’antica professione che le ripugnava.
Di Angelo, dopo quella lettera che ricevette e che era sembrata più una confessione catartica liberatoria che altro, non si seppe più nulla anche se nel quartiere correva voce che avesse fatto fortuna in America.
Teresa continuò a ricevere visite di don Salvatore, che non lesinò assistenza e cura ed un certo tenore di vita. I vicini di casa osservarono il radicale mutamento avvenuto. Il prospetto di quella bottega rifatto a colori chiari acquistò vita e nuova luce e per quell’ingresso entrò ed uscì una signora settentrionale elegante, che d’inverno indossava due pellicce.
***
Dall’incontro con mister De Lisi era trascorso circa un mese e qualcosa di nuovo era intervenuto nella vita di Angelo che amava Elisabeth, figlia unica divorziata della vedova presso cui alloggiava. Con lei sentì per la prima volta dal suo arrivo negli States che un vero calore gli aveva toccato il cuore. Figlia di un Pastore protestante di origine irlandese esternava un costume di vita quanto mai corretto e semplice, consono alla rigida educazione ricevuta.
Il fascino di un latino come Angelo, dalla figura vibrante, creativa, con un piglio tra lo scanzonato ed il sentimentale, non potè non far vibrare le corde emotive della donna, rese afone da una vita matrimoniale fallita. Si amarono di un amore sereno, quasi casto. Due anime sensibili in egual misura si erano incontrate. Vivevano le stesse emozioni, godevano di un amore purissimo.
Il recente incontro di Angelo con il boss De Lisi aveva, intanto, prodotto un lavoro adatto allo spirito creativo di quest’uomo irrequieto; ben remunerato, ma quanto mai strano, trattava di un’attività ben legata con la scultura anche se cosparsa di difficoltà che nei primi tempi procurarono seri impedimenti e sconforti. Il lavoro in sé era spettacolare nella resa finale, assumendo anche carattere artistico.
La singolarità era data dalla materia d’uso sconosciuta al signor Piazza, che ne soffrì pur adattandosi affascinato.
Si trattava di ghiaccio artificiale, duro come pietra, creato apposta da sofisticati meccanismi che lo mantenevano allo stato solido mediante una serie di serpentine poste al di sotto di piattaforme metalliche. Il procedimento avveniva facendo rapidamente espandere un gran quantitativo di anidride carbonica liquida dentro cassoni metallici dove la brusca evaporazione di una parte di essa, producendo un inteso raffreddamento provocava la solidificazione dell’anidride restante. C’era il vantaggio di ottenere temperature più basse del ghiaccio comune. Un ventilatore di aria fredda, agendo poi in cerchio da appositi ugelli della piattaforma, manteneva il ghiaccio allo stato solido per lungo tempo.
Si realizzavano così statue e decorazioni richiesti da enti pubblici e privati e da ricchi signori per le loro feste private.
Spesso dall’estrosità di esse derivava la riuscita di un incontro cordiale tra amici. Fu una moda di quegli anni che si affermò per un decennio circa, ma che con alterna fortuna vive ancora. Fu molto redditizia per le ditte che vi provvedevano avvalendosi di esperti scultori, in maggioranza di origine cinese e norvegese.
Il lavoro pur nella sua originalità servì a rinvigorire nel professore quello spirito d’artista che credeva inesorabilmente mortificato. Il suo orgoglio rinasceva rinverdito nella fantasia posta a frutto di quelle realizzazioni pseudo-artistiche. La corposità del ghiaccio dissimile da qualunque altra materia tradiva spesso l’esecutore se non venivano rispettati certi canoni tecnici sul taglio e sulla percussione, specialmente nelle rifiniture finali e nei preziosismi quando una disattenzione poteva produrre la perdita dell’intera opera che spesso raggiungeva i tre metri d’altezza.
La loro realizzazione avveniva in un immenso stanzone ad una temperatura di pochi gradi e al massimo dell’umidità. Gli scultori lavoravano su tralicci e scale infagottati in spessi pullovers e berretti di lana. Usavano grandi occhiali da aviatori, tipo anni venti, per evitare le schegge di ghiaccio. Il signor Piazza era uno di loro e si distingueva tra i piccoli cinesi per la sua prestanza fisica e per uno strano berretto di lana del Perù regalatogli da Elisabeth.
Le difficoltà iniziali furono tante, ma il suo occhio, aduso ai segreti della scultura, fu rapace e attento al lavoro degli altri più esperti colleghi e ciò gli valse il superamento dell’impasse iniziale, finché la sua fantasia, sbrigliatasi, prese l’avvio lento dell’uccello che solca il mare senza tentennamenti. I giorni, i mesi trascorsero in un susseguirsi di realizzazioni fantastiche che lo ripagavano dal lato economico delle condizioni in cui avvenivano.
Il guadagno era bastevole, tanto da permettere una casa decente in affitto. Elisabeth lo amava di un amore silenzioso, senza slanci, ma costante, certo. Era il suo porto dalle acque tranquille. Tra i due si realizzava ogni giorno di più un autentico rapporto d’amore. Angelo sentiva rimarginarsi la ferita del distacco dalla sua città e del trauma dell’impatto con la metropoli. Non chiedeva altro dall’America anche se Teresa gli compariva spesso in sogno.
Elisabeth, che ricordava nel fisico la donna di Palermo, non era però di gran salute, cosicché, in certi giorni invernali in cui il pallore del suo viso era più accentuato, cercava di dissimularlo con un leggero maquillage. Angelo, al momento, era appagato della sua condizione economica e sentimentale e viveva una vita tranquilla borghese quasi dimentico della sua terra. Nella routine quotidiana di lavoro e dedizione familiare c’era financo la gita domenicale fuori città in visita a luoghi suggestivi come ogni buona coppia e tra i programmi futuri c’era anche una vacanza in Texas o in California dove Elisabeth forse avrebbe ritrovato quella carica di vitalità che cominciava ad abbandonarla.
Quel particolare tipo di scultura continuò ad avere successo anche per il contributo del signor Piazza, il quale percepì che quella materia di per sé fredda mancava di una tenue esaltazione cromatica. La sua proposta, accettata con entusiasmo controllato, conferì un più spiccato senso plastico. Il colore che consigliò di aggiungere agli elementi compositivi del ghiaccio valse a rendere l’opera di un trasparente fiabesco. L’effetto, poi, era magnifico quando, sistemata l’opera nello spazio stabilito veniva illuminata dal basso.
La novità piacque, le richieste aumentarono ed Angelo ottenne un miglioramento economico nonché la direzione del laboratorio.
Una bella auto scintillante fu acquistata, una azzurra Buick decappottabile che ospitò poche volte Elisabeth, della quale non migliorarono le condizioni fisiche tanto da trascorrere buona parte della giornata a letto disfatta con un pallore esangue ed a nulla valeva farsi trovare dal suo “little Angel”, come lei lo chiamava, truccata di un velo di cipria rosata. I diversi medici consultati furono concordi nel diagnosticare quella grave malattia tanto inesorabile ch’è la leucemia.
Il signor Piazza a quella sentenza irrevocabile sentì crollare tutto il sogno americano. L’Eden che aveva imperiosamente cercato e che credeva di aver trovato svaniva con quella diagnosi crudele. Si dedicò molto a Elisabeth trascurando il lavoro cui si applicò svogliatamente. Cominciò a vedere tutto con gli occhi del dolore e con la mente distorta dalla pena. Il suo mondo americano, del quale in definitiva non aveva ancora goduto, confinato com’era nel sordido quartiere del Bronx, era in frantumi dinanzi a sé. Poteva dire di conoscere bene il quartiere di Chinatown poiché vi lavorava ed anche vi oziava con pochi conoscenti cinesi. La sua vita si spostava sotto un diverso raggio del destino. Tutto cominciò ad apparirgli svisato come una pagina sfogliata in fretta che non permette di focalizzare bene l’immagine. Ne risentì tanto.
Elisabeth sfioriva ogni giorno di più e non riusciva ad abbandonare il letto. Trascorreva le sue giornate supina, svuotata di ogni forza, assistita dalla vecchia madre e da “Little Angel” che trascorreva le sue ore libere aggrappato a lei con la volontà intima di darle forza, ma con la segreta ansia di salvare se stesso sentendosi affondare. Era stata il suo scoglio consolatore su cui si era adagiato e rasserenato.
La cara compagna di Angelo si aggravò; reagiva soltanto con li occhi che piano piano si spegnevano.
Fu la fine.
Il signor Piazza si sentì improvvisamente estraneo in quella terra, come calatovi da una mano misteriosa. Ebbe più grave il complesso del clandestino e percepì la sua estraneità in quel luogo.
Il suo lavoro ne risentì, le sue fantasie artistiche si esaurirono presto. Fu richiamato ad una maggiore efficienza dai signori Hagger, che dapprima lo rincuorarono, ma ben presto furono costretti a ventilargli il licenziamento anche se era stato loro raccomandato da mister De Lisi.
A quel punto il professore stravide l’America dei suoi sogni; la mente esasperò la sua condizione di straniero e sentì l’assenza delle proprie radici in tutta la cruda verità. Credette che tutti, destino compreso, tramassero contro di lui fino a che un odio muto, corrivoso cominciò a covargli dentro. Maledisse il giorno in cui aveva lasciato la Sicilia. I rapporti con i colleghi si deteriorarono per la sconsiderata visione distorta che ebbe della vita e si abbandonò a stranezze sostenute dall’alcool. La sua mente ne risentì. Il livore verso tutti fu manifesto. Venne evitato da tanti anche per la violenza che tra i fumi del bere manifestava.
Fu consapevole di scivolare in fondo alla china e capì che il licenziamento era quanto mai prossimo.
Ebbe, però, un ravvedimento temporaneo quando seppe di un’ordinazione tra le più importanti che mai avesse ricevuto la ditta “Hagger and son”. Si voleva la più bella, la più imponente statua di ghiaccio per una festa di commiato ad un generale tra i più alti di grado dell’esercito americano.
Il signor Piazza fu interpellato dal signor Hagger prima di accettare l’ordinazione, se si fosse sentito all’altezza della situazione e con lusinghe e promesse varie, accantonato il ventilato licenziamento, fu prescelto per l’esecuzione. Soltanto lui, a parere del signor Hagger, avrebbe potuto realizzare l’opera che gli era stata richiesta.
Si trattava di una fontana di grande coreografia, un vero merletto cui bisognava applicarsi con intensità creativa. Illuminata ad arte avrebbe reso in pieno ogni preziosismo profuso.
La ditta tenne i contatti con l’amministrazione militare che volle garantita la perfetta esecuzione come da dimostrazione fotografica, ma soprattutto la puntualità nella consegna.
Il signor Piazza accettò l’incarico. Pensò di dimostrare che non era “scaduto”, come era stato definito. Volle superare se stesso. Lavorò veramente tanto accostandosi all’impresa con determinazione e rabbia. La fontana richiesta era una tra le opere più impegnative da realizzarsi. Una volta soltanto era stata eseguita da uno scultore cinese deceduto da tempo ed in quell’occasione la ditta si era imposta ad ogni altra.
I militari committenti ne erano rimasti affascinati scorrendo l’album dimostrativo e la pretesero non badando all’alto prezzo.
Il signor Piazza chiese soltanto la collaborazione di Sammy, un ragazzo negro servizievole che gli si era legato di sincero affetto e che spesso gli ricordava la vana promessa di condurlo con sé a Palermo.
Infreddolito, ma sempre saldo, menò colpi su colpi per due giorni, finché dovette lavorare di fino agli intarsi, agli intrecci e a quanto desse l’idea di un fiabesco d’acqua dai riflessi azzurri.
Si sostenne in quei giorni con magri bocconi che gli procurava Sammy e whisky, dormendo poco per la responsabilità che si era assunta, per cui, distrutto nel corpo e nella mente, arrancò nel finale, ma pressato dal tempo e dalla parola data mantenne il suo impegno al colmo di una stanchezza anche mentale. Impiegò circa una settimana alla realizzazione, giusto in tempo perché la scultura fosse trasferita nel luogo stabilito per la festa che ebbe inizio appena collocata nel grande salone tutto ori e stucchi. Le luci colorate, sistemate ad arte tra le molte piante decorative, ne accrebbero la fantasmagoria.
Tanta gente elegante in divisa o smoking e belle signore in lungo sfoggianti abiti firmati da noti stilisti cominciarono a presentarsi mostrandosi lieti di rivedersi. Gli uomini, più distaccati, esibivano le loro figure e gradi militari, manifestando contemporaneamente una familiarità controllata. L’ambiente quanto mai raffinato fu subito saturo di profumi femminili e fumo di sigarette. I camerieri indaffarati in marsina e guanti bianchi provvedevano ad esaudire ogni richiesta mentre l’orchestra formata da otto elementi attaccava il primo ritmo allegro. La gente ritrovandosi, indugiava nei convenevoli con il generale festeggiato ed i suoi familiari.
L’orchestra suonò cinque o sei motivi perché si muovessero alcune coppie per il primo ballo; altre ne seguirono ed il salone fu subito pieno di coppie vorticanti. Si videro passare i primi vassoi colmi di tartine e liquori mentre l’orchestra passava da un ritmo allegro all’altro. Il tono della festa si elevava e le prime risate femminili echeggiavano. Al momento in cui s’udirono le prime note di “Stardust” di Carmichel, anche gli anziani, rimasti in disparte o nelle stanze attigue, si lasciarono scivolare languide. Una sapiente regia abbassò le luci e la festa ebbe la sua chiara impronta.
La serata era bene avviata e la fontana che era stata sistemata personalmente dal signor Piazza inviava i suoi riflessi iridescenti dal centro del salone. Le luci erano state distribuite ad arte e la scultura era stata motivo d’ammirazione da parte di tutti; alcuni si fecero ritrarre dinanzi ad essa.
La festa aveva preso il giusto ritmo, complici i buoni liquori; cadenzava le sue ore nell’allegria generale sottolineata dalla misura della buona orchestra.
Nelle stanze attigue al salone delle feste, tra divani in pelle e ricordi fotografici di trascorsi militari, stavano i più anziani ufficiali sorseggiando e ricalcando triti discorsi politici e militari per deformazione professionale. Facevano tutti corona ad una grossa personalità politica intervenuta per l’occasione. A metà serata l’orchestra fu fatta tacere.
Tutti lentamente si avvicinarono al palco dell’orchestra, dove il Segretario di Stato Darwin, la persona più autorevole presente, iniziò al microfono quasi sottovoce un discorso di commiato all’indirizzo del generale festeggiato. Fu dapprima letto un messaggio personale del Presidente degli Stati Uniti, vivamente applaudito e tutto ciò che fu detto in seguito ricalcò altri discorsi pronunciati in analoghe circostanze.
L’anziano ufficiale che lasciava l’esercito per raggiunti limiti d’età, capelli bianchi, sguardo a terra, visibilmente partecipe del momento, ascoltava in divisa come pietrificato. Al momento del dono di una targa d’oro da parte dell’amministrazione militare, tradì una profonda emozione che cercò di dissimulare con grande sforzo nelle poche parole di ringraziamento.
L’attenzione di tutti era vivissima; i discorsi erano stati sottolineati da discreti applausi. L’aria in sala era quella che si conviene per certa classe elitaria. Il Segretario di Stato si avviava alla conclusione quando dal lato opposto al palco s’udì un brusìo che, prima che si cercasse di zittirlo, salì di tono fino ad interrompere l’oratore.
Non fu facile capirne il motivo, ma quando si creò un vuoto tra la gente che mormorava intorno alla fontana ci si avvide dell’acqua che bagnava parte del pavimento. Il disorientamento dei responsabili del club fu chiaro ed il loro imbarazzo accrebbe la colpa di una cattiva organizzazione. In realtà tutto era stato predisposto per una ottima riuscita della serata. Nessuno poteva prevedere un incidente del genere, mai accaduto prima.
Fu presto spiegato l’arcano. L’acqua proveniva dalla fontana che stava liquefacendosi rapidamente in un ammasso informe di ghiaccio. L’eccessivo calore del luogo, ma soprattutto l’insana vendetta del “professore” stavano provocando uno spettacolo tutto da vedere. L’oratore interrotto restò con gli occhiali sulla punta del naso a guardare attonito in giro tra gli agenti in scuro dell’F.B.I. Le signore saltellavano con le gonne sollevate su gambe più o meno interessanti. Tutti sembravano danzare un ridicolo minuetto degno del miglior Duvivier.
Il panico in sala, tra il divertimento e la stizza fu tanto. Molti si rifugiarono nelle stanze attigue dove tante signore restarono scalze sulla moquette con le scarpe in mano. Le imprecazioni a voce alta provenivano da ogni lato; s’inveì contro il responsabile che non aveva provveduto a prevenire un caso del genere. Si cercò d’intervenire nel macchinario sottostante la pedana metallica della scultura, ma invano.
Sarebbe bastato, a saperlo, collegare certi fili elettrici che erano stati strappati dal professore consapevole di ciò che sarebbe accaduto. La muta, corrivosa vendetta del signor Piazza contro l’avverso destino era in atto. Un modo quanto mai insano era stato scelto per gridare il proprio dolore in un gesto muto.
Il guardaroba, dopo i primi minuti di confusione, fu preso d’assalto tra proteste e mormorii. In quel momento i generali presenti manifestarono il proprio biasimo al colonnello responsabile del club che, sull’attenti e con le scarpe in acqua, biascicava scuse unite a propositi di dimissioni.
Qualcuno tirò in ballo la Casa Bianca mentre il Segretario Darwin veniva trasportato a braccia dal palco nelle stanze attigue. Le scuse degli organizzatori s’intrecciavano con le rauche espressioni d’insufficienza organizzativa. Il generale cui era dedicata la festa si era ritirato in una sala attorniato dai familiari e da giovani ufficiali, chiudendosi in un malinconico mutismo. Teneva tra le mani la scatola preziosa con il dono ed era come assente.
Il signor Piazza vagò tutto la notte tra un bar e l’altro. Bevve tanto fino a rimettere. All’alba fu svegliato in malo modo da un cameriere che era uscito dal bar ristorante per svuotare nel vicolo adiacente un bidone d’immondizia. Si destò indolenzito e si accorse del luogo malsano in cui si trovava. Capì d’aver trascorso la notte lì per terra tra il sudiciume di ogni genere in compagnia forse dei topi dei quali aveva ribrezzo. Quest’ultima visione lo fece scattare, ma barcollò e ricadde. Meditò un po’, raccolse tutte le forze e lentamente si sollevò.
Come sorgente dal suo inconscio gli apparve tutta la gravità del suo gesto e ne fu soddisfatto, ma avvilito; non provò rimorsi. Secondo lui l’America e gli americani erano serviti. Pur con questa magra consolazione, tra i fumi dell’alcool non ancora smaltiti, sentiva un che di disteso dentro di sé. Con le palpebre socchiuse ed il capo ciondolante s’avviò senza meta.
Fu cercato per giorni con rabbia da persone sguinzagliate dai suoi datori di lavoro i quali, esigendo una spiegazione, gli avrebbero comunicato il suo licenziamento e, certamente, una denuncia per danni subiti, nonché pestarlo bene.
Del fatto increscioso fu subito informato mister De Lisi che manifestò il suo disappunto senza saper dare notizie del ricercato, né spiegazioni in merito. In cuor suo, però, meditò una severa lezione per il suo raccomandato incaricando Casimiro ed un brutto ceffo di scovarlo. La sua rispettabilità era stata tradita.
Quattro o cinque giorni trascorsero senza che si riuscisse a scovare il signor Piazza, il quale, vagando senza meta e quasi senza memoria, si ritrovò un mattino nei pressi del palazzotto di don Joe. Forse l’inconscio bisogno di protezione lo aveva spinto da quelle parti. Meditò a lungo prima di presentarsi al boss, sapendo dell’ira che lo avrebbe accolto e delle relative conseguenze. Quasi un senso di autodistruzione unito al bisogno struggente di tornare alla terra che lo aveva generato lo spinse a cercare rifugio presso l’uomo “rispettabile”.
Don Joe, dunque, se lo trovò dinanzi malfermo sulle gambe e con i segni chiari in viso di un alterco avuto sulla metropolitana.
Ma per quell’uomo che venne a consegnargli l’anima in uno sfogo spezzato da singhiozzi non ebbe pietà rimproverandolo aspramente con un tono di voce ben diverso da quello che gli si conosceva.
Il signor Piazza, seduto, con il capo curvo sulle ginocchia, ripercorse l’itinerario infelice della sua avventura americana, i suoi errori e quant’altro servì per uno sfogo che sturava ogni comprensione dolorosa dopo la morte di Elisabeth.
Mister De Lisi mantenne la sua severità nella voce con parole quanto mai dure. Ma in cuor suo capiva il grande sconforto dell’uomo. Tenne a mostrarsi severissimo finché un lungo silenzio calò tra i due.
Angelo Piazza, con una voce che sembrava d’oltretomba, calpestando il proprio orgoglio, si rimise alla comprensione del boss chiedendogli di ospitarlo in un luogo qualsiasi, ma soprattutto implorando di farlo rimpatriare al più presto; il richiamo della sua città era struggente. Voleva lenire le sue pene.
Fu chiamato Casimiro che ebbe affidato quel relitto d’uomo per il quale provvide a una sistemazione provvisoria nel magazzino delle merci in deposito.
Il professore trascorse lì una ventina di giorni aiutando gli operai in mansioni di carico e scarico finché non venne informato da Casimiro della imminente partenza che avvenne una grigia mattina di marzo. Il vecchio boss si limitò ad abbracciarlo con un certo distacco e ad augurargli un buon viaggio affidandogli una piccola valigia ben pesante, chiusa e senza chiave. Avrebbe dovuto consegnarla a don Salvatore Aquino a Palermo. Si trattava di un piccolo regalo all’amico palermitano: così ebbe detto.
Casimiro lo condusse al porto e lo consegnò al capitano di un moderno mercantile.
A bordo di esso si adattò subito, lavorò e familiarizzò con i marinai, ma sentiva di non essere più l’uomo ricco di speranze del viaggio d’andata. Erano trascorsi quattro anni che gli pesavano tanto insieme agli altri.
Anche la monotonia di quest’altro viaggio per mare finì ed un radioso mattino di quel marzo in una luce a lui familiare intravide il Monte Pellegrino sopra il porto a sentinella della città. Quella sagoma caratteristica gli sembrò una persona viva, amica. Fu preso da intensa commozione in un tremito intimo. Respirò quell’aria ritrovata ed ebbe la certezza che messo piede a terra avrebbe risentito nuova linfa nelle sue vene.
Ma l’impatto con la sua città fu traumatico. Al porto stesso fu fermato da due finanzieri in borghese che vollero conoscere il contenuto della valigia. Fu pronto a dire che avrebbe dovuto consegnarla ad una persona della quale non intendeva dire il nome.
Il contenuto si rivelò di assoluta gravità tanto da tramortire lui stesso. Si trattava di droga, eroina purissima, che fu sequestrata e lui associato al carcere dell’Ucciardone.
La vita d’inferno che subì in quel luogo maledetto, tra maltrattamenti morali e fisici, si aggiunse alle sue frustrazioni. L’avversa fortuna ed i pensieri che lo arrovellavano lo avevano condotto a tentare due volte il suicidio. La mente ne aveva risentito. Distrutto da oltre quattro anni di detenzione, esasperato nell’animo, uscì da quel luogo tristissimo come cane rabbioso. La sua imponenza sembrava svanita; malfermo sulle gambe, curvo in avanti si diresse d’istinto in Via Chiavettieri, 20 attratto da un richiamo irresistibile.
Teresa, che gli era rimasta nel cuore, non si era fatta vedere durante la detenzione, pur essendo stata informata.
Meditava su questo mentre percorreva il popolare quartiere che lo aveva visto nascere. Non gli sembrò per nulla cambiato; credeva di essersi allontanato il giorno prima. Rivide tanti visi familiari e tanti gesti a lui noti. Cespi di cattivi pensieri s’affollavano nella sua mente accesa ed adesso che avvertiva financo gli odori dei suoi luoghi felici teneva basso sugli occhi il cappello di feltro nero per non essere notato.
Nessuno riconobbe in quel relitto di uomo il “professore”, un uomo sconfitto dal destino che tornava a casa a leccarsi le ferite. Veniva a chiedere clemenza per i suoi errori.
Teresa non era in casa; aveva lasciato la porta d’ingresso a vetri socchiusa.
Il signor Piazza stentò a riconoscere la sua bottega se non dal numero civico.
Entrò di soppiatto e notò il radicale mutamento avvenuto. La sua “putìa”, quel luogo polveroso ma accogliente, era irriconoscibile per la sobria disposizione dei mobili e degli oggetti; ne riconobbe alcuni, ma non era proprio certo di essere entrato in casa sua. Si aggirò perplesso in quel soggiorno luminoso come non lo aveva visto mai e d’istinto salì al piano superiore su una invitante guida rossa. Gli venne di pensare che Teresa fosse tornata alla sua vecchia professione e ne fu sconvolto. Si augurava di essersi sbagliato di casa, ma riconobbe i ritratti religiosi ed il rosario di legno di rosa appeso al muro. La visione d’insieme delle due stanze superiori lo sorprese alquanto. Nella chiara luce delle pareti ridipinte scorse un mobilio nuovo di buona fattura, un letto matrimoniale a lui sconosciuto e due lampadari di sicuro pregio. I vari specchi esterni dell’armadio riflessero la sua immagine stravolta e quando lo aprì rimase allibito per il suo contenuto: due pellicce e tanti vestiti profumati di quel profumo che egli era solito regalare alla prima occasione lieta. Prese forza in lui l’idea che Teresa fosse tornata alla sua professione di meretrice che tanto aveva detto di disprezzare. Non ebbe più dubbi.
Meditava stupefatto con il cuore in tumulto quando dal pianterreno si udì aprire con sicurezza la porta a vetri d’ingresso.
Teresa era rientrata con fagotti vari e saliva la breve rampa di scala…
***
Il vecchio barbone che viveva isolato alla periferia della città verso Ciaculli in una stamberga tutta assi e lamiera dinanzi ad uno stentato orticello e che provvedeva ad una decina di galline era proprio il signor Piazza. Curvo in avanti per una vecchia ferita d’arma da fuoco che lungi dal rimarginarsi si era incancrenita, trascorreva le sue giornate leggendo tutti i giornali che reperiva, fumando una vecchia pipa e scrivendo filastrocche per bambini. La sua vera passione era, però, rimasta la risoluzione di quiz enigmistici e matematici.
Due cani salvati dalla crudeltà dei ragazzi gli giravano intorno e tre gatti guardinghi poltrivano sul suo giaciglio.
Era irriconoscibile l’anarchico dalla voce tonante, il poeta degli amici, colui che cementava le più assortite amicizie. Era ridotto all’emarginazione per propria scelta; viveva tra lerciume e balle di cartone che raccattava e rivendeva per poche migliaia di lire.
Questo era l’uomo che sparò a don Salvatore Aquino, uccidendolo, dopo aver ricevuto un ennesimo rifiuto di riconciliazione da Teresa che non volle perdonargli il suo abbandono immotivato.
Don Salvatore, fulminato nella piazzetta del Garraffello alla Vuccirìa dinanzi ad una bancarella di vendita di polpo bollito, restò riverso con gli occhi sbarrati e la bocca colma del gustoso mollusco dopo aver anch’egli sparato un colpo all’indirizzo del professore. Questi trascorse ancora sette anni all’Ucciardone per quell’omicidio e, malgrado fosse stato elevato ad un alto rango di rispettabilità nel quartiere per il coraggio dimostrato, preferì isolarsi nella sua stessa città che cresceva a dismisura sotto i suoi occhi.
Una gelida mattina di febbraio in cui, caso rarissimo, Palermo si era destata sotto una coltre di neve, fu trovato morto assiderato dalla signora Maria, sua vicina, unica persona a cui aveva rivolto parola.
La Trappola
Il signore longilineo che sedeva dinanzi al Commissario cercò di concentrarsi per descrivere la scena alla quale aveva assistito con la figlia.
Alla sollecitazione del funzionario, cominciò con voce tremula: - Mi trovavo con mia figlia Vanina in quell’agenzia, appoggiato al bancone in attesa del mio turno per espletare una operazione ed avevo una certa fretta che… adesso non ho più.
Ricordo perfettamente che guardavo alla mia sinistra un po’ assente perché sapevo che avrei dovuto attendere con pazienza il mio turno.
Improvvisamente, un uomo molto giovane, per lo scatto che dimostrò, saltando in due tempi il bancone, si presentò nello spazio riservato agli impiegati con una pistola spianata e senza parlare indirizzò loro l’arma al fine di immobilizzarli.
Ho ancora nelle orecchie – continuò il distinto signore – il rumore secco dei suoi tacchi sul bancone.
Il testimone deglutì e con un sospiro profondo, quasi volesse dare più fiato a ciò che avrebbe detto ancora, continuò, dopo aver rivolato uno sguardo a sua figlia che gli sedeva accanto.
- Comunicai sottovoce a mia figlia che in quell’istante avveniva una rapina e la invitai a rimanere immobile e a non preoccuparsi.
La giovane, una biondina esile, annuiva alle parole del padre che continuò:
- Ebbi il tempo di riferire ciò che avevo visto ed eravamo immobili, quando proprio alle nostre spalle, una voce che non tradiva alcuna emozione ci invitò senza perentorietà, quasi con confidenza a restare calmi, che non sarebbe successo nulla di grave ed aggiunse di sdraiarci tutti per terra.
Era un altro bandito che dimostrava molta padronanza di se e teneva la pistola rivolta quasi verso il basso.
Il pavimento – continuò il testimone volontario – si riempì di gente sdraiata nei diversi sensi e ciò avvenne con una certa calma e direi quasi in silenzio. A questo punto notai che un altro bandito a viso scoperto anch’egli, aveva fatto uguale azione di invito un po’ più in là. La filiale è abbastanza vasta. Solo due stavano in piedi. Un bimbo di pochi anni accanto a noi cominciò a lamentarsi per l’insolita posizione assunta insieme alla madre per terra.
Il giovane bandito vicino a noi, quasi sottovoce e con fare suadente invitò la signora a far tacere il bimbo, ripetendo che non sarebbe accaduto nulla di grave. Il bimbo si acquietò presto.
Io e mia figlia – proseguì – non avevamo lo spazio necessario per distenderci e così restammo seduti per terra con le spalle appoggiate alla base del bancone e con lo sguardo rivolto verso il pavimento, anzi mi portai la mano destra a visiera davanti gli occhi dato che il nostro bandito stava a meno di un metro di distanza. Non volevo guardarlo anche se ne avevo una gran voglia.
Il testimone volontario si assestò meglio sulla sedia e proseguì:
- A quel punto, signor Commissario, io cominciai a ridacchiare in un moto spontaneo d’ilarità e, a mia figlia che appoggiava il capo sulla mia spalla, dissi sottovoce:
- Guarda questa scena, guarda!
Essendo infatti la porta d’ingresso proprio di fronte a noi, notai che i clienti, continuando ad entrare nella filiale, venivano ghermiti alle braccia o al vestito ed attirati dentro alla svelta e fatti sdraiare per terra.
La meraviglia che leggevo nei loro occhi era infinita; il disappunto di alcuni ed il terrore di altri mi provocavano, e me ne scuso, un senso d’ilarità fino a che, attraverso le dita a visiera sugli occhi, mi accorsi che stava per varcarla una signora grassoccia e ben vestita che teneva una sigaretta accesa nella mano destra, a mezz’aria e con una certa classe.
Fu subito anch’ella afferrata per un braccio ed attirata all’interno dal bandito che evidentemente ne aveva l’incarico.
Ricordo, però, che costui si esprimeva in un dialetto meridionale, ma a mio parere, volutamente falsato da una imperfezione labiale, come se tenesse qualcosa tra i denti.
La signora, bene in carne, dallo sguardo smarrito trovò tante persone sdraiate ai suoi piedi e si lasciò scivolare in avanti proprio dinanzi a noi rimanendo bocconi con la veste sollevata oltre le calze e con il gomito destro poggiato per terra al fine di sostenere la sigaretta accesa tra le dita.
Sorridevo – signor Commissario – ma avrei voluto ridere di gusto.
Il Commissario si agitò sulla sedia, ebbe un moto di insofferenza ed alzandosi in tutta la sua figura di perfetto play-boy interruppe il testimone volontario.
Ebbe inizio così un vero interrogatorio con domande precise del Commissario che esigeva risposte definite nei dettagli anche dei vestiti dei rapinatori.
Al testimone furono mostrate molte foto segnaletiche senza successo. La stanza del Commissario, dall’aria irrespirabile per il fumo delle sigarette, risuonò di domande poste con bonarietà apparente e risposte talvolta precise e tal’altra evasive infarcite di diversi “non ricordo bene”.
La volontà del testimone di collaborare era, però, sincera. La rapina, si disse subito, aveva fruttato diverse centinaia di milioni.
Il poliziotto privato di guardia alla filiale, interrogato dalla polizia spiegò che al momento della rapina non si era trovato dinanzi l’agenzia bancaria per scelta di una sua strategia che gli faceva preferire vigilare dal bar di fronte, dove però fu prelevato di sorpresa con una pistola puntata di fianco. Condotto nella filiale fu fatto sdraiare a terra con gli altri, dopo essere stato disarmato. Gli furono rivolte frasi minacciose che a parere del testimone facevano parte del copione della classica rapina che, però, fu improvvisamente interrotta dal bandito di guardia all’interno dell’ingresso che con il suo accento falsato strillò verso i complici che un uomo che stava per entrare in banca, era ritornato sui suoi passi intuendo qualcosa e che egli non aveva potuto attirarlo dentro.
Breve consultazione dei tre cui si era aggiunto quello che aveva sequestrato il vigile e con calma il gruppetto esce sul marciapiede dileguandosi su due auto.
Svaniti.
La confusione dentro la filiale a rapina avvenuta era al massimo.
Il direttore invitò alla calma e annunciò che ogni operazione era sospesa e rimandata all’indomani per verificare il danno subito.
La polizia era stata avvertita. Il pubblico venne fatto defluire attraverso la porta ottusamente tenuta accostata da un inserviente.
Il vigile di polizia privata visibilmente scosso, alzando il tono della voce, prescelse alcune persone per testimoniare sull’accaduto, ne trattenne un gruppo di cinque o sei che però si dichiararono non idonee al caso per lo spavento subìto.
Fuori la giornata era abbastanza fredda; molti si trasferirono al bar di fronte per sorbire una bevanda che li rimettesse dallo shock.
L’emozione era stata intensa per tutti. Il proprietario del bar ed il cameriere avevano visto la scena del sequestro, inconsapevoli.
La polizia iniziò le indagini sul luogo ed in diretto collegamento con la centrale operativa.
I banditi si dileguarono tanto fulmineamente che sembravano essere entrati nel palazzo accanto.
***
Cambia il paesaggio; da urbano diviene montano.
Un’auto sfreccia in direzione nord del paese lasciandosi dietro le ultime case di periferia. Percorre una strada di montagna in salita, panoramica.
Il paesaggio è stupendo verso valle; una conca fertilissima si distende in grandi toppe di verdi diversi. Verso la montagna, lunghe lingue di neve lambiscono le ultime case dei contadini. Al passaggio dinanzi un albergo i tre banditi di una delle auto notano un posto di blocco della polizia; ciò li allarma, ma proseguendo ad andatura normale accodandosi ad altre due auto, una delle quali viene fermata per un controllo.
Il paesaggio va imbiancandosi; la neve abbondante caduta durante la notte ha disteso i suoi bianchi lenzuoli ed il silenzio antico è stracciato da un’auto rabbiosa che sale in direzione di un villaggio dove è attesa.
Nell’auto nessuno parla; tutti e tre sono tesi a guardare fuori; due hanno la pistola in pugno. Il sacco di plastica con tutto il bottino è poggiato giù tra i sedili anteriori e posteriori.
Ognuno di loro anche se sotto viva tensione si perde dietro pensieri che spaziano già lontano sul futuro impiego della propria parte.
Il sacco è abbastanza ingombrante e Gavino, il bandito riccioluto e nero, come era stato descritto dal testimone, gli tiene un piede sopra come per proteggerlo.
L’auto procede bene fino a che l’uomo alla guida chiede ai complici se sia il caso di montare le catene alle ruote.
Senza attendere risposta accosta a destra ed una rapida consultazione visiva ottiene la decisione affermativa.
L’aria è davvero gelida ed ogni parola espressa produce piccole nuvole di vapore.
Il villaggio sta per essere raggiunto da lì a poco e tensione, acuendo la loro sensibilità, fa avvertire qualcosa di indefinibile che impone una certa prudenza ed un’andatura più che normale. Le misteriose antenne del loro istinto allenato percepiscono il pericolo.
Non si sono sbagliati poiché in prossimità di un bivio, non distante da un altro albergo per sciatori in vacanza, staziona una camionetta con tre carabinieri, due dei quali impugnano un mitra.
Il posto di blocco è stato disposto su segnalazione radio e le rare auto che transitano per quel passo vengono quasi tutte fermate per un controllo.
I tre banditi debbono giocare una delle carte più importanti della vicenda. Non possono tornare indietro perché credono di essere stati avvistati e poi sarebbe una evidente indicazione.
Si decide di avvicinarsi in tranquillità al posto di blocco ed usare quella tecnica che spesso dà buon esito.
Ma la fortuna, se esiste, non assiste facilmente.
L’auto si avvicina rallentando mentre il brigadiere impone l’alt con la paletta e con un fare professionale.
A circa un metro dal carabiniere, però, ha uno scatto improvviso e le ruote stridendo, schizzano neve e fango.
Gli spari sono numerosi da ambo le parti; l’auto sfrecciando sbanda paurosamente prima a sinistra e poi a destra.
Viva è l’agitazione tra i banditi finché Gavino non parla più; ha gli occhi sbarrati e la bocca dischiusa, si regge con la mano sinistra alla maniglia della portiera. Ha abbandonato la pistola fumante sul sedile. Tenta di parlare, ma si abbandona reclinando la testa all’indietro.
L’auto prosegue veloce, ma il villaggio dove erano attesi è posto nell’altra direzione del bivio.
Rabbia e bestemmie si alternano, constatata la gravità di Gavino e la direzione sbagliata.
***
I carabinieri che avevano istituito il posto di blocco più alto, impossibilitati ad inseguire quell’auto di grossa cilindrata, sono in collegamento radio con la centrale operativa che dispone subito l’intervento nel giro di una manciata di minuti di un elicottero che sorvola la zona che gli è stata indicata.
La neve è molto alta anche per un’auto fornita di catene poiché da quella zona in poi non è passata di recente la spazzaneve.
Tutta la freddezza dimostrata durante la rapina è scomparsa di colpo. Un soffio di morte si è inserito tra di loro ed ha ghermito.
E’ in ballo adesso la loro salvezza ed i nervi già non reggono più. Si sentono in trappola anche se grande quanto un immenso paesaggio.
I due banditi sanno che non saranno inseguiti dalla camionetta dei carabinieri, ma da un eventuale elicottero.
Il tempo si fa minaccioso; nuvole basse sul loro percorso danno l’impressione di vagarvi sopra. Verso valle il cielo è di uno spento viola. Si concedono una sosta di riflessione; la benzina è sufficiente, ma non potrà portarli lontano.
La strada non è stata spalata di fresco perché è una zona poco frequentata dagli sciatori. Il silenzio è assoluto.
A motore spento odono il proprio respiro affannoso.
Il morto poi, riverso sullo schienale posteriore è certo presagio di qualcosa di impalpabile mortale. Il freddo è intenso ed i due sciacalli non indossano abiti adeguati per simili temperature.
Decidono di sbarazzarsi di Gavino, capo della banda, lasciandolo rotolare per il breve declivio. Si fermerà supino con gli occhi sbarrati al cielo. Viene sommariamente coperto da mucchi di neve e l’auto riparte in salita verso una meta indefinita.
E’ assurdo pensare di rimanere in auto; l’assideramento sarebbe garantito. Procedono dunque lentamente alla ricerca di un riparo qualsiasi, anche una grotta, che possa accoglierli.
Sanno che tra poco potrebbe ghermirli un elicottero, come falco sul coniglio, e l’auto che adesso ha stentato a ripartire per l’eccitazione dell’uomo alla guida, prosegue su una strada il cui tracciato è quasi del tutto scomparso. Unica loro guida sono le aste di ferro infisse al suolo dipinte a fasce orizzontali rosso e giallo che segnano il bordo della strada a lato valle; fuoriescono dalla neve e ne indicano ad occhio l’altezza.
A bordo dell’auto, dopo brevi maledizioni mormorate, iniziano le accuse reciproche in una esplosione di rabbia repressa.
Il conducente è accusato dall’altro di aver preso la strada sbagliata quando si sono presentati al bivio e quegli rintuzza che data la sparatoria e la fuga a zig-zag era stato costretto dall’altro carabiniere che si era presentato più avanti tenendoli sotto tiro.
La neve adesso ha uno spessore tale che l’auto affonda per più di mezza ruota ed appare evidente che il proseguire è vano.
Gli sguardi dei due spaziano nell’immensità di un mare ondoso di neve che con i suoi declivi boschivi è di una suggestione indescrivibile.
La luce del giorno sta per lasciare il suo posto alle prime ombre della sera quando d’improvviso, sul punto di cedere allo sconforto, come per miracolo, ad una svolta di un costone, appare in basso una baita posta su di un breve piano, quasi nascosta dagli alberi innevati.
Poche esclamazioni di giubilo salutano la sorpresa. La baita è alla loro portata, ma per raggiungerla occorrerà scendere di un centinaio di metri a piedi poiché la stradella è completamente cancellata dalla neve.
La decisione di raggiungerla è presa d’istinto, ma l’auto verde scuro, certamente segnalata, è facilmente identificabile dall’alto di un elicottero, per cui i due decidono di abbandonarla sotto alcuni alberi coprendola in gran fretta con mucchi di neve prima di allontanarsi.
L’auto è così sommariamente mimetizzata a prezzo di crudeli sacrifici per le mani rese quasi congelate anche se guantate.
Esaurita l’operazione ed in procinto di allontanarsi, giunge distinto ed improvviso il rumore di un elicottero che sorvola la zona, ma molto distante da loro. Appena rassicurati fuoriescono dall’auto dove si erano rifugiati ed iniziano la discesa verso il rifugio provvisorio.
La difficoltà di procedere in discesa, con la neve molto alta, è enorme, specialmente se si deve trasportare un carico pesante quale un sacco colmo di banconote.
I due affondano nella neve fino al bacino e con estrema fatica raggiungono lo spiazzo sottostante. La sofferenza dei due uomini è infinita, è tutta tesa al traguardo di una capanna di legno dove la coltre nevosa ha quasi coperto le due piccole finestre e la porta d’ingresso.
L’elicottero non si sente più, tranne che a tratti; l’inclemenza del tempo e l’oscurità incipiente ne sconsigliano l’uso.
I due uomini sanno di aver lasciato tracce vistose del loro passaggio, ma sperano in una nevicata nella notte che cancelli ogni cosa.
La baita è raggiunta, ma sembra che insieme all’idea del rifugio vi sia anche quella di una trappola tesa loro da un destino avverso.
Essa è inconfessata tra i due miseri, ma latente.
Le mani già provate dal gelo, adesso sono all’opera per creare un varco d’ingresso alla capanna. La fatica esaurisce i due uomini.
La porta, questo diaframma di legno che li separa da un tetto-rifugio cederà di schianto ai calci dei due disperati.
L’interno è desolante, ma offre una certa tranquillità pur con l’inquietudine che serpeggia tra i due per le accuse reciproche mormorate.
Nella distensione apparente del momento si fa già strada l’idea del cibo che mancherà, ma a parere loro la particolare situazione potrà essere superata come altri momenti di angoscia vissuti.
Il freddo è intenso. Una strana sensazione dei due, appena entrati è quella che all’interno vi sia più freddo che fuori.
Legna da ardere ve n’è nell’angolo accanto al camino, ma quanto potrà durare?
Un buon fuoco è acceso e due pagliericci maleodoranti ed umidi accolgono i due provati da fatica e forti emozioni.
***
Distesi a fumare l’ennesima sigaretta, dopo uno sguardo fuori dalla finestra all’immensità nevosa che già si ammanta di scuro, restano tesi in uno sforzo spasmodico di percepire qualsiasi rumore proveniente fuori. S’avverte soltanto qualcosa che sbatte all’esterno con cadenza per il vento.
Il tramonto, carico di nuvole colore cenere, accresce quel senso di oppressione che già alita nella capanna.
L’elicottero è rientrato alla base; tornerà domani se le condizioni metereologiche lo permetteranno.
E’ iniziata la sfida di due miserabili alla natura, più che alla legge. Il buio all’esterno ora è totale ed il cielo senza stelle promette una nevicata.
All’interno della baia c’è solo il fuoco ad essere vivo; i due uomini sembrano fantocci inanimati. Le lingue di luce del camino proiettano sulla parete di fronte una danza grottesca. Solo lo schioppettare dei ciocchi anima quel luogo. I due, immobili, calati nei loro pensieri vagano con la mente fino a perdersi in un sonno profondo, ma agitato.
La radio nel pomeriggio ha annunciato la rapina in quel paese di montagna precisando l’ammontare della somma rubata ed il ferimento di due carabinieri, uno dei quali, il brigadiere, in modo grave:
“I sanitari si riservano la prognosi dopo un delicato intervento chirurgico”.
Le fredde, distaccate parole dell’annunciatore passano quasi inascoltate in ogni casa; la notizia fa parte della routine quotidiana.
Due drammi sono in atto.
Il sonno dei due disperati è agitato fino al punto che uno di loro, Tano l’autista, svegliandosi di soprassalto per un incubo, si accorge che il fuoco è quasi spento. Si alza di malavoglia per aggiungere nuova legna e ravvivarlo.
Il fuoco ha un suo fascino, ha il potere di coagulare i pensieri che si inseguono e si perdono in un errare muto; conduce lontano a vagare per terre sconosciute o al contrario invita alla introspezione.
Il bandito, così, rivede tra i suoi pensieri le fasi della rapina e il sacco di plastica, per cui, spinto da legittima curiosità, ne esamina appena il contenuto. L’impressione che ne riceve è magnifica tanto da infondergli una certa euforia subito repressa dall’evidenza della loro situazione. Il suo stomaco, però, brontola e reclama la sua razione di cibo venuta a mancare. Rovista allora nei più riposti anditi del mobilio essenziale e la ricerca viene premiata con scatolame di diverso genere unitamente a gallette dure come pietre, ma nulla da bere.
E’ tale la gioia del tizio che si premura di destare il compagno di sventura che lo aveva ben visto rovistare.
Il banchetto è discreto ed è persino rischiarato da una mezza candela trovata per terra.
Una sigaretta finale ed un altro carico di legna concludono il parco pasto ed il giaciglio li riaccoglie in silenzio dopo qualche accenno alla situazione contingente. Non hanno voglia di parlare ed accumulano così una grande carica di tensione nervosa a stento repressa.
La mente riprende il volo interrotto, indaga sui fatti avvenuti, assegna colpe e responsabilità, riconduce i due uomini braccati e sperduti in quell’angusto spazio. Sentono che qualcosa di fatale si avvicina e dovranno appendersi alla mano di Dio, se potranno.
Fuori è iniziata una tormenta il cui vento gelido penetra dalle fessure della porta e dell’impiantito di legno. Dentro, l’unico elemento animato sembra il fuoco con i suoi brevi scoppi.
L’abbondante fioccata coprirà certamente le tracce che hanno lasciato al loro passaggio, ma forse anche le due finestre e l’ingresso.
Domattina sarà opportuno che venga spalata quella neve che ostruirà l’ingresso.
E il mattino brumoso giunge con una luce stentata e debole; le nuvole grevi che si addensano a valle contribuiscono a scolorire un paesaggio di per se acromatico.
I due uomini che hanno dormito quasi abbracciati per il freddo ora impigriscono nell’attesa di qualcosa di indefinibile che possa dare una svolta alla loro situazione. La neve impone la sua legge. Se il tempo non si rimetterà al bello non ci sarà da sperare in nulla che possa tirarli fuori da quel nido d’aquila.
L’inquietudine aumenta; le sigarette si esauriscono. I pensieri non vengono espressi per paura reciproca di ledere la suscettibilità dell’altro, fino a che, al fine di placare quella tensione, viene deciso di contare per passatempo il denaro che viene versato dal sacco sul tavolo.
Ogni diverso taglio è già infascettato in blocchetti da un milione ciascuno, ma moltissimo altro sciolto viene contato singolarmente.
Un tavolo stracolmo di banconote non è spettacolo cui si assiste spesso, per cui l’euforia giustificata dei due uomini è alle stelle ed i baci ai blocchetti si sprecano.
La cifra è abbastanza alta; si tratta di quattrocentoquarantasette milioni trecentoventisettemila lire in contanti, più tredici milioni in assegni bancari. Non credono ai loro occhi e alle cifre così evidenti. Mai era loro riuscito un colpo così pieno. La soddisfazione è vivissima e dichiarano reciprocamente le future spese personali.
Il denaro, dopo l’orgia mentale, viene riposto nel sacco di plastica dopo aver lasciato fuori due biglietti da diecimila al fine di usarli per accendersi una delle ultime sigarette.
Occorre, adesso, nascondere il denaro; viene scelto un angolo della baita dove vengono divelte senza segni di effrazione alcune assi dell’impiantito ed il sacco con la refurtiva calato giù.
Il resto della giornata trascorre nell’abulia totale; non c’è volontà per nulla. Si senta di risparmiare le sigarette, ma ciò provoca una tensione insostenibile che procure discussioni alternate a lunghi silenzi. Si covano rancori non sopiti pur se intercalati da dissertazioni sportive sulle prossime convocazioni in nazionale di calcio.
All’esterno, basse nuvole infittiscono ed avvolgono la baita.
La visione dall’interno, attraverso le due piccole finestre, è limitata a pochi metri; il nevischio è in vortici lamentosi come nei films d’avventura.
Un senso di malinconia penetra nei cuori dei due disgraziati; le pause di silenzio si prolungano. Un senso di disperazione muta li prende mentre vagano nell’intricato mondo delle idee.
Qualcosa di ineluttabile serpeggia in quell’angusto spazio, sfiora i loro capi ed allunga i suoi tentacoli per un abbraccio totale.
La legna si esaurisce rapidamente ed è inevitabile pensare di servirsi di qualsiasi cosa necessiti al caso.
Il rustico tavolo, gli sgabelli, le mensole delle pareti ed i quattro cavalletti con le assi per i letti vengono fracassati e sacrificati lentamente al dio gelo per placarlo.
Questo consentirà di trascorre una giornata al tepore ed anche la notte.
Prima, però, della nuova livida alba, i due uomini sono svegli per il freddo che penetra dalle fessure della porta forzata. Il fuoco deve essere ravvivato, ma la legna necessaria è quasi esaurita.
Per l’inclemenza del tempo, l’elicottero non si è sentito più.
La preoccupazione per il fumo del camino, come richiamo per la polizia è superata. Le durissime gallette residue sono rosicchiate famelicamente. Il tempo dipana il suo filo inestricabile entro il cui bozzolo avvolge due crisalidi che si dibattono.
Dal calendario appeso, vecchio di tre anni, continua a sorridere una bella donna discinta. Sembra un invito. A che? Al sole, al mare, al calore. Evoca paesaggi mediterranei caldi e luminosi.
Lindo spezza il silenzio del risveglio e fa una proposta senza convinzione; propone una sortita al fine di raggiungere l’auto e ridiscendere in paese pur sapendo di essere braccati. Vale forse la pena arrendersi più che alla polizia, all’evidenza della situazione drammatica che rischia di divenire tragica.
La decisione è presa; il denaro è ben custodito e si può tentare la sortita, approfittando di una schiarita. La porta viene dischiusa provocando l’entrata di tanta neve che invade mezza stanza.
I due uomini constatano di essere stati quasi sepolti.
Con ogni mezzo di fortuna iniziano a crearsi un varco lavorando di buona lena, ma con un grande spreco di energie.
Per più di un’ora lottano contro un muro soffice che non molla il suo abbraccio. Sono all’aperto, ma hanno realizzato un passaggio cunicolo di non più di sette metri.
Tentano adesso di proseguire senza scavare, ma si accorgono quasi di nuotare e barcollano come ubriachi. La neve fresca così abbondante li trattiene attirandoli come sabbia mobile.
Si rincuorano reciprocamente, ma debbono arrendersi e rinunciare all’impresa poiché, tra l’altro, temono di perdere l’orientamento.
Il paesaggio d’intorno sembra ai loro occhi trasformato come se fosse stato cancellato e rifatto diversamente. Non ricordano bene dove hanno abbandonato l’auto; conviene tornare indietro alla baita ed affidarsi al destino.
La sortita, dunque, fallisce miseramente; i due uomini frustati nel loro intimo rientrano a fatica nella baita gelata.
Il morale è molto basso ed un silenzio di morte li circonda.
Si comincia a sperare di essere individuati dall’elicottero, ma occorrerebbe almeno poter fare fumo dal camino anche per i brividi di freddo che li scuotono. Non c’è nulla da bruciare se non la porta.
La decisione è dolorosa, ma dinanzi alla possibilità di avere un po’ di calore si distrugge quel diaframma sottile che li ha separati da un mare di neve.
Insieme al conforto di un po’ di calore si fa strada ciò che avverrà dopo; inizierà la fine.
I frammenti della porta si consumano lentamente; gli sguardi dei due si perdono tra le fiamme di quell’ultimo fuoco. La volontà è quasi spenta; una sorta di fatalismo si fa strada.
La fame vera è comparsa insieme ad un languore sonnolento; i movimenti si fanno più rari ed un sonno malato prende facilmente i due. Non c’è altro da bruciare sul fuoco che s’indebolisce.
Al posto della porta s’innalza sempre più una parete di neve fino ad ostruire pin piano l’ingresso.
Il tempo avverso si è dichiarato ai due assassini stringendoli in una morsa di gelo. La natura si esprime.
La televisione e la radio hanno annunciato la morte del brigadiere.
Le bestemmie di Lindo s’incuneano tra i discorsi farneticanti, uno dei quali è quello di bruciare le assi dell’impiantito.
La proposta è accettata e raccolte le estreme forse si danno da fare a svellerle, ma debbono subito rinunciarvi per il vento gelato che s’insinua nella capanna. L’arresa sembra evidente.
Non hanno più a cosa reagire; si coprono con i pagliericci umidi, seduti sul pavimento e con le spalle appoggiate ad un breve lato del camino. Potrebbero bruciare i due pagliericci, ma un breve fuoco li priverebbe poi di quel misero riparo.
Brividi convulsi scuotono i fisici debilitati mentre la sonnolenza cala su di loro.
Fuori la tormenta ha accresciuto la sua forza e sembra che voglia portarsi via il tetto di quella misera baita.
Per questa violenza, la stanza è invasa dal fumo di quel fuoco che sta per spegnersi; la neve avrà ostruito i fori esterni del camino oppure il fumo è ricacciato in basso dal vento.
I due sono inanimati, non reagiscono. Il torpore della debilitazione li avvince e li serra in un abbraccio irresistibile.
Un’altra notte adesso avanza e stende il suo manto nero; un cielo di piombo è squarciato lontano verso il confine da bagliori improvvisi.
I vinti, quasi si abbracciano nel tentativo di donarsi un po’ di tepore, nel delirio di un tremito convulso.
Sonnecchiano, maledicono mentalmente la sorte e le loro scelte, la vita di sbandati che hanno sempre recitato da protagonisti con alterne fortune.
Tano, l’autista dei disperati, vaga inseguendo i suoi paesaggi mediterranei caldi e colorati, il suo mare, il suo sole e in un frammento di memoria si vede supino sugli scogli roventi ad impigrire come lucertola.
E’ l’abbandono totale. Le menti delirano.
Ma per quel misterioso essere che è l’uomo, capace di dipanarsi dalle pastoie più complesse, avviene che, Lindo scosso da un bagliore alla mente per un improvviso pensiero, allontani da se Tano che gli sgrana i suoi occhi levantini. Senza parole e carponi si dirige all’angolo della baita e come un ossesso inizia con un ferro a svellere le assi che custodiscono il loro tesoro.
Tano lo guarda, non ha alcuna reazione, non sa nemmeno se approvare o meno la decisione del compagno. Ha capito e non mostra interesse.
L’unica cosa che resta da bruciare è il denaro, in attesa che qualcosa giunga in tempo per modificare la loro situazione.
Il fuoco sta per spegnersi, ma viene ravvivato con il calendario che poi brucerà insieme al denaro.
La donna discinta si accartoccia, la sua pelle levigata di star, scompare, e così i visi della Venere del Botticelli e di Verdi, stampati in diverse centinaia di migliaia di esemplari.
Ma per la tormenta che imperversa, il fumo è ricacciato in giù da camino, ma i due derelitti rinvigoriti dal tepore non se ne curano, continuano a distendere le varie banconote in un tappeto policromo che presto s’incenerisce accartocciandosi. Lindo ha voglia di piangere sia per il tesoro perduto e sia per ciò che li aspetterà dopo.
La speranza di essere scovati dalla polizia è perduta; il tempo non promette bene tanto che il fumo nella baia si fa più denso.
La trappola della natura ha funzionato; ha serrato nel suo seno due sciacalli.
Tano non si è mosso dal suo posto; ha osservato senza parole.
Il tepore ha sciolto parte della neve che ostruisce l’ingresso ed ha allagato la stanza; non possono stare più seduti sul pavimento.
La disperazione muta è in loro. Chiederebbero perdono a tutti, ma sentono il passo di chi sta per falciarli espirandoli dal consorzio umano. Lindo continua a gettare nel fuoco ciò che li ha spinto ad uccidere. L’enorme quantità di carta, brucia male; le fiamme sono spesso soffocate e s’innalza più fumo.
Tano che ha osservato senza parole ha un improvviso scatto d’isterismo e alzandosi malfermo sulla gambe, urlando frasi sconnesse, si lancia contro la parete di neve dell’ingresso. Urla, si dibatte, cerca di scavare un passaggio per uscire all’aperto; non è facile. Paonazzo in viso, con gli occhi spiritati, urla tutta la sua colpa di vivere di sbandato; accusa la società che lo ha generato e financo sua madre.
La parete di ghiaccio non cede. La natura ha sentenziato.
Cade sfinito a terra in tremiti convulsi ad occhi sbarrati. Il compagno, impietrito dalla scena, ha soltanto la forza di ergersi, sollevare i due pagliericci e scaraventarli sul fuoco insieme al sacco di plastica con ciò che resta del denaro.
Questo gesto lo ha svuotato di tutte le forze che lo abbandonano completamente. Resta a terra semisvenuto.
Le fiamme ben presto s’innalzano, ma la plastica, bruciando, ha emesso i suoi gas venefici.
La stanza è completamente invasa dal fumo acre. I due uomini che non hanno voluto più lottare, sono abbandonati per terra, incoscienti.
La debilitazione insieme al trauma psichico ha distrutto i due esseri; un sonno profondo li trascina nell’ipogeo delle loro origini, là da dove erano venuti al mondo.
Il fumo velenoso è calato come sipario sui due tristi attori.
La loro recita è terminata.
Ai carabinieri sciatori sembrerà di averli trovati addormentati.
Salvatore, carissimo cane
Non era ancora l’alba e lo zio Filippo era già sveglio; il gallo non aveva ancora cantato per la seconda volta.
Cominciò però a sforzarsi di rimanere fermo nel suo alto letto e vi rimase per un tempo che gli sembrava eterno ad ogni risveglio.
Infine, non resistendo più a quella tortura quotidiana, decise di alzarsi e di fare più in silenzio possibile. Ciò gli riuscì fino a quando sua moglie con un pigro movimento si ebbe volta dal suo lato rivolgendogli uno sguardo ad occhi socchiusi.
Il vecchio uomo si mosse più deciso nel calzare gli scarponi ed ormai rivestito quasi del tutto si elevò in tutta la sua corpulenta figura.
Al buio, appena rischiarato dalla tenue luce che filtrava dalle imposte sconnesse, si diresse con movimenti abituali in cucina dove, accesa la luce che lo ferì agli occhi, sbadigliò.
Chiusa la porta dietro di sé per non disturbare gli ultimi minuti di sonno della moglie, cominciò con lentezza ad armeggiare con la caffettiera, il caffè tostato e due tazzine. Lo zucchero l’avrebbe preso insieme al cucchiaino.
Tutto pronto posò sul fuoco acceso la caffettiera e, sedutosi pigramente, cominciò a fissarla sovrapensiero in attesa dell’allegro gorgoglio caratteristico che si accompagna a quel denso profumo che si spande per la casa.
Ne riempì a metà due tazzine con l’antica convinzione che il caffè bevuto a digiuno faccia male, ma anche certo di non sapervi rinunciare poiché da esso riceveva la spinta definitiva per un risveglio totale.
La moglie, donna Cicca, percependo il passo del marito che si avvicinava accese pigramente la luce sul suo comodino. Bevve quel poco di caffè e fu sveglia del tutto dal torpore notturno.
Raggiunse da lì a poco il marito in cucina che aveva dischiusi le imposte lasciando così che una certa luce non ancora definita desse dimensioni più naturali alle cose. Non si erano ancora rivolti parola e fu la moglie che per prima chiese al marito dove si sarebbe recato quel mattino. Ne ebbe una risposta farfugliata a mezza voce che le fece intuire che si sarebbe recato al vigneto.
Da lì a poco, come ogni mattina, in un rituale che si ripeteva da anni, s’udì quel grattare familiare alla porta d’ingresso; era Salvatore, il vecchio cane, che chiedeva d’entrare per rivedere i padroni e per ricevere un po’ di latte tiepido con pezzetti di pane stantìo.
Salvatore, carissimo cane, viveva in quella casa da lungo tempo. La sua fedeltà e carattere gli avevano conquistato tutta l’ammirazione di quella famiglia che lo ospitò per sempre allorché accade quel fatto che tuttora si racconta in paese e che gli conferì un alone leggendario.
Compagno di giuochi dei figli ormai adulti dello zio Filippo aveva dimostrato una capacità ed una agilità tale nel recuperare una palla od un oggetto che sembrava spiazzare il concetto di gravità. La sua felinità e prontezza gli aveva permesso di prendere al volo qualunque pezzo di pane gli avessero lanciato dalle sue parti dando spettacolo di un ottimo portiere di calcio. Per la sua versatilità alla caccia, poi, veniva, a volte, prestato agli amici e parenti per una giornata dove tutta la sua belluinità veniva prepotentemente fuori nell’inseguire e catturare conigli selvatici con scatti ammirevoli che avevano del proverbiale.
Era financo andato qualche volta a caccia da solo prima dell’alba appostandosi contro vento nei viottoli frequentati dai conigli, presentandosi poi al padrone scodinzolando con la preda in bocca. Cane leggendario, in paese chiunque ne tesseva le lodi ed era chiaro che nel tempo si aggiungeva qualcosa al saputo, ma rimaneva il fatto che era indicato come un animale eccezionale con qualcosa di umano nella vivezza del comportamento e nella resa amichevole.
Conosciuto da tutti, anziani e ragazzi, si intratteneva con chiunque gli dimostrasse una certa simpatia accogliendolo nella propria casa.
Non era un bel animale, dimostrava una certa sproporzione della testa che risultava troppo grossa rispetto al corpo troppo sottile ed alto. Non si capiva da quale incrocio potesse essere derivato dato il pelo di una certa lunghezza e durezza che faceva pensare ad una origine di alta selezione. Tanti dissertavano sulle sue origini, ma rimaneva nell’aspetto esteriore un certo lupo di montagna che avesse conservato l’intelligenza tipica acuita per la sopravvivenza.
Lo zio Filippo, come da tutti era conosciuto in quel villaggio di cento case addossate le une alle altre come un gregge, ormai da circa un anno aveva rinunciato a portarlo con sé in campagna lasciandolo a riposo per la sua età avanzata e Salvatore, che aveva capito, si limitava ogni mattino ad accompagnarlo con qualche latrato sommesso di saluto al cancello dove si soffermava poi ad osservarlo andar via fino a che scompariva a destra.
Sui cani corrono leggende più o meno fantasiose, in genere tutti coloro che abbiano avuto la loro compagnia hanno da raccontare qualcosa di particolare e di interessante sul comportamento e sulla dedizione dell’amico animale.
Ma Salvatore era proprio un caso a sé e si poteva dire e raccontare tanto a cominciare dal nome che gli fu imposto proprio dallo zio Filippo che lo volle e tenne con sé con tutto l’affetto suo, dei vicini di casa e del paese intero.
Per molto tempo infatti anche nel circondario si parlò spesso di codesto animale sgraziato, sconosciuto a tutti che spuntò un giorno luciferino in paese come se avesse avuto il diavolo in corpo.
Chi lo vide così agitato ne chiese notizia ad altri per stabilire a chi appartenesse quella bestia e cosa gli avesse procurato quel comportamento che sembrava pericoloso.
Molte madri misero a riparo i bambini temendo chissà quali conseguenze a quella agitazione che lo identificava al lupo di San Francesco. Tutto ciò, oltre che scuotere dal torpore estivo quella gente tranquilla, mise addosso tanta curiosità tra gli abitanti che, circospetti, gli si avvicinarono sollecitandolo con parole e piccole frasi interrogative. Il suo latrare si faceva più furioso, ma all’occhio esperto di quella gente di campagna fu chiaro che non era un latrare aggressivo, ma di allarme, sicché fu deciso di stargli dietro, visto che come saetta impazzita percorreva la strada principale del paese in un senso per poi tornare latrando furiosamente tra la gente incuriosita. Fu deciso dunque da alcuni anziani di seguirlo e così si formò un codazzo di gente vociante con in testa un cane che sembrava impazzito. La curiosità fu tanta.
L’enigma fu però presto risolto da Tommaso, un ragazzo quindicenne figlio del pastaio che tallonando più da vicino il cane e con uno spirito d’immaginazione più acuto degli altri, intuendo una disgrazia per la direzione presa dalla bestia con decisione e cioè quella del fiume, scorse impigliato tra i rami bassi di un albero che quasi sorgeva dall’acqua limacciosa, un bimbo che si lamentava debolmente, atterrito ed aggrappato con una espressione stravolta. Il bimbo fu tratto in salvo in extremis; un giovane di nome Marino, figlio del cieco di guerra, sceso subito in acqua lo sostenne rincuorandolo mentre il piccolo Santino, figlio dello zio Filippo, invocava la mamma. Furono issati insieme ed in corteo fu consegnato alla madre accorrente.
Non era la prima volta che accadeva qualcosa del genere poiché, pur essendo pericoloso, era naturale che tutti i ragazzi frequentassero il fiume che anche se poco profondo era sempre una incognita per un bimbo di cinque anni come Santino.
Il letto del fiume in estate andava quasi in secco formando laghetti sinuosi tra il bianco accecante della sabbia dove i ragazzi guazzavano allegri, ma quel giorno c’era abbastanza acqua per atterrire un bimbo.
Quel cane che nessuno conosceva fu evidentemente festeggiato da tutti e si rivelò subito propenso alle affettuosità che gli furono riservate con gratitudine.
Divenendo amico di tutti trascorreva a volte intere giornate passando da una famiglia all’altra accettando quanto di buono gli venisse offerto. Assunse sempre più una figura che emanava rispetto e simpatia.
Ma la sua vera famiglia fu ovviamente quella dello zio Filippo che lo volle con sé dopo la scampata sciagura e imponendogli quel nome umano a testimonianza del suo gesto irripetibile.
Lo zio Filippo, uomo di poche parole, come lo sono i burberi, sensibile come i solitari, stava dunque recandosi quel mattino al vigneto dopo aver gettato uno sguardo di compassione al vecchio cane che puntuale lo accompagnava al cancello. Ma trascorse tutta la giornata lavorando con mestizia e con un pensiero fisso nella mente; non riusciva a togliersi l’idea della propria vecchiaia e quella di Salvatore, ormai ridotto male con tanti denti mancanti e così debilitato da rimanere l’intera giornata nella propria cuccia su quella pelliccia di pecora approntata da donna Cicca.
I figli dello zio Filippo Maggiore si erano sposati ed avevano creato quattro nuove famiglie con tanti bambini e la domenica, ma specialmente nelle feste, andavano a far visita ai genitori e trovavano, ogni volta, la povera bestia più malandata che si limitava a scondinzolare in segno di gioia. Quel giorno, raccogliendo le forze ormai perdute, si prestava ai giochi e alle sollecitazioni dei bambini nell’ampio cortile. Ma l’indomani di ogni festa trascorsa così, Salvatore ne pagava le conseguenze rimanendo nella sua cuccia nell’impossibilità di muoversi; i dolori alle ossa lo avvolgevano tutto.
In quella posizione sdraiata su un fianco, accettava un po’ di latte tiepido premurosamente porto dalla moglie del contadino che non sapeva proprio come aiutare il suo prezioso amico. Il veterinario interpellato si limitò ad una visita sommaria limitandosi a scuotere il capo e a dire che la vecchiaia è una brutta cosa, mentre accettava un bicchiere di buon vino rosso della sua vigna.
Lo zio Filippo aveva ormai un chiodo fisso da un po’ di tempo, non sapeva cosa fare per quel cane che per lui era come persona affezionata. Non voleva confessare a se stesso ciò che gli galleggiava nella mente quando la stessa proponeva di risolvere drasticamente quel problema diventato ossessivo.
La moglie non seppe mai rispondere a qualche velata proposta del marito sul da farsi per il cane, ma entrambi, forse, provando gli stessi sentimenti, non volevano confessarseli.
Passò qualche altro giorno in cui di più maturò nel contadino quell’idea che tempo addietro era stata ricacciata nei cantieri della mente vergognandosene.
Ma il tempo agisce su ogni cosa; matura, trasforma, rende più chiare le cose dapprima nebulose, crea lineamenti più netti entro i quali nasce la forma e prende corpo l’immagine.
Così come per le decisioni che talvolta cambiano il corso delle vicende umane, per le quali se ne paga poi il fio, anche quella che fu presa con tanta tristezza dallo zio Filippo contribuì a condizionarlo per il resto dei suoi anni.
Ogni mattina aveva rimandato ad un’altra, la decisione risolutiva e uscendo di casa non rivolgeva il solito sguardo al cane che lo accompagnava al cancello con il suo latrare sommesso.
Ma l’uomo silenzioso, introverso, prende le sue decisioni con più fermezza d’altri e così una mattina si sentì più preparato a realizzare quanto gli aveva perforato la mente. Pronto il carro, s’avvicinò deciso alla cuccia di Salvatore e con dolce fermezza lo prese in braccio.
Non lo guardò negli occhi perché se li sentì addosso interrogativi e lo adagiò sul carro mentre ne riceveva una leccata sul viso. Il carro tirato da Nina, la mula, s’avviò.
Non si preannunciava una bella giornata; basse nuvole pesanti s’allargavano sfioccate all’orizzonte fuori il borgo sulla vallata preannunciando una certa afa.
Il carro rimandava l’eco del suo rumore secco tra i vecchi muri delle ultime case non del tutto deste. Poche donne già sfaccendavano davanti gli usci e tutte accennarono un sorriso, un saluto, al passaggio dello zio Filippo che rispondeva con un breve cenno della mano destra appena sollevata.
Tanti pensieri, i più svariati, non connessi tra loro si affollavano nella mente del vecchio contadino, uno dei quali fu quello terribile di come avrebbe materialmente ucciso Salvatore. Non lo aveva chiaro.
Ricacciò l’idea, rimandandola al momento opportuno mentre dirigeva il carro fuori paese verso il fiume, teatro di quella disgrazia evitata a suo tempo proprio da quel cane che adesso se ne stava tranquillo e fiducioso sul suo carro.
Il fiume, chiamato così, non era altro che un discreto torrente soltanto in inverno quando l’acqua copriva interamente il letto ciottoloso. Adesso essa era ancora in buona quantità anche se rivelava qualche isolotto sabbioso. In estate tra i dirupi ripidi in diversi punti delle sue sponde, nidiate di ragazzi di ogni età esponevano al sole cocente gli snelli, dorati, acerbi corpi che avrebbero fatto la felicità di scultori d’altri tempi. Vociando gioiosi di irrefrenabile vitalità trascorrevano intere mattinate tra tuffi e schiumate dove l’acqua era più profonda per improvvisi avvallamenti del fondo.
Uscendo fuori paese, qualche raro contadino salutò zio Filippo che adesso indirizzava il carro verso un luogo cespuglioso che come terrazza naturale s’affacciava sul fiume. La panoramica lì era anche suggestiva, il breve piano non era molto alto rispetto al pelo dell’acqua che quel giorno sembrava abbastanza profonda.
L’ultima parte del percorso era in salita e la vecchia mula arrancava portandosi dietro quel carico di vecchiaia insieme alla propria.
Superato quel tratto, il carro quasi si fermò per volere dello zio Filippo che cominciò ad interessarsi al luogo come non aveva fatto mai.
Le ultime case del paese erano ben distanti e soltanto il fumo di qualche camino ne indicava con esattezza il punto per le volute di un delicato azzurro che si perdevano nell’aria.
Il vecchio scese dal carro con la lentezza guardinga di chi, avanti con gli anni, ha perduto lo scatto giovanile e sa di avere le ossa fragili e doloranti.
Avanzò sulla terrazza naturale e guardò avanti a sé; non vedeva, i suoi pensieri gli limitavano la vista e gli turbinavano nel cervello ossessivamente.
Il cane, il caro Salvatore, s’interessò al padrone guaendo debolmente e seguendo tutti i suoi movimenti senza scendere dal carro come avrebbe fatto in altri tempi. I dolori non gli permettevano di fare quel salto, una volta tanto agevole.
Improvvisamente il vecchio che osservava l’acqua pensieroso si girò di scatto e preso da frenesia tornò al carro, ma fatti tre passi fu preso da uno scatto d’ira muta poiché si accorse di non avere con sé la corda alla quale aveva pensato per giorni. Cercò sotto il carro dove di solito teneva qualche spezzone di fil di ferro, inutilmente; niente che gli servisse.
L’indecisione lo prese e gli cominciò un tremore che egli sconosceva su di sé. Gli venne di considerare l’ipotesi di trovarsi lui al posto del cane.
Codeste riflessioni avvenivano mentre il sole già alto riversava tutto il suo ardore afoso, cosicché il vecchio si tolse la giacca che posò su un masso accanto a sé, ma compiuto tale gesto i suoi occhi si fermarono sulla vecchia cinghia dei pantaloni che usava da più di trent’anni.
Fu la risoluzione al suo problema, ancora preso dall’orgasmo che precede le grandi decisioni.
La cinghia di cuoio rinsecchito sarebbe servita al caso; Salvatore guardava il padrone guaendo piano con quel fischio sottile caratteristico. Nina, testa in giù, agitava la coda per scacciarsi le mosche fastidiose.
Il silenzio profondo era spezzato soltanto da richiami di uccelli e da un latrare che si perdeva lontano, mentre qualche moscone volava basso con quell’indefinibile brusio che sembra spesso una preghiera.
Lo zio Filippo si alzò dal masso e si diresse verso il carro dove il cane dimenando la coda e fissandolo in viso si sporse per leccarglielo offrendosi fiducioso fra le sua braccia dove rimase quieto assaporando una sensazione provata raramente.
Con Salvatore in braccio, lo zio Filippo s’avviò con passo pesante considerando a vista le asperità del terreno per non inciamparvi e rovinare insieme.
Il punto che gli sembrò più favorevole fu trovato un po’ più in là a non più di due metri di altezza dall’acqua. Giuntovi per un viottolo appena tracciato, lo adagiò per terra per sfilarsi la cinghia con la quale cominciò, in ginocchio, a serrargli le zampe. Il vecchio evitò di guardare l’animale negli occhi mentre compiva quella triste operazione con tremore diffuso.
Salvatore, il vecchio compagno di tanta gente, il felice animale che aveva fatto parte della storia della famiglia Maggiore, giocattolo vivente dei figli del contadino, adesso stava sdraiato su un lato e ansimava un po’ percependo con istinto primordiale della bestia che qualcosa stava per accadergli. Non guaiva, non si muoveva, perforava con lo sguardo un po’ spento il padrone, valicava quelle colline, sconfinava nelle proprie origini e tornava ai giorni felici in quel cortile assolato.
Con un doloroso sospiro l’uomo, terminata l’operazione, lo riaccolse tra le sue braccia, lo sollevò e si prese un’altra leccata sull’orecchio sinistro. Fece pochi passi verso l’acqua. Guardò davanti a sé, assente, come sospeso, trattenne il respiro, socchiuse gli occhi e fece il gesto che lo avrebbe ossessionato per il resto dei suoi anni.
Sentì un tonfo sordo nell’abbandonare quel mucchio di ossa e pelle pelosa, si girò su se stesso e si avviò distrutto con il fiato grosso verso il carro.
A testa bassa riprese le redini, salì con più fatica di prima sul carro a cui fece compiere un mezzo giro e sentì veramente tutta la sua vecchiaia.
S’avviò dunque verso il vigneto dove avrebbe lavorato, anche se aveva una gran voglia di tornarsene a casa e raccontare forse tutto alla moglie per placare la sua tristezza.
La giornata si rivelò calda e lo zio Filippo sudò più degli altri giorni, si cercò più lavoro e si stancò moltissimo.
C’era molto da fare e fece tanto poiché quel giorno aveva bisogno di forti distrazioni finché, più per abitudine che per bisogno, pensò di mangiare qualcosa facendo una sosta. Ma fu così che s’accorse di aver dimenticato di prendere con sé quanto di solito preparava donna Cicca; certamente del pane con quel saporito formaggio e quelle olive nere che ben si fondevano nel gusto al suo palato ed anche la sua fiaschetta con quel magnifico vino. La mattinata dunque era stata ricca di emozioni e di imprevisti.
Il nervosismo che derivò da quella dimenticanza lo portò a desiderare di fumare uno dei suoi mezzi sigari toscani che tanta avversione producevano in sua moglie da più di quarant’anni, ma la sorpresa fu cocente quando s’accorse di non avere con sé anche la giacca.
Si sforzò di pensare, ma non ricordò di essere uscito di casa senza di essa, data la stagione. L’aveva dunque smarrita?
Non capiva come avrebbe potuto perdere un indumento che non toglieva mai se non in estate ed in campagna. Riesaminò mentalmente il calvario di quella mattinata per lui ormai indelebile e rivide con minuzia di particolari ogni gesto, ogni passo e così gli riapparve la sua giacca sul masso grigio in quella spianata a un passo dall’acqua gorgogliante.
Il vecchio fu ripreso da un fremito convulso per ciò che rivedeva su quel greto e per le emozioni che lo avevano toccato profondamente.
Riattaccò la mula al carro con grande agitazione.
La giacca in sé non era importante, c’era pochissimo denaro nel portafogli ed una logora carta d’identità mai più rinnovata che ad aprirla, se avesse dovuto mostrarla, sarebbe caduta a pezzi insieme ad una foto d’altri tempi.
Ma il senso di proprietà di qualcosa che ci appartiene, anche senza valore, ha i suoi diritti e le sue pretese e questo valse a farlo affrettare a recuperare l’indumento. Una volta pervenuto poi da quelle parti forse sarebbe stato meglio ritirarsi a casa, sia perché sfornito di quel poco cibo e sia perché la giornata aveva avuto un avvio sbagliato e balordo.
La mula notò dagli strappi nervosi alle redini che qualcosa d’insolito era in ballo, per essere sollecitata e con secchi colpi di redini sul posteriore.
Fra strappi e incitamenti, il carro giunse nei pressi del luogo dove era stato consumato quanto cominciava a corrodere l’animo dello zio Filippo, che già da lontano, aguzzando la vista, verso il masso grigio che appena fuoriusciva dal terreno sabbioso, non vide cosa.
Scese dal carro con uno scatto antico e, stravolto in viso, guardò in giro considerando che forse non riconosceva il masso su cui aveva posato la giacca nella fretta di definire quella dolorosa operazione. Si allontanò nei diversi sensi, ridiscese per quel viottolo accennato, ritornò infine nella spianata, s’affacciò verso il basso. L’acqua gorgogliava come faceva da millenni; allungò lo sguardo sotto i nodosi rami che si spingevano dalla riva a pelo d’acqua creando una zona ombrosa e tranquilla. Non sapeva lo zio Filippo che quell’albero era lo stesso dove era stato salvato il suo Santino da qualcuno.
Non seppe spiegarsi come poteva sparire una giacca così logora; pensò infine a qualcuno che avendola trovata l’avesse di già restituita a casa sua. Gli sembrò l’unica soluzione al mistero e ciò valse a tranquillizzarlo appena.
Amareggiato, abbandonò la ricerca e sul carro si diresse a casa.
Assorto in vari pensieri, col capo reclinato in avanti ed il berretto a visiera quasi sugli occhi come a non voler vedere, si lasciò trasportare pigramente dalla vecchia bestia che quasi senza essere guidata lo condusse a casa.
L’aria s’era fatta più calda e non alitava brezza; il rumore secco del carro era talmente solito per lui che non l’avvertiva, come ai tempi in cui da giovane gli faceva solo da nenia facendolo assopire nei tramonti afosi dopo una giornata faticosa.
Il paesaggio d’intorno sembrava fissato, acceso in quella calda giornata anche se non si era d’estate. Maggio in quei luoghi è luminoso con giornate quasi cocenti mentre d’intorno è verde ridente come in certe cartoline della Scozia. Le agavi lucenti e spinose innalzano il loro fiore altissimo dalle braccia alternate e i fichidindia sono gonfi d’umore e brillanti.
Il paese era ormai vicino, le prime case si mostravano nella loro vetustà. Una di esse, la prima, recava una vecchia scritta sul muro: Campofiorito m. 753 s.m. e sotto di essa un’altra recava uno slogan del tempo in cui ogni volere di una certa persona veniva ossessivamente predicato sui muri di tutta Italia.
Il vecchio carro che lasciava immaginare quanta fantasia vi avessero profuso gli artigiani che lo avevano dipinto e scolpito attraversò quasi mezzo paese in una di quelle ore sonnolente e silenziose per cui poca gente salutò zio Filippo che proprio non aveva voglia di rispondere. Svoltò a sinistra per uscire quasi fuori dall’abitato e cigolando infilò poco dopo il cancello spalancato di casa sua che mai forse era stato chiuso poiché serviva più che altro ad indicare un limite privato.
Nell’atrio sassoso a losanga, in un punto dove l’ombra della casa offriva un’idea di refrigerio agli occhi offesi, la moglie dello zio Filippo era ritta in piedi con le mani incrociate sotto il grembiule in un gesto suo usale, attonita e con lo sguardo al marito che s’avvicinava.
Non parlarono. Zio Filippo vide Salvatore a terra su di un lato, il lungo pelo infangato dappertutto. Capì subito che era morto, gli occhi aperti e la bava alla bocca e qualche metro più in là la sua giacca; ad una zampa teneva serrata la vecchia cinghia dei suoi pantaloni.
Donna Cicca non si spiegò mai la presenza accanto al cane della giacca del marito ridotta ad uno straccio polveroso, lì nel cortile.
Lo zio Filippo non ebbe voglia di chiarire quanto gli chiedeva la moglie con gli occhi, sentì soltanto che da quel giorno era iniziata la sua fine.
Il paese dell'anima
Ogni uomo ha certamente nel cuore il paese della memoria con la sua planimetria essenziale costituita dalla vasta piazza centrale, il suo monumento ai caduti, gli ombrosi alberi sui marciapiedi laterali sotto i quali gli anziani trascinano la loro stanca esistenza, con le stradine secondarie linde e acciottolate e tante finestre dai grandi occhi curiosi che vi si affacciano nella quiete assoluta, dove è bello ascoltare i propri passi e bello vedere le chiavi appese alle porte di casa.
Il paese rifugio dell'uomo di città che va a ricercarvi le proprie radici e quanto vi ha lasciato della sua fanciullezza nelle vie, nei vicoli, nelle piazzette dove fino a sera tardi si giocava alla fioca luce di un lampione è il paese di me bambino dove ogni anno, in estate, ritornavo nella grande casa del nonno materno in Via Truden, 47.
Le strade acciottolate, una scalinata vicino casa, i gradini dinanzi gli usci di alcune abitazioni erano la palestra ideale per una libertà scatenata che si accendeva all'arrivo in quella fresca casa dopo un abbraccio affettuoso, ma già distratto, alla zia signorina che odorava di paese.
Il primo segno di libertà, in verità, era costituito dall'eliminazione immediata delle scarpe per rendermi pari agli altri ragazzi con i quali fuggire verso l'avventura del gioco.
Ritornavo a casa soltanto spinto da un robusto appetito che in città era invocato invano da amare medicine tra cui l'olio di fegato di merluzzo.
Ogni estate era dunque vissuta nell'intensità smaniosa di cogliere nuove percezioni che, sommandosi anno per anno, mi arricchivano e formavano il carattere.
Gli zii, autentici personaggi, addolcivano e frenavano la mia frenetica personalità di puledro rampante con i loro saggi discorsi sul mondo della campagna che mi affascinavano, sia si trattasse di coltivazioni, di animali o di vita paesana. Ed io, Mariano, come mi chiamavano i compagni, fanciullo di città, costretto per nove mesi in un banco di scuola elementare privata, dal mattino sino al pomeriggio, ero totalmente preso dalle espressioni dei parenti che avevano tutto il loro mondo da mostrarmi e dalle infinite attività che si svolgevano sotto i miei occhi; quelli erano i rari momenti in cui si placava in me quella vibrazione di conoscenza.
Lo zio Agostino, un tipo alla Charles Laughton, uomo immenso per me, per la sua mole robusta ed il suo stomaco straripante, era l'espressione della mitezza originaria dell'uomo anche se i suoi discorsi piani, quasi soavi, erano espressi con voce baritonale che mi intimoriva.
Aveva il pregio di sapere ascoltare le confidenze dei piccoli e le sue risposte, frutto di apparente profonda riflessione, appagando le mie curiosità, discoprivano quel mondo minimo che si realizzava nella chiusa del paese, ma contenevano tutta la filosofia del mondo contadino che trae origine in gran parte dall'esperienza dei propri avi.
Di carnagione molto chiara, come i suoi figli biondi, imponenti come guerrieri normanni, riflessivo e maestoso nel gesto, incuteva in me un certo timore riverenziale, presto fugato dalle affettuosità e dalle offerte di primizie di campagna.
Al contrario, lo zio Filippo, fratello al primo, era di una personalità totalmente diversa in ogni senso; dalla conformazione somatica al carattere gioviale, spesso burlone.
Fisico asciutto, longilineo, olivastro di carnagione come arabo del deserto, accanito fumatore con l'imprecazione urlata in gola, pronto allo scatto d'ira presto dimenticato e con lo sputo facile per via dei puzzolenti sigari che fumava.
Era dotato di un umorismo dilagante nell'ironia che lo rendeva ricercatissimo nelle allegre compagnie, specialmente negli sposalizi per la sua carica contagiosa d'ilarità.
I suoi passi di ballo, le sue ardite figurazioni erano notissime e trascinavano nella danza anche le donne più restie del paese.
Le sue libagioni e i suoi brindisi in rima nelle allegre tavolate sono ancora ricordate e come ogni robusto bevitore di vino disdegnava l'acqua come elemento non indispensabile all'uomo. Mai, però, perdette il senso della misura conoscendo bene i suoi limiti.
Le sue battute su persone e fatti del paese sono rimaste proverbiali fino alla fine dei suoi novanta e più anni quando, pur avendo perduto il senso dell'udito, pretendeva e otteneva di entrare gratuitamente, d'estate, al cinema all'aperto in rispetto al fatto di essere il cittadino più vecchio del paese.
I suoi monologhi non corrisposti con i vari asini di cui si servì nel tempo per la campagna fecero sbellicare dalle risa diverse generazioni di parenti e conoscenti.
Questo era per me “il paese”; ma lo erano anche i funerali, dove tutto era listato a nero, financo i visi dei contadini con la barba non rasata per l'occasione.
Lo erano le madri urlanti agli angoli delle vie a richiamare i figli perduti dietro agli aquiloni. Lo era il bambino, venditore ambulante di pomodori maturi che con due panieri appesi alle braccia, cantilenava il prezzo e la qualità come una nenia araba; così i venditori ambulanti adulti che con un carro multicolore carico di ceste di frutta e ortaggi di ogni qualità lasciavano dietro di loro dolcissime note la cui musicalità, altalenata tra note alte stridule e basse gravi, mortificava l'essenza del bando rendendolo talvolta incomprensibile.
E “paese” erano gli scalzi marinai dalle grandi ceste piatte alle braccia, colme di pesce pescato qualche ora prima, adagiato in bella mostra su soffice piano di alga profumata.
Ma “paese” era soprattutto l'odore del fumo di rami secchi di ulivo o limone, in particolare all'imbrunire, da tutte le case, al ritorno dei contadini dai campi, quando le vie acciottolate risuonavano del passaggio di scarponi chiodati e carri carichi all'inverosimile di paglia o di fascine di rami secchi d'ulivo o limone in un equilibrio quanto mai precario o in settembre in tempo di vendemmia con grossi carichi di uva dorata.
“Paese” era per me la distesa infinita di tavole per le vie su cui veniva fatto essiccare al sole il succo di pomodoro.
Il forno pubblico a legna poi, vicino casa, era il luogo della fantasia, dove ogni settimana, in un rituale sempre uguale, ma eccitante, mi recavo con la zia a dare forma e vita a quel grano che avevo visto trebbiare e dove era esaltante dare forma anch'io ad una bambola con quella pasta lievitata, mentre le lunghe lingue di fuoco del forno che quasi ci lambivano, evocavano in me le visioni infernali cui mi predestinava la religiosa zia in rapporto alle mie discolerie.
“Paese” profondo era soprattutto la figura dolcissima della zia Cristina, vergine donna votata all'assistenza dei vecchi genitori e posseduta interamente dal Cristo cui dedicava ogni sacrificio delle sue giornate.
Dotata di una vena di candore ed umorismo, discopriva una forte personalità allorché si trattasse della conduzione agricola dei suoi limoneti ed in certi casi s'imponeva, mettendo a tacere rudi contadini dai discorsi pesanti, con una logica disarmante.
Donna arrendevole soltanto con i nipoti, facile alla commozione e tenera con i bimbi, era tenacemente attaccata al denaro, ma pronta alla generosità se si riusciva a toccare le sue sensibili corde e la sera rifugiarmi tra le sue braccia per cedere di schianto alla stanchezza era per me il migliore epilogo di una esaltante giornata.
I giochi, tanti e variati, erano però superati in preferenza da quello che più mi attraeva, il lancio dei coloratissimi aquiloni costruiti da noi. Non c'era gioco più affascinante, poiché nell'altezza che raggiungeva l'aquilone era tutto il mio desiderio d'innalzarmi fisicamente e spiritualmente ed osservare in un grande abbraccio visivo il paese, le colline, fino al mare.
La domenica, però, come il Creatore che si riposò, ero costretto dalla zia alla meditazione religiosa indossando l'abito nuovo con le scarpe di vernice lucida e camminare con passo controllato, dopo l'ascolto della Messa presso le suore di San Vincenzo dai grandi cappelli bianchi a larghe falde come ali di gabbiano, rendevo visita agli zii che allungavano generosamente monete per il gelato e spesso vi rimanevo a pranzo.
Tutta codesta libertà goduta per quasi i tre mesi estivi si trasformava poi in un grande rimpianto nei mesi invernali in città e l'unico sfogo alla tristezza della costrizione in casa era il disegno. Riempivo fogli su fogli in un inno malinconico alla libertà; rivivevo graficamente tutti i luoghi e i giochi che mi avevano visto protagonista e, certamente, alla base di quelle espressioni grafiche stava la frequenza in paese dello studio del pittore Garaio, il quale tornando anch'egli ogni estate dalla capitale trascorreva lunghe ore al cavalletto.
L'amicizia tra le nostre famiglie mi permetteva di tralasciare improvvisamente un gioco monotono e presentarmi a casa sua per beneficiare d'istinto dell'atmosfera particolare che offre uno studio d'artista a cominciare dall'inebriante odore di trementina, ma principalmente del suo lavoro creativo cui assistevo in religioso silenzio come serpente incantato vivificando la mia innata predisposizione.
Allo stesso modo mi accadeva d'incantarmi dinanzi alle botteghe artigiane dove, all'aperto, esperti pittori esaltavano le gesta dei paladini di Francia sulle fiancate dei carri da trasporto in costruzione. Quei colori rutilanti, accesi nella gioia espressiva dell'arte popolare, mi attiravano fino a guadagnare qualche lattina con smalto residuo da usare su qualche tavoletta. La magia del colore reso fluido, la composizione che prende forma, i passaggi tonali nei rapporti cromatici ed il conclusivo trionfo dello spirito reso tangibile, erano momenti esaltanti che appagavano la mia inconscia necessità d'espressione futura.
Questo è il “paese” che mi è rimasto nel cuore, inciso indelebilmente nel cantiere della mente; è il paese della memoria e più esattamente dell'anima ed in esso torno spesso a ritrovare le mie radici ancora vitali. Un grosso paese dorato dal tufo, squadrato da una architettura rigida come il carattere dei suoi abitanti che, pur tra sporadici tentativi d'innalzarsi culturalmente, vuole restare paese.
E, forse, è bene che sia cosi.
Kusna, il nano
Chi visse nell’anno 1207 ricordò per il resto della sua vita l’eccezionale fatto accaduto nell’antica cittadina di Eleù in Turchia. Qualcosa di straordinario di cui si parlò per anni e anni e coloro che ne furono partecipi si ritennero dei privilegiati toccati dalla fortuna. Si trattò di un fenomeno, mai accaduto prima nella storia dell’uomo, che portò decine di migliaia di persone incuriosite da ogni luogo della terra a quella piccola città.
La gente arrivò a dormire per le vie ed Eleù fu rivoluzionata nella sua vita tranquilla. Uomini illustri, scienziati, sultani, re e regine giunsero anch’essi per constatare di persona la meraviglia di cui tanto si parlava nel mondo intero.
Il grande fenomeno era costituito da un uomo particolare: un nano volante. Proprio così. Un nano volante senza alcun marchingegno, né artificiosità.
Il fatto in se stesso rappresentava la grande conquista cui l’uomo ha sempre teso sin dalle sue origini ed in esso si compendiava il grande anelito all’elevazione naturale.
Chi ebbe dunque codesto privilegio di elevarsi tra miliardi di uomini fu un essere deforme cui subito furono attribuite doti paranormali, addirittura extra terresti.
La fantasia della gente, nel caso specifico, si sbrigliò e vennero fatte le più svariate interpretazioni. C’era chi gridava al miracolo e chi restava ad occhi e bocca spalancati senza parole; chi addirittura ravvisava nell’evento straordinario un segno evidente di influssi malefici.
Il nano di cui si parlò ovunque si chiamava Kusna, era figlio di nessuno, non conosceva il proprio cognome né la propria età.
Faceva parte di una compagnia di guitti girovaghi e nessuno conosceva la sua provenienza. Era un magnifico artista poiché recitava e si esibiva in acrobazie da lasciare senza fiato; cantava con voce profonda da baritono ed affascinava tutti per la sua melodia, suonava diversi strumenti con maestria e sul filo d’acciaio compiva esercizi da perfetto funambolo. Era un artista veramente completo; ad ogni suo spettacolo la gente, giungendo anche dai paesi più lontani, affluiva tanta da creare problemi di vario genere.
Quest’uomo straordinario era però segnato da uno sguardo in cui si ravvisavano i segni di una lotta interiore tra avversi sentimenti le cui vibrazioni si riflettevano con evidenza sui suoi tratti somatici. Nel suo viso si leggeva una vena di disperazione.
Il suo aspetto, nella sua deformità, raggiungeva però un che di distacco, quasi aristocratico, nei contatti con la gente.
Non scriveva le sue poesie perché analfabeta; le teneva a memoria e le recitava soltanto in presenza di persone di suo gradimento, ma si serviva delle sue facoltà poetiche estemporanee per rispondere in rima a coloro che lo schernivano.
Come le persone nane, raggiungeva una breve altezza ed i suoi arti ridotti accrescevano la sua deformità. Non aveva, per questo mai voluto accettarsi e disperatamente rifiutava il mondo minimo dei nani, ma ciò non riusciva a lenire il suo travaglio interiore.
Raggiungeva talvolta momenti di tale sconforto da sprofondarlo in crisi acute debilitanti che lo conducevano all’insonnia cronica. Il fatto straordinario che interessò il mondo intero e del quale si parla ancora, avvenne in una delle sue tante notti insonni sotto un cielo fortemente stellato, presente l’astro verde dei poeti che conferiva un’atmosfera un po’ sinistra per la sua fredda luce che tutto appiattisce.
Kusna insonne passeggiava tra i carri del suo teatro ambulante alla periferia della città. Il paesaggio dolente delle notti lunari sembrava accrescere quanto si agitava nel cuore del nano che rivolto all’astro con gli occhi gonfi di lacrime monologava tutto il suo dolore. Era come una confessione catartica liberatoria che ogni volta lo spossava al punto di sfinirlo, per cui spesso veniva trovato alle prime luci dell’alba addormentato sotto uno dei carri della compagnia.
Lo sfogo dell’anima rivolto alla luna era sempre basato sulla sua deformità e su un grande, immenso desiderio conseguenziale: poter volare. Voleva sollevarsi; era la sua grande aspirazione come per tutti gli uomini, ma per lui avrebbe costituito l’occasione per allontanarsi da questo pianeta ove riteneva di essere tollerato.
In momenti di maggior sconforto era stato anche sfiorato dall’idea del suicidio, ma sapeva di non averne il coraggio.
Fu appunto in una delle tante notti insonni trascorse a frantumarsi l’anima che, rivolto alla luna, avvenne quello che tutti chiamarono miracolo.
Kusna, l’uomo ridicolo e deforme, l’uomo ammirato e beffeggiato da tanti, ebbe un violento improvviso tremore, vibrò in tutto il corpo e capì che qualcosa di grande stava per accadergli; si sentì sollevare di pochi centimetri in modo incerto da una forza misteriosa che lo spinse decisamente e sempre di più verso l’alto.
Superò l’altezza dei carri ed ebbe chiaro ciò che avveniva. Volava davvero e, presto, aperte d’istinto le braccia e le gambe rachitiche, diresse il volo con tanta felicità mista ad una certa apprensione. Si era sollevato, dunque, notando subito una certa attrazione verso la luna, ma il fatto strabiliante in sé ne conteneva un altro e cioè che volando lasciava dietro di sé una scia luminosa di un bel colore argenteo che presto fu notata da quelle persone che non potendo riposare per la calura estiva notturna s’erano affacciate alle finestre e alle terrazze in cerca di refrigerio.
La prodigiosa visione produsse un urlo prolungato che svegliò tutti. La piazza centrale di Eleù fu presto colma di gente incuriosita che manifestava nelle forme più strane il proprio stupore.
Kusna volava e sembrava galleggiare nell’aria notturna.
La gente estasiata era tutta rivolta, naso all’insù, ad ammirare le evoluzioni leggere che compiva il nano e molti si convinsero che non poteva trattarsi di un uomo del loro tempo, bensì di un essere che viveva tra loro in un rapporto ed in una dimensione diversa.
Kusna giunse veramente in alto ed immergendosi nello spazio infinito che lo accoglieva notava sotto di sé la moltitudine che servendosi di torce accese prese da grandi falò le agitavano in segno di saluto.
L’abbraccio visivo sotto il freddo sguardo della luna era infinito; il paesaggio sotto di sé assumeva la trama arabescata della filigrana d’argento ed il fiume era una contorta piatta lama di quel metallo prezioso. Lontano il mare gli sorrideva con riflessi di celluloide.
Percepite queste sensazioni vibranti potè prestare orecchio a qualcosa di indefinito musicale che gli giungeva da molto lontano.
Era come un suono d’arpa in una melodia senza trama, tutta arpeggi che si susseguivano ora maestosi ora guizzanti perdendosi presto in echi lontani. Non se ne spiegava la provenienza e tutto ciò accresceva la percezione tattile di qualcosa che Kusna aveva lontanamente immaginato e viverla adesso coronava le sue aspirazioni sofferte. Erano d’incanto scomparse tutte le ansie che avevano macerato il suo spirito, ora galleggiava nella beatitudine e guardava senza astio gli uomini come insetti striscianti. Non provava alcun sentimento nei loro confronti, viveva i suoi momenti di estasi nella certezza di compiere qualcosa che a loro non era permesso.
Era la rivalsa sulle umiliazioni subite e gli bastava.
Vagò ancora in ampie volute ora concentriche, ora ellittiche variando spesso le altezze fino a sentire l’urlio della folla gesticolante tra i falò. In questo vagare senza meta, la scia luminosa che si lasciava dietro disegnava, per chi guardava dal basso, delicati arabeschi come disegno di antiche ceramiche orientali.
Saziato il suo spirito e la sua sete d’avventura in quelle evoluzioni fuori dal pensiero umano, Kusna fu preso da quello che era stato il suo tormento cocente che, unito al desiderio d’elevazione, avrebbe dato significato al suo volo. Aveva pensato di allontanarsi da Eleù per luoghi sconosciuti al di là del grande mare, forse al di là della terra che lo respingeva. Aveva pensato a pianeti lontani e fu proprio tentato di farlo.
Ci riflettè abbastanza mentre s’inebriava del vento sul viso, ma non pervenne ad una soluzione poiché all’improvviso ebbe davanti a sé le immagini rasserenanti dei suoi piccoli amici che aveva lasciato giù e che in quel momento dormivano beati; quei bimbi di cui si circondava e dai quali riceveva l’unico conforto alle sue sofferenze spirituali. Erano i suoi veri amici cui dedicava ogni suo tempo libero con improvvisazioni, scioglilingua e proverbi; citava spesso le massime di antichi filosofi ed il suo incedere unito ad un atteggiamento distaccato verso gli uomini ne profilava una figura di antico saggio.
Fu preso da grande tenerezza e riflettè che allontanandosi avrebbe perduto il loro mondo e la loro vitalità.
Era questo certamente l’unico legame con la gente di Eleù.
Non vi avrebbe rinunciato.
Il suo volo durò qualche ora e la scia luminosa d’argento cominciò a non notarsi più chiaramente per l’alba che elargiva la sua luce. Compì ancora una voluta più ampia delle altre e cominciò ad abbassarsi in prossimità del campo ove stazionavano i carri della sua compagnia.
Fu un accorrere scomposto di quella gente che aveva seguito il volo; un vero delirio prese la folla che voleva toccare quell’essere deforme che aveva avuto la fortuna di realizzare il sogno nato con l’uomo; voleva conoscere di persona le impressioni del nano ed il segreto di quel misterioso volo.
Kusna, felice della sua esperienza, ma anche terrorizzato dall’accoglienza, ebbe il vestito ridotto a brandelli e se non fossero intervenuti gli attori della sua compagnia a proteggerlo sarebbe rimasto calpestato da migliaia di persone incoscienti.
La folla lo reclamò a gran voce per molto ed il suo carro rischiò più volte di essere rovesciato, finché, pregato dai suoi amici, non ne uscì nella luce del mattino e salito di un balzo sul tetto impose con un largo gesto delle braccia il silenzio. Ottenutolo, spiegò come potè a gran voce il mistero del suo volo. Disse anzitutto che non vi era segreto, ma che si trattava di una chiara attrazione della luna e specificò le sensazioni provate prima e durante l’elevazione. Trattavasi dunque di un fenomeno quanto mai personale.
Tra quanti ascoltavano, però, i più intemperanti lo interruppero spesso additandolo agli altri come un mistificatore che teneva per sé un segreto che avrebbero voluto conoscere tutti per poterlo imitare; e per fare ciò, nei giorni seguenti, molti ne ebbero le ossa rotte; si lanciavano infatti dalle finestre e dalle terrazze sicuri di poter realizzare quel desiderio. Vi fu anche un morto per la sconsideratezza di un tizio che si lanciò disinvolto da una rupe certo di poter effettuare quanto era privilegio del nano. La folla tumultuava ogni fine volo e qualche sassata giunse in direzione di Kusna.
Con la luna nella sua fase piena, il nano diede ancora spettacolo di sé, ripetendo la sua straordinaria impresa ed ancora la folla tenne lo stesso comportamento.
***
Molta gente lo definiva un essere d’altri mondi venuto ad Eleù chissà per quale misteriosa missione, per ripartirsene appena l’avesse espletata. Qualcuno preannunciava una tragedia e c’era chi vedeva già la fine del mondo.
L’invidia verso quell’ometto deforme crebbe smisuratamente e tanta gente danarosa, compresi sultani, re e regine d’altri luoghi avrebbero pagato qualsiasi cifra per esaudire l’antico desiderio nato con l’uomo.
Kusna a quelle richieste divenne più distaccato, quasi non parlò più, capì che si interessavano alla sua grande esperienza e non a lui uomo come riteneva d’essere. Fu ripreso dall’antica tristezza ed i soli momenti sereni furono quelli che trascorreva con i bambini verso i quali indirizzava la sua innata, ma celata dolcezza. Trascorso il ciclo lunare positivo per il volo, Kusna tornò a recitare con rinnovato successo arricchendo le casse della sua compagnia che lo considerò un benefattore. Si limitò però a condurre una vita privata da solitario; gli unici contatti che creava erano indirizzati ai bambini di cui si circondava. Con loro tornava fanciullo e per loro sperimentava nuove attrazioni. Era tanto amato da quei piccoli amici ai quali raccontava fiabe che narravano di altri mondi e ciò accresceva tra la gente l’idea che egli ne fosse un abitante trasferitosi tra gli uomini.
I bimbi lo ammiravano tanto e s’incuriosivano ogni giorno di più della figura di codesto nano così strano ai loro occhi, finché, saputo dei suoi voli notturni, non gliene chiesero una dimostrazione. Kusna valutò la loro richiesta e promise di esibirsi ancora e magari con loro. I piccoli attesero con ansia l’evento del nuovo ciclo lunare e nella prima notte di luna piena ebbero gli occhi pieni di ciò che avevano sentito dire, ma i pavidi genitori si opposero all’affidamento dei propri figli per una esperienza che ritenevano pericolosa.
Soltanto una persona, un vedovo di pochi mesi acconsentì per le insistenze del suo piccolo e glielo affidò con malcelata trepidazione. Kusna, chiesto il silenzio, esplicato il rituale della recita alla luna di una lunga filastrocca che sembrava più una preghiera, si sollevò lentamente con il piccolo amico tra le braccia in armoniose volute. La folla impazziva rapita dalla suggestione della visione. Il piccolo gioiva dell’esperienza che compiva e si affidava fiducioso a Kusna che lo portò al di là delle colline in vista del mare che non conosceva.
L’alone che emanavano e la scia che si lasciavano dietro indicava esattamente il punto in cui si trovavano per cui il riferimento era facile, ma essendosi spinti al di là delle colline sparirono alla vista di tutti producendo viva apprensione tra la gente, tanto da far malignare qualcuno che avanzò l’ipotesi della scomparsa in connessione al rapimento del piccolo.
Si produsse un pesante silenzio carico di riflessioni, ma presto costoro dovettero ricredersi e tirare un sospiro di sollievo. Kusna ricomparve in volute dolcissime arabescando il cielo notturno e la folla fu entusiasta come le volte precedenti.
Ridiscesero lentamente e l’atterraggio avvenne nei pressi del campo da dove si erano elevati. Furono subito circondati da migliaia di persone che avevano assistito a quella nuova edizione del volo, ma il bimbo frastornato dall’emozione ed intimorito dalla folla vociante cominciò a piangere in attesa del genitore che manifestò il suo orgoglio e la sua fiducia nel nano. Ciò scatenò nei presenti il desiderio di poter fare altrettanto con i propri piccoli ed in tanti chiesero a Kusna a gran voce di ripetere l’escursione aerea. Kusna a quel punto, pur tra la confusione del momento, traboccò d’ironia sul comportamento della gente e fu combattuto da diversi sentimenti verso coloro che lo avevano per anni insultato, deriso e considerato un essere inferiore.
Quello sarebbe stato il momento più adatto per rivalersi di tanta sofferenza spirituale mettendo in atto una forma di vendetta che gli attraversò fulminea la mente.
Non riuscì a cacciarla via, picchiava il suo cervello ostinatamente e il suo sguardo si fece più duro verso quella gente che implorava scompostamente di essere accontentata. Avrebbe voluto rifiutarsi per coloro che gli avevano manifestato il diniego all’affidamento dei piccoli e quell’idea tragica si fece strada nella sua mente ottenebrata. Sarebbe stato facile caricarsi quattro bambini, compiere un bel volo giungendo molto in alto e da quell’altezza liberarsene in un sol colpo allontanandosi verso l’infinito dove avrebbe voluto il destino. Era accorato ed accecato dai suoi sentimenti. Voleva una rivalsa all’usura del suo spirito, e credeva d’averla trovata.
***
In realtà non gli era facile prendere quella struggente decisione perché era combattuto dall’immenso amore per i piccoli amici, unici esseri che davano significato alla sua vita, e l’odio che nutriva per quella gente insensibile. Rimandò la decisione; nell’altalena di quei sentimenti annunciò che avrebbe portato in volo quattro suoi piccoli amici.
La notizia si sparse subito e molti giovani salirono di corsa in collina per accendere i falò e assistere da una posizione migliore.
Kusna si predispose alla partenza ed anche stavolta nel silenzio più assoluto si concentrò rivolto alla luna alla quale ripetè la lunga filastrocca che diceva grosso modo:
Luna gialla, luna gialla
il tuo viso è come palla
che sorride misteriosa
nella notte tenebrosa.
Fai che io venga a te
con i bimbi su di me;
lascia ch’io possa volare
per poterti più ammirare
da lontano e da vicino
con in braccio un bel bambino.
Rinnovato dunque il rituale dei preliminari del volo, gli amici attori gli caricarono nelle posizioni che egli stabilì quattro bambini un po’ esitanti, ma con tanta voglia di fare l’esperienza del loro piccolo amico.
Kusna, trasfigurato dalla tensione psicologica, impartiva le direttive del momento e quando il gruppo fu formato ne risultò vivo di una bella estetica; creavano un insieme scultoreo molto originale. I bimbi erano stati posizionati a due a due sulle sue braccia e gambe divaricate.
Nel silenzio che si creò, alla sola luce di quella luna amica, il blocco umano si sollevò piano di breve altezza, come per farsi ammirare roteando su se stesso; appena fu visibile da tutti si scatenò l’urlo della folla entusiasta.
I genitori dei piccoli prescelti aggiunsero urlando altre raccomandazioni ai loro figli e lo spettacolo mai concepito dal pensiero umano, ricominciò. Tra la gente, tanti vociavano entusiasti e tanti restavano muti, ammirati e perplessi.
I bimbi a cavalcioni sul nano, aggrappati al vestito ed anche ai lunghi capelli sorridevano di un sorriso stentato combattuto tra la paura e la novità, ma perdurando il volo si rilassarono alle frasi rasserenanti del loro amico che indicando il paesaggio sottostante ne descriveva le caratteristiche.
La folla rumorosa con il naso all’insù seguiva con interesse e trepidazione il volo ampio sopra di sé, commentando e indicandosene le variazioni.
I piccoli, tranquilli, ora avevano l’ardire di guardare dietro di loro la scia luminosa e silenziosa, ma soprattutto l’alone di luce in cui erano inseriti; dal basso infatti erano perfettamente visibili. Uno spettacolo veramente unico che si svolgeva con naturalezza. Rilassati ed allegri i bimbi conversavano con Kusna che aveva una risposta a tutte le loro curiosità. A poco a poco anche per loro giunsero quegli arpeggi che avevano incantato Kusna. Non si riusciva a capire se fosse vera musica strumentale o provocata dal vento su di loro. Restarono muti, sopraffatti dall’emozione e nel silenzio assoluto di quelle quote godevano dell’esperienza che stavano vivendo. L’allegria che li accomunava raggiunse il massimo quando Kusna propose di superare le colline e di andare a conoscere il mare. Quello fu il momento più doloroso della vita di Kusna poiché quell’idea tragica tornò a proporglisi come una spina nel cervello.
Avanzava lentamente in direzione del mare e nelle pause di chiacchierio dei piccoli tornava la dolce musica celestiale.
Tutto era immerso in una calma primordiale degna delle lontani origini dell’uomo e della creazione. Kusna era adesso assorto in mille pensieri che si contrastavano ed i piccoli, ignari e felici, cantavano addirittura. La vista del mare fu salutata da grida scomposte di gioia al punto che Kusna impose loro di stare fermi ai loro posti per non compromettere la stabilità del volo; uno dei piccoli stava infatti ponendosi in piedi.
L’immensa distesa d’acqua, al di sotto di loro, rifletteva la pallida luce lunare assumendo l’idea di una pianura infinita dove chiunque si sarebbe perduto. I bimbi chiesero di abbassarsi di quota per vedere da vicino quell’immenso fenomeno della natura.
Furono accontentati e rimasero silenziosi dinanzi a quello spettacolo che sorvolavano da pochi metri e tale fu la visione di vastità che presi da sgomento chiesero di tornare indietro dai genitori. Quello fu il momento della verità per Kusna che, oppresso dai suoi sentimenti in lotta, sentiva agitarsi dentro tutto il risentimento verso chi lo aveva tormentato, ma l’affetto verso i suoi piccoli amici servì a mitigare quel sentimento che non prevalse. La sua mente turbata ebbe il conforto della saggezza.
***
Kusna compì una larga virata verso la costa, ormai illuminato nella mente dall’amore immenso per i suoi bimbi cui si legava ogni giorno di più. Non avrebbe potuto rinunciarvi, sarebbe stato come spezzare l’unico filo che lo legava alla terra anche se in particolari momenti egli stesso nutriva dubbi sulla sua appartenenza al genere umano.
Eppure un solo gesto fisico sarebbe bastato per scaricarsi di quel carico indifeso ed allontanarsi verso un destino ignoto.
Sarebbe stata la sua terribile vendetta verso gli uomini, ma della quale non si sarebbe sentito ripagato interamente poiché sarebbe rimasta scolpita come da ferro rovente nel suo cuore.
Cancellò di prepotenza quei pensieri e si sentì svuotare nel suo intimo di ciò che lo aveva oppresso.
S’indirizzò verso la costa e già s’intravedevano le tremolanti luci dei paesi. La gente ad Eleù era quanto mai agitata per la scomparsa ai loro occhi del nano con i piccoli ed i maligni ebbero l’occasione per paventare ogni sorta d’evenienza tragica, quasi consapevoli delle idee di Kusna, dando dell’incosciente a quei genitori trepidanti che si erano fidati.
Ma un urlo altissimo scosse l’afosa serata quando Kusna, avvistato dalla gente salita in collina lo segnalava con un frenetico agitare di rami accesi.
L’urlo della folla entusiasta e tranquillizzata fu lungo e ne fu udito distintamente il fragore da Kusna che si preoccupò per la fase d’atterraggio. A quella operazione, come di solito, provvidero a fatica gli amici attori e molti volenterosi che spinsero indietro tanta gente per tenere sgombro il punto esatto dell’atterraggio. Fu creata una grande circonferenza con uomini dalle torce accese ed un’altra concentrica mediante uomini saldamente tenuti a braccia tra di loro.
La gente premeva poiché, appressandosi la fase dell’atterraggio, voleva distinguerne da vicino ogni azione. Il clamore era altissimo e molti furono ridotti malconci per il delirio.
Kusna giunse al di sopra della piazza di Eleù, compì un’ampia voluta sulla folla salutando e si diresse in periferia dove era pronto lo spazio per posarsi. Anche lì compì due giri sulla folla festante e poi abbassandosi lentamente al centro dell’area destinata toccò terra con i bimbi raggianti.
La folla premeva sconsideratamente e sarebbe accaduto l’irreparabile se Kusna, una volta atterrato, non avesse avuto la presenza di spirito di salire di un balzo sul tetto del suo carro dove, calmata la folla con un ampio gesto delle braccia, chiese il silenzio che gli permise di ringraziare tutti per l’accoglienza e di informare con la sua voce profonda del divertimento dei piccoli per quell’esperienza.
Come era da prevedersi si rinnovarono ad alta voce le richieste di tanti che chiedevano d’insegnar loro il segreto del suo volo e Kusna tornò a spiegare che si trattava di un fattore molto personale, chiudendo il discorso con la sua disponibilità per voli successivi con altri fanciulli.
Nelle sere seguenti infatti, perdurando la fase lunare favorevole, portò in volo tanti bimbi felici. Kusna era proprio il loro idolo e gli si affidavano con fiducia, ma non appena giunse la fine del plenilunio il nano tornò alle sue esibizioni artistiche accanto ai suoi amici teatranti pur avendo ricevuto favolose offerte al fine di trasferirsi nelle maggiori capitali d’Europa dove, oltre ai trionfi, avrebbe ricevuto grandi ricchezze.
A nulla valsero codesti inviti su basi di concrete proposte di denaro e così le grandi prospettive per strapparlo alle sue esibizioni provinciali. Non valsero nemmeno certe velate minacce.
Egli chiedeva di essere lasciato in pace nel luogo dove aveva ricevuto quell’immenso dono. La sua unicità lo appagava del tutto e non chiedeva altro.
Nulla dunque interessò Kusna al di fuori del suo teatro, delle sue acrobazie e dei suoi piccoli amici. Continuò a strabiliare il pubblico ogni sera in ogni modo e nella gente subentrò un senso di rassegnazione circa la possibilità di poterlo imitare.
Eleù si svuotava nel periodo di luna mancante e la vita cittadina tornava quasi come prima, ma già aveva acquisito un aspetto diverso per l’enorme quantità di denaro che si era riversato nelle casse dei commercianti e del Gran Visir Azir che impose un oneroso pedaggio ai forestieri. Eleù cambiò aspetto, adesso era più curata, le strade migliorate ed alberate, le facciate dei palazzi ridipinte; c’era un’aria più pulita e festaiola. Anche la compagnia d’arte ebbe i suoi vantaggi economici, ma Kusna finì odiato da coloro che non ne ricavarono alcunché essendo contadini o impiegati dipendenti.
Costoro si accanirono su quell’essere deforme rendendogli la vita più infelice. Il Gran Visir, informato delle vessazioni cui era sottoposto il nano da una certa minoranza, cercò di proteggerlo per il proprio tornaconto, ma come l’erba cattiva alligna tra quella buona guastandola, così l’invidia per quell’infelice toccato da una luce straordinaria crebbe, si ramificò e mise radici profonde.
In un livido mattino d’inverno, Kusna fu trovato morto sul greto del fiume in un’ansa nascosta agli sguardi dei contadini. Non presentava ferite, sembrava dormisse. Non si seppe mai se fosse stato ucciso o si fosse suicidato. Le due ipotesi erano entrambi valide e furono oggetto di discussioni per anni. La città fu in lutto e in tanti piansero il nano per il soffio di novità e prosperità arrecato, consegnando il suo nome e quello della città ai posteri che ancora ne parliamo.
Oggi, nella piazza centrale di Eleù un monumento ricorda quel caso così affascinante. Il ricordo delle imprese mirabolanti di Kusna è ancora vivo tra la gente. Il monumento lo ripropone nell’atto di volare con i suoi piccoli amici in groppa, festanti.
Ad Eleù i vecchi raccontano ancora ai bambini la favola di Kusna, il nano volante.
In copertina: Mario Tornello “Ritratto di amico”, 1987, acrilico